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Autore: KyraPottered22years    30/06/2016    3 recensioni
27th Court Road, Edimburgo, 1996.
E' proprio qui che tutto ha inizio, è proprio in un freddo giorno d'inverno che Amelia Helbinger, una bambina timida e codarda, trova un passaggio segreto che la conduce in un mondo completamente diverso da quello in cui abita; un mondo popolato da Æsir e non da esseri umani, un mondo dove magia e creature con capacità eccezionali sono del tutto normali.
Sembra un sogno, tutto sembra così irreale che perfino una bambina piena di fantasia come Amelia stenta a crederci. Ma come potrebbe negare a sé stessa l'esistenza di Loki, il suo amico dagli straordinari poteri magici, anche se sua madre e il suo psichiatra lo considerano "immaginario"?
Come può essere frutto della sua immaginazione se Amelia farà ritorno in quel bellissimo mondo altre due volte?
E come ci si potrebbe sentire quando una verità così irreale, che è stata depistata dalla vita di una ragazzina per tutta la sua adolescenza, diventasse una realtà così raccapricciante che metterebbe a rischio l'intero pianeta Terra?
Ragione o follia?
Verità o menzogna?
Odio o amore?
[Pre-Thor] [TheAvengers]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Wahnssin

 
       
                                        "La memoria è come il mare:
                           può restituire brandelli di rottami a distanza di anni."
                                                                    -Primo Levi.
                                          
2012, New York


Aprì gli occhi lentamente, fu la luce soffusa che traspirava dalle finestre a svegliarla.
Erano le sei di mattina e il quartiere iniziava a diventare rumoroso e caotico come sempre. Amelia si alzò a sedere, prese la solita pillola dal barattolino e la ingoiò senza aver bisogno di un sorso d’acqua.

Si preparò in fretta e corse via da quell’appartamento sudicio e sporco che chiamava casa.
Imprecò quando dopo i primi passi verso la metropolitana iniziò a piovere. Negli ultimi giorni non faceva altro che piovere.

Legò più stretto il cinturino del cappotto, si strinse la borsa tracolla al fianco e ringraziò di aver indossato le scarpe da ginnastica e non le inutilissime Converse.

Arrivò alla centrale con cinque minuti di ritardo. Passando inosservata, si sedette sulla sua sedia e accese il computer e gli altri apparecchi elettronici intorno a lei.

Iniziò a continuare il suo lavoro di ricerca e calcoli che aveva interrotto il giorno prima.

*

Dopo aver finito la scuola superiore, aveva preso una laurea triennale in fisica, riuscendo a laurearsi con i migliori voti. Aveva trovato lavoro come assistente in uno studio di ricerche a Londra, ma Amelia voleva andare via dalla Gran Bretagna, voleva dimenticare quella terra. Era riuscita a riprendersi perfettamente (e anche fin troppo velocemente) dalla sua depressione, non appena uscì dall’Ospedale Psichiatrico si rimboccò le maniche per recuperare i mesi di scuola persi, riuscendo a ritornare a cavallo con gli studi.

Dopo tante difficoltà e problemi, aveva finalmente reso i suoi genitori fieri di lei.

Due mesi dopo aver abbandonato il suo posto di lavoro si trasferì negli Stati Uniti, New York.
Fu difficile trovare lavoro, ma una sera in un pub, dopo varie settimane di ricerche e fallimenti, Amelia si stava concedendo un bicchierino di bourbon quando un uomo si sedette accanto a lei per scambiare quattro chiacchere.

«Che ci fai qui tutta sola?» Le aveva chiesto con un bel sorriso stampato sulle labbra. L’uomo era affascinante, ma Amelia non era una persona che si lasciava abbindolare facilmente.

«Potrei chiedere la stessa cosa a te.» Era di sicuro sulla soglia dei trenta o trentacinque anni.

«Io sto festeggiando.»

«Da solo? Mmh, abbastanza triste.» Commentò piano, prendendo un sorso.

L’uomo rise divertito, nella sua mente stava cercando di capire le origini della ragazza dal suo accento molto marcato. «Beh, meglio soli che male accompagnati, no?»

«Concordo pienamente.» Sperò che se ne andasse via, ma quello continuava a fissarla e Amelia desiderò di affogare negli ultimi sorsi di whiskey.

«Qualcosa mi dice che non sei felice.»

«Tu come fai a sapere se lo sono o no?» Lo guardò mentre posava il bicchiere rumorosamente, non fu una cosa voluta, la condensa le fece scivolare il vetro dalle dita.

«E’ da quando sei entrata qui che non sorridi.»

«Forse non mi piace sorridere.»

«A chi non piace sorridere?»

Fece spallucce e ordinò un altro bourbon. Mentre il barista riempiva di whiskey il bicchiere, salutò in modo molto amichevole e confidenziale l’uomo vicino ad Amelia.
«Dan, non importunare le mie clienti.»

«Dovresti congratularti con me, Pete.»

«Congratulazioni per cosa? Per essere un coglione?»

Amelia non riuscì a trattenere un piccolo sorriso divertito.

«Mi hanno preso, Pete. Hanno accettato la mia domanda di lavoro!»

Il barista posò la bottiglia in un tonfo e guardò l’amico con gli occhi fuori dalle orbite. «Mi stai prendendo per il culo?! Ti hanno preso nello S.H.I.E.L.D?»

Amelia, che stava disegnando figure sul vetro del bicchiere, guardò sorpresa l’uomo che sedeva accanto a lei.

Aveva sentito parlare dello S.H.I.E.L.D, le sembrò impossibile quello che aveva appena sentito.

Dan imprecò contro il suo amico, insultandolo per aver urlato ai quattro venti una cosa privata. Meno si parlava di quell’organizzazione, meglio era.
L’uomo raccontò cosa c’era scritto nella e-mail che gli avevano mandato quel pomeriggio e quando a Pete, il barista, toccò servire altri clienti, Dan continuò il suo racconto esclusivamente ad Amelia, che ascoltava con attenzione.

«Congratulazioni, allora. Piacerebbe anche a me festeggiare per un posto di lavoro del genere.» Commentò con una punta di tristezza che Dan riuscì a cogliere.

«Tu dove lavori?»

«Ho abbandonato il mio posto da assistente per trovare lavoro qui, ma…» Si rese conto che quella era la prima volta da quando si era trasferita che parlava così liberamente con qualcuno.

«Non hai trovato niente?»

«Gli stipendi sono troppo bassi e se sono alti pretendono ore extra che non mi posso permettere per motivi di salute.»

Dan restò un attimo in silenzio, comportamento strano dato che Amelia gli aveva attribuito l’appellativo di logorroico. Si guardò in giro senza darlo troppo a vedere e si avvicinò a lei, così vicino che le guance pallide di lei presero una tonalità rosata.

«Domani mattina potrei passare a prenderti a casa tua e potremmo andare insieme alla centrale dello S.H.I.E.L.D. Sai, lì stravedono per giovani neolaureati con voti alti.»

Amelia sgranò gli occhi, incredula a quella proposta. «Ma non mi conosci nemmeno.»

«Voglio aiutarti e io sono una persona generosa.» Si allontanò da lei per prendere un sorso di vodka.

«Lo faresti davvero?»

«Solo se stasera sorriderai più spesso e anche domani mattina… e gli altri giorni.»

Le scappò un sorriso, si morse l’interno del labbro inferiore e scosse la testa come per constatare se stesse vivendo in un sogno o nella realtà.

«Solo questo?»

«Facciamo che se ti danno un lavoro, dovrai andare a cena con me.»

Amelia scoppiò in una risata.
«Grazie, io… non so come… grazie.»

Ma quello rispose solo dopo un po’, perché rimase a guardarla come solo un’amante dell’arte guarda il suo dipinto preferito.

«Sei bellissima.»

Adesso il rosa nelle sue guance divenne rosso come la sua chioma.

«Il tuo nome è Dan e basta?»

«Daniel Jones, trentadue anni, Kentuky, laureato in ingegneria aereo spaziale.» Si strinsero la mano e quel gesto le ricordò tanto qualcosa che non ricordava da tanto tempo.

«Amelia Helbinger, ventiquattro anni, Scozia, laureata in fisica.»

«Oh mio Dio, sei scozzese?»

«Lo sono.» Confermò in una risata.

«Okay, Pete! Fai un altro bicchiere alla nostra amica scozzese.»

«Senz’altro, fratello!» Gli rispose dall’altra parte del bancone. Quando l’uomo di colore arrivò da loro, disse: «Non ti fare offrire altri drink, ragazza, questo è un maniaco seriale.»

«Figlio di puttana.»

«Hai appena insultato tua zia, sai?»

Quella sera Dan insistette per accompagnarla a casa con la scusa di imparare la strada per andare a prenderla l’indomani mattina.
Amelia andò a letto brilla e finalmente felice.



Le dita stringevano fin troppo forte la cartella dove teneva il suo curriculum. I piedi poggiavano il suolo dell’auto con le punte, le caviglie tremavano e le ginocchia si muovevano su e giù convulsamente.

Se Dan non avesse saputo che quello era un tic nervoso, avrebbe giurato che Amelia aveva urgenza di andare al bagno.

Posteggiò e si mise le chiavi in tasca.

«Sai, non sei l’unica ad essere ansiosa.»

«Ansiosa? Sto per avere un infarto precoce.» Aveva preso una doppia dose di ansiolitici quel giorno, ma a quanto pareva non erano serviti a nulla, avrebbe potuto prendere una boccetta intera di pillole e non le avrebbe fatto comunque nessun effetto.

«Hey» la chiamò con un tono dolce e le prese inaspettatamente la mano, staccandogliela dalla cartella. «sei grande, ce la farai.» Amelia rimase stupita da quel gesto, così tanto che senza sembrare maleducata o antipatica sfilò la mano dalla sua presa con un mezzo sorriso.

Uscirono dall’auto e si avviarono verso l’enorme struttura della centrale S.H.I.E.L.D.
Amelia non aveva mai visto niente di così maestoso e moderno. O… forse sì.

Entrarono dalle porte automatiche, superarono dei controlli per la sicurezza e si recarono da una delle tante segretarie del bancone di informazioni.

Prima di parlare alla donna, Dan rivolse un piccolo sorriso di incoraggiamento ad Amelia.

«Buongiorno,» con questo saluto riuscì a catturare l’attenzione della segretaria, che gli rivolse un sorriso a trentadue denti, così tirato e perfetto che Amelia si chiese per quanti anni aveva portato l’apparecchio alle superiori e se i suoi vecchi compagni di scuola la prendevano in giro. «il mio nome è Daniel Jones, oggi dovrebbe essere il mio primo giorno di lavoro e…»

«Aspetti un secondo, cerco subito il suo settore.» Non appena rivolse lo sguardo al computer quel sorriso svanì dalle sue labbra alla velocità della luce. Chissà se era di copione sorridere così tanto, sembrava stancante. «Settore otto del dodicesimo piano.» Disse scandendo le parole, come per mettersi sul sicuro di non doverlo ripetere più.

«Perfetto, grazie.»

Ma i due rimasero ancora lì e quella li guardò con il suo sorriso isterico. «Cos’altro posso fare per voi?»

«Ecco, questa è una mia amica, vorrebbe avere un colloquio per…»

«Posso avere il suo curriculum?»

I due guardarono Amelia.

Respirò affondo, aprì la cartella con dento il fascicoletto e glielo porse.

«Mh… fisica. L’agente Maria Hill si occupa delle richieste di lavoro su questo settore.»

«E…» uscì dalla bocca di Amelia, parlando per la prima volta. «la signora Hill è qui?»

«I colloqui inizieranno tra un minuto, se la signorina è velocissima può riprendere il curriculum, fare una firma e salire al settimo piano settore due senza perdersi.» Quelle parole sembravano intrise di ironia.

L’insicurezza sparì e fu sostituita dalla determinazione alla velata provocazione della segretaria dai capelli biondi.

«Mi dia il curriculum e mi faccia firmare.»

E così fu, la segretaria diede ad Amelia una card con il suo nome sopra da mettere sul petto a sinistra, come una spilla.

Congedarono la segretaria e si avviarono velocemente verso il primo ascensore. Dan spiegò velocemente dove si trovava il secondo settore e all’ultimo secondo le diede una piccola cartina orientativa della centrale.

«Mancano quindici secondi.»

«Buona fortuna.» Le augurò mentre le porte dell’ascensore si aprivano e lei scappava urlando un: «Grazie, Daniel!»

Corse velocemente verso il settore due e fortuna volle che a tre secondi di tempo rimasti, lei si trovava ancora al cinque.

Arrivò nella vasta sala e si precipitò (letteralmente) sul bancone dell’ennesima segretaria in quella struttura.

«Salve, sono Amelia Helbinger, sono qui per il colloquio di lavoro.» Disse così velocemente e così ad alta voce che quella sussultò sulla sedia e tutte le persone lì vicine si voltarono rivolgendole occhiate infastidite.
«Il colloquio è iniziato trenta secondi fa, puoi ritornare domani.»

«Ma sono trenta secondi, non un minuto!» Sbottò in protesta Amelia, che aveva ancora il fiato corto per la corsa. «Per favore, signora, ho bisogno di questo lavoro, non succederà nulla di male se lascerà passare, infondo sono trenta secondi non trenta minuti, per favore, per favore,  io…»

«Dio, ragazza, sembri mio figlio quando vuole le caramelle mou al supermercato!» Sbuffò quella, mentre firmava un foglietto che consegnò ad Amelia. «Compilalo e presentalo all’agente Hill durante il colloquio.»

Sulle sue labbra si dipinse un sorriso così largo che per un attimo si sentì come la segretaria bionda di prima. «Grazie mille, signora! Se passerò domani, le porterò uno Starbucks!» Bene, adesso aveva due promesse da mantenere.

Wow, la mia vita sociale sta migliorando notevolmente.

«Te lo dico io, ragazza, c’è un posto libero da due settimane e Maria Hill manda gente a casa da due settimane.» Il cuore di Amelia si frantumò. «E gente intelligente non è di certo mancata, quindi: buona fortuna.»

Rimase a guardare la donna con occhi spenti, privi della luce di cui si erano illuminati poco prima. Si voltò e andò verso il salottino d’attesa davanti all’ufficio di Agente Hill, si sedette e compilò il suo foglietto, mentre iniziava a cuocere nella sua ansia.

Un pezzo grosso dello S.H.I.E.L.D, si racconta che lei abbia anche avuto a che fare in prima persona con personaggi come Iron Man, Bruce Banner (meglio noto come Hulk, il mostro verde) e addirittura Captain America dopo il suo ritrovo nei ghiacciai.

Chissà come sarebbe stato incontrarli, o solamente lavorare in un posto dove anche (alcuni di) questi investivano o lavoravano.

Ma smettila di sognare, Amelia, non ti prenderanno mai. Dan ha avuto una sontuosa botta di culo e sicuramente la sorte non deciderà di regalarla anche a te.

Passarono due ore, in cui ogni donna o uomo che usciva da quell’ufficio faceva una di queste tre cose: piangere, bestemmiare, andare via con lo sguardo basso.

Quando venne il turno di Amelia, la ragazza prima di lei uscì correndo via in lacrime.

Imprecò e si alzò in piedi, camminò lentamente verso la porta e bussò.

Una voce soave, ma tirata e fredda la invitò ad entrare. Prima di abbassare la maniglia, Amelia guardò dietro di sé. Era l’ultima.

«C’è qualcuno, sì o no?»

Si diede della stupida mille volte nell’arco di un secondo. Aprì la porta ed entrò velocemente.

La donna che le si presentò davanti stava seduta con la mano a massaggiarsi la fronte, aveva la faccia di una che alle undici di mattina era già esausta. Aveva capelli scuri legati in uno chignon, un volto acqua e sapone e i lineamenti delicati, ma pieni di stanchezza e di rabbia.

«Tu sei l’ultima?» Le chiese e Amelia annuì. Si avvicinò alla scrivania e si sedette sulla sedia davanti. Maria Hill allungò la mano e le fece segno di darle qualcosa. Si sbrigò ad aprire la cartella e a darle il curriculum.
Ci furono due minuti di silenzio in cui l’agente leggeva velocemente il tutto con aria disinteressata e infastidita.

Amelia non aveva mai provato così tanta ansia, forse solo durante l’esame finale di laurea. Il cuore le batteva così forte che i battiti rimbombavano fino alla testa che pulsava all’unisono con il muscolo striato. L’aria le sembrava pesante e irrespirabile, la vista era offuscata, le dita tremavano sulle ginocchia.

«Che me ne dovrei fare di una ventiquattrenne laureata in fisica senza alcuna specializzazione, che parla il tedesco e che ha una sola e piccola esperienza di lavoro?» Con quelle parole pronunciate in modo così sprezzante e provocatorio, Amelia si sentì inutile, eppure, una strana sensazione di rabbia stava crescendo dentro il suo petto. «Assolutamente niente.» Gettò il curriculum sulla scrivania e girò la sedia verso il muro, dando le spalle.


«Chi diamine si crede di essere?» Le uscì di bocca e non ebbe tempo di pentirsene perché quando Maria Hill si voltò a guardarla con sorpresa, Amelia riprese a parlare: se doveva andarsene, tanto ne valeva andare via di lì a testa alta. «Può avere tutti i suoi motivi per essere stanca, ma questo non le permette di trattare chi sta seduto qui con i piedi, perché sa, anche io ho avuto delle brutte giornate e sono stanca e arrabbiata. E voglio un dannato lavoro… e se non è qui, bene. Troverò altro.» Riprese il curriculum e si alzò dalla sedia. «Buona giornata.» Camminò velocemente verso la porta, ma quando stava per toccare la maniglia l’agente Maria Hill la chiamò per il cognome.

Bene, ora me ne dice quattro pure lei.

«Siediti.»

Rimase a guardarla in piedi, solo dopo alcuni secondi andò a sedersi nuovamente.


L’agente la guardava con occhi inespressivi, ma carichi di un qualcosa che Amelia non riuscì ad identificare subito. «E’ da quattordici dannatissimi giorni che da quella porta entrano cervelloni super intelligenti, talenti della matematica e della fisica, pieni di specializzazioni e esperienze di lavoro fino al collo.» Era soddisfazione quella che aveva illuminato il volto antipatico della donna? Oppure Amelia se lo stava immaginando? «Li ho rifiutati tutti, e tutti sono andati via con la coda fra le gambe senza dire nulla. Solo tu hai tirato fuori le palle.»

Poco scurrile, eh. Amelia non capiva più nulla. «E’ un discorso di ammissione o di presa per il fondoschiena?» Domandò ormai al limite della sopportazione.

Maria Hill si alzò in piedi e andò verso la porta. «Seguimi, Helbinger.»

Amelia fece come le chiese e la seguì nei corridoi e in una sala piena di persone intente a lavorare ai computer o addirittura a trafficare su degli schermi olografici. L’odore di disinfettante diffuso in quella sala era piacevole.

«In questo posto ho bisogno di gente sveglia e intelligente, ma cosa più importante: determinata e spietata.» Camminarono fino a una scrivania vuota, con gli apparecchi elettronici spenti. «Qui non voglio secchioni che pensano che il cervello sia l’unica cosa che serve per lavorare bene.»

Maria la guardò come se Amelia dovesse dire qualcosa in risposta, così lei si limitò ad annuire e a mormorare un “certo, certo.”

«Oggi voglio vedere come lavori, per domani, si vedrà.» Si voltò senza nemmeno salutarla, ma prima di andare via, Amelia la vide parlare con una donna che a momenti sarebbe andata da lei per spiegarle cosa doveva fare.

Quel giorno di prova andò bene, almeno, così doveva essere dato che erano passati otto mesi e ancora stava seduta su quella sedia.

*

Era ora di cena e dopo la pausa avrebbero staccato alle dieci, valeva a dire circa due ore. Doveva essere in mensa insieme ai suoi colleghi, o in un fast food con Melissa o Dan, ma una strana e familiare sensazione l’aveva costretta a starsene da sola.

La stessa sensazione che aveva provato per tre volte, solo tre volte, in tutta la sua vita.

Quelle tre volte.

Lo stomaco sotto sopra, il cuore che faceva male e la testa in fiamme.

Poi tutto iniziò a tremare e un botto fece tremare i muri in un rumore tuonante e prorompente.

Il codice rosso fu annunciato per tutta la centrale e Amelia si ritrovò a raccogliere tutte le sue cose in fretta e a correre con una Beretta 92 carica nelle mani. Fortuna che le era stata affidata il giorno della sua seconda promozione o si sarebbe sentita più insicura di com’era già.

Scese per le scale e due piani più giù tantissimi agenti correvano ai depositi di auto o di armi e gli impiegati scappavano verso le uscite di sicurezza.

Da che parte doveva andare?

«Helbinger! Helbinger, mi ricevi?!» La chiamò Maria Hill attraverso il walkie-talkie.

«Agente Hill, cosa diamine sta succedendo?» Amelia si appoggiò ad un angolino, aspettando che la folla scemasse un po’.

«Un essere di provenienza extraterrestre ha usato il Tesseract come portale dal suo mondo per passare al nostro.» Dalla voce ansante sembrava ferita.

Quelle informazioni iniziarono a rimbombare nella sua testa in un climax terrificante, che pian piano le gelava le vene.

«Dove sei?»

«Non provare a raggiungermi, Helbinger! La centrale sta collassando! Vai via, mi senti?! Scappa!» Urlò.

Un sesto senso miscelato alla strana sensazione e al terrore le fornivano la risposta che tutto il suo corpo cercava di respingere.

Non esiste. Non può essere. Asgard non esiste. Lui non esiste.

«Ricevuto. Passo e chiudo.» Altre scosse fecero tremare l’intera base, i muri si riempivano di crepe e i vetri si rompevano scoppiando in mille pezzi. Alcuni frammenti finirono sulla sua guancia, ferendola.
Doveva andare via di lì. Subito.

Corse verso l’uscita di sicurezza, via dalla centrale.

Anche a metri di distanza l’asfalto tremava.

Corse più veloce che poteva verso un jet d’inseguimento, non aveva altra scelta se non salire senza alcun permesso.

Ignorò il rumore insopportabile del motore e saltò su prima che il mezzo potesse levarsi un altro metro da terra.

Colse di sprovvista i tre agenti, ma non le importava: era salva.

«Ragazza, che ci fai qui?!» Urlò un uomo non appena le porte del jet si chiusero. Quando si voltò, vide che si trattava proprio di Phil Coulson. «Non dovresti essere qui, non è il tuo posto.»

«Signore, o saltavo o morivo.» Parlò lentamente, il fiatone era ancora troppo affannoso e le gambe le dolevano malamente.

«Qual è il tuo nome?» Domandò Coulson, che tese una mano verso di lei in segno di aiuto. Afferrò la mano dell’agente e, tra alcune smorfie di dolore, si mise su in piedi.

«Amelia Helbinger, lavoro da otto mesi nello S.H.I.E.L.D e da poco-»

«Da poco frequenti il corso per diventare un’agente, lo so. Sei nella lista.»

Rimasero a guardarsi mentre Amelia riprendeva fiato. «E’ vietato sapere cosa sta succedendo?»

«Stiamo inseguendo il pazzo che ha rubato il Tesseract.»

Aveva lavorato giorni, come tutti gli altri scienziati e fisici, su quell’energia extraterrestre. Amelia, insieme ad altri del suo settore, si occupava degli sbalzi di temperatura del cubo azzurro.

«Chi è?» Fece quella domanda con una punta di paura presente nella voce.

«Dice di chiamarsi-» ma quello non riuscì a completare la frase che le orecchie di Amelia iniziarono a fischiare. Si accasciò al terra, si coprì le orecchie con i palmi delle mani e urlò.

Nella sua testa sentì una voce che aveva creduto fosse andata via da molto tempo.

Una voce graffiante, soave, ghiacciata, intensa sussurrò con stupore: «Amelia.»

 
  
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