Nibelheim.
E’ inverno. La neve fresca ricopre ogni
cosa, come un manto immacolato, rendendo l’atmosfera così pura, solenne. Mi
aggiro per le strade vuote, assaporando la calma e la pace di questi luoghi
così famigliari: il vecchio acquedotto, il bar della casa di Tifa, l’Inn, il
mulino, le montagne. Casa mia. Tutto è avvolto da un ovattato silenzio. Non c’è
nessuno per strada. Forse è troppo presto o… troppo tardi. Alzo lo sguardo
verso il cielo, ma esso è coperto da spesse nubi nevose, le quali stanno facendo
calare una lieve foschia sulla città. La luce, tuttavia, si sta attenuando. Forse
è il momento di rientrare. Mi avvio verso casa, quando un lamento attira la mia
attenzione. Mi guardo intorno, ma non c’è nessuno. Forse è il vento che spira
tra le montagne. Alzo le spalle e continuo il mio rientro. Fa sempre più buio.
Questa volta il lamento è divenuto più forte e ha assunto sfumature più umane. Non
è il vento, capisco. Lascio che sia il mio istinto a guidarmi, il quale mi
conduce alle porte di un sentiero che s’insinua nella foresta. Inizio a
correre, lasciando che quei gemiti mi conducano nell’intricata selva. A dir la
verità, il sentiero è ben battuto, è la notte a rendere questa foresta più
sinistra di quanto dovrebbe. A metà percorso capisco dove sono diretto: la
Villa abbandonata. Quando ero bambino, quella piccola magione rappresentava la
prova di coraggio finale per ogni ragazzino del paese. Ma nessuno di Nibelheim
l’ha mai davvero esplorata. Solo io, molti anni dopo. Quando la raggiungo, rimango
colpito nel constatare che non si tratta del rudere buio e decadente dei miei
ricordi. Luci giallastre e malate prorompono dalle finestre lustre, squarciando
l’oscurità della notte; movimenti nervosi formicolano all’interno dei corridoi,
come se tanti piccoli ratti ieratici siano rinchiusi in quella trappola; infine
una miriade di voci diverse rimbombano tra quei muri solitamente così
silenziosi. Tra quel vociare confuso e incomprensibile, una nota stonata si
eleva più in alto delle altre: lamenti chiari e acuti… infantili. Il tempo si è
fatto più rigido, dando le avvisaglie di una tempesta. Non me ne curo, poiché
la curiosità vince perfino il gelo. M’incammino verso il cancello. E’ serrato
da un pesante lucchetto. Studio le murate, camminando lungo di esse. Sembrano
invalicabili, ma ciò che più mi colpisce è il filo spinato che s’inviluppa tra
le arcuate lame difensive. Piegate verso l’interno. Rimango perplesso: cosa non
vogliono fare uscire? All’improvviso, un clangore metallico attira la mia
attenzione. Una figura scura sfila al di fuori dell’inferriata e viene ingoiato
da una macchina scura. Corro in direzione dell’auto e riesco a sbirciare
all’interno, adocchiando il viso del passeggero. Baffi, occhiali dalla
montatura spessa, viso pulito. Gast. Molto più giovane di quanto ricordo e
molto più addolorato. Noto che i suoi occhi verdi, pieni di rimpianto, guardano
colpevoli qualcosa alle mie spalle. Riflessa sul vetro dell’auto, infatti, vedo
tanta concitazione muoversi al di là di quel cancello. Non capisco bene cosa
stia accadendo. Improvvisamente, un altro clangore fortissimo mi fa soprassalire.
Mi volto, solo per trovarmi a faccia a faccia con LUI. Sephiroth. E’ un
bambino. Avrà una decina d’anni, calcolo. E’ ancorato al cancello e lo scuote
violentemente. La catena geme sotto i suoi colpi.
Già così
forte.
Il suo viso è una maschera di rabbia,
esplosiva, incontrollabile… disperata.
Già così
sofferente.
Piange, urla, implora il Professore di non
andare… di non lasciarlo solo.
Già così
incompreso.
Degli uomini lo afferrano al corpo, alle
gambe, alle braccia, staccandolo a fatica dal gelido metallo. Il freddo strappa
lembi di pelle dalle mani di Sephiroth, macchiando del suo sangue la neve
immacolata. E presto non sarà il solo. La disperazione è tale da non fargli
percepire nemmeno il dolore, in quanto combatte con tutto se stesso per
liberarsi dagli uomini che cercano d’immobilizzarlo.
Già così
combattivo.
Le sue dita, sebbene piccole e sottili, sono
degli artigli affilati capaci di lacerare la pelle come carta velina. Dove le
mani non arrivano, vengono sostituite dai denti, giovani e acerbi, ma
abbastanza forti da strappare lembi di carne.
Già così
letale.
Si divincola, strattona, tira, scalcia,
spinge… sembra in preda a una crisi convulsiva, tanto i suoi movimenti sono
esasperati e scoordinati. Non c’è logica, non c’è ragionamento, non c’è calma,
non c’è freddezza. C’è solo disperazione. Nuda, cruda e profonda disperazione.
Il rombo del motore alle mie spalle
distoglie l’attenzione da quell’orribile spettacolo. Mi rivolgo a Gast, ma il
vetro si è oscurato.
Egli non vuole vedere… non ha mai voluto
vedere la miseria. Non vuole ascoltare… non ha mai voluto ascoltare la
solitudine. Non vuole combattere… non ha mai voluto fronteggiare le sue colpe.
In fondo, è molto più semplice dimenticare,
fingere, scappare. Osservo la macchina partire, schiacciando non curante il
candido manto di neve, e scomparire nel buio. Alzo lo sguardo al di là del
cancello e vedo che la battaglia è giunta al termine. Lo sfondo della scena è
concitato: scienziati che corrono da una parte all’altra, raccogliendo campioni
di sangue sparso sulla neve; inservienti che accompagnano dentro soldati stremati;
Turks che urlano rapporti al telefono. In quel caleidoscopico caos, due gocce di
calma svettano al centro di esso. Il burattinaio e il suo burattino. Hojo e
Sephiroth, rispettivamente
+. Il vecchio sosta accanto al bambino, superbo
e trionfante. Parla in tono pacato, quasi accorato, ma so che ogni sua parola è
un dardo sparato dritto in un cuore a pezzi. Sta avvelenando con dosi letali di
odio e rancore l’anima ferita di un infante che ha appena perso tutto. Emozioni
che un bambino non dovrebbe nemmeno conoscere. Ma quel burattino non può fare
altro che ascoltare. Ha perduto i suoi fili. Giace, infatti, inginocchiato, pesto
e ... sconfitto.
Le mani innocenti portano i segni vermigli
di una colpa troppo lurida per un ragazzino di quella età. A nulla valgono i
tentativi del cielo di coprire quel rosso così scarlatto che gli bagna, oltre la
mani, i vestiti, il viso, i capelli. Gronda di un colore che sarà sempre
attaccato a lui e non importa quante volte si laverà: non se ne potrà mai
liberare. Ad un certo punto, il bambino solleva lentamente la testa, fino a che
il suo sguardo non s’incrocia col mio, trafiggendomi sul posto. Non ho mai
visto uno sguardo così addolorato… Rimango sbalordito quando capisco che, in
realtà, lui mi sta guardando. Mi vede e mi supplica di salvarlo. Eppure, quegli
occhi non mi sono nuovi…
- Perché mi
stai mostrando questo? –
Hojo, la villa, il bosco, tutto è scomparso.
Siamo rimasto solo noi, divisi da un nero cancello di ferro.
- Non sono io a mostrartelo. –
La voce di Sephiroth è sorprendentemente
flebile, svuotata di ogni vigore. Dinnanzi, a me, infatti, si sta parando, non
più un bambino; ma un uomo. Un uomo mortalmente sfibrato da una vita costellata
da tante battagli e troppe sconfitte. Troppe da sopportare… Mi si mostra per
come lo vidi l’ultima volta: petto nudo, pantaloni e stivali neri, sudato,
sporco, mortalmente ferito. Eppure non sembra risentirne, dal momento che il
suo viso è una maschera d’impassibilità. La mia attenzione, tuttavia, viene
attirata dalle vecchie cicatrici che sfregiano la sua pelle lattea: non avevo
mai notato quante fossero.
- Perché ti
mostri così miserabile? Pensi davvero d’impietosirmi? –
Ai piedi di ogni sbarra del cancello, un
germoglio dal colore malsano inizia a crescere lungo il gelido ferro. Ad ogni
inviluppo, vedo svilupparsi lunghe e coriacee spine rosso sangue.
- Mi mostro come la tua mente mi ricorda. –
- TU sei la
mia mente. Potrebbe essere uno dei tuoi malefici trucchi. –
I germogli sono ormai divenute piante adulte
e iniziano a intrecciarsi tra loro, all’altezza del lucchetto.
Il Generale distoglie lo sguardo e scuote la
testa.
- Tutto questo tempo, tutte quelle pagine,
tutte quelle scoperte e ancora non hai capito niente. –
Rimango stupito nel constatare che non c’è
traccia di rabbia nella sua voce, ma bensì solo pacata delusione.
- Che cosa
ti aspettavi? Che ti perdonassi dall’oggi al domani? Dopo tutto quello che hai
fatto?! –
Nella mia, invece, un’isteria collerica
alberga in ogni sillaba. Lui non sembra toccato, tuttavia; troppo stanco per
curarsene, in effetti. Ciò mi fa imbestialire ancora di più.
Le spine iniziano a far gocciolare il loro
veleno sul terreno, il quale si tramuta in pietra appuntita, inglobando buona
parte della base del cancello.
- Ma, in
fondo, a te cosa t’importa? Inveisco, minaccio di abbandonare, ma, alla fine,
faccio esattamente ciò che vuoi! –
Lunghi, grossi, spinosi tralci giallastri
s’inseriscono nel cemento armato delle murate laterali. Assomigliano a tante
lunghe e scheletriche dita.
- Ti sbagli. Io non voglio che tu faccia i
miei stessi errori. –
Mi blocco e lo guardo esterrefatto. Riesco
quasi a cogliere il significato insito in quella frase, ma mi rifiuto di capire.
No, non
merita la mia compassione.
- E quali
errori starei commettendo? Ho passato metà della mia vita a riparare i tuoi. Ed
è esattamente quello che sto andando a fare anche adesso. –
I tralci hanno uno spasimo e iniziano a
tirare i lati del muro verso il centro. Avverto il lamentarsi disperato del
metallo contorto ferirmi l’udito.
Lo osservo, pungente. Lui mi scruta, in
silenzio, contemplando. Poi, il lato destro delle sue labbra si contrae.
Sorride?
- Tu sei come un cane che rincorre la sua
stessa coda. Troppo concentrato su di essa per accorgerti del caos che causi attorno
a te. Non ti rendi conto che, in realtà, ciò che rincorri disperatamente non è un
qualche fantomatico nemico, ma te stesso. –
I tralci si gonfiano fino allo spasimo,
tirando con forza, mentre una furia senza pari mi esplode nel petto. Lo
spiraglio tra le due murate è sempre più sottile. Il cancello è ormai contorto
su se stesso. Vinacce gigantesche e imbevute del veleno più spinoso iniziano a
crescere anche sul cemento, rendendo così impossibile valicare quel muro senza
rimanere uccisi.
- NO! Io non sono come te! –
Crollo in ginocchio e mi tappo le orecchie.
Non voglio
ascoltare.
Ha torto.
Io non sono
come lui.
- Anch’io non ho ascoltato.
Anch’io ho rincorso una chimera. –
La sua stramaledetta voce continua a
sussurrarmi nella testa. Spingo con più vigore sulle orecchie, fino a che il
dolore non ottunde l’udito. Mi chiudo in me stesso, nel disperato tentativo di
scappargli.
- Anch’io mi sono
chiuso in una tomba di ricordi e rimpianti. Anch’io desidero morire. –
Quelle piante maledette esplodono dal
terreno come tanti neri serpenti, elevandosi verso l’alto per poi incrociarsi
sopra di me, creando una cupola di spine, la quale m’ingloba nella sua mortale
morsa. Avverto gli aculei, attraversare i vestiti, ferirmi la pelle e iniettare
il veleno nel sangue.
Finalmente
la morte.
- Non voglio che tu
finisca come me, Cloud. Io non ho mai voluto questo per te. –
Con quel poco di energia che ho in corpo
riesco ad alzare la testa. La vista è offuscata e lo vedo appena, eppure
avverto la pesantezza del suo sguardo.
-E che cosa
volevi in realtà? –
- Che tu vivessi. –
Il groviglio di spine, improvvisamente,
perde il suo vigore e inizia rinsecchire; mentre la mia mente viene risvegliata
da una frase riecheggiante nei recessi della mia memoria.
You’re gonna… live.
[Tu… vivrai. Zack Fair FFVII: CC]
Riacquisisco le forze e ogni traccia dei
germogli infernali è scomparsa. La scena è tornata identica a come era prima.
Il cancello è sempre chiuso, noto con dispiacere.
- E’ per
questo che torni sempre? –
- E’ per questo che mi chiami. E’ per questo
che ora rimescoli nei miei ricordi più dolorosi. E’ per questo che non puoi
fare a meno di leggere il mio diario. Hai bisogno di morderti la coda, così da
poterti svegliare. Hai necessità di ricordare cos’è il vero dolore. –
Sorrido tristemente.
- E chi
meglio di te può farlo... –
Il Generale annuisce con eleganza,
mantenendo la sua fredda impassibilità. Mi rendo conto solo ora che la sua
totale apatia è dovuta al fatto che il dolore provato è così sconfinatamente
profondo da schiacciare qualunque altra emozione. Mi accorgo anche che sono
l’unico che può liberarlo da questa prigione di solitudine e sofferenza.
- La condanna decretata dal Lifestream. –
Seguo con lo sguardo le lunghe e nere sbarre
che, come lance appuntite, si elevano verso il cielo bianco, minacciando di
perforarlo senza pietà.
- Solo
quando non avrò più bisogno di te sarai liberato? –
- No. Non io. –
Improvvisamente, una figura mi si affianca e
noto con stupore che si tratta dello stesso Sephiroth. Guarda qualcosa al di là
della cancellata e io seguo il suo sguardo. Per poco la mascella non mi cade
letteralmente per terra, appena i miei occhi si posano su di LEI.
- Il tuo odio e quello di molti altri mi
terrà per sempre da questa parte del cancello e questo l’accetto. Ma lei… lei
deve andare. –
Da quando ha iniziato a parlare, non riesco
a staccare l’attenzione dal viso del Generale. Posso vedere una cascata di amore
incondizionato spillare da quelle iridi verde mako. Non ho mai visto un uomo
guardare una donna in quel modo. Perso, completamente perso in lei. Avverto le
sue nocche scrocchiare, mentre lui stringe convulsamente il metallo. Che
darebbe per avere la forza di distruggere quell’ostacolo e, finalmente,
riabbracciarla. I suoi occhi si offuscano appena si rende conto che quel
cancello si eleva proprio per tenerli separati per l’eternità. Non credo esista
castigo più crudele.
La contemplo anch’io. Come la proiezione di
Sephiroth, sosta inginocchiata nella neve, ma il suo busto, contrariamente, è
eretto, fiero. Anche il viso è ben ritto sul collo magro e, di tanto in tanto,
lo vedo dondolarsi appena da una spalla all’altra, come se stesse scrutando il
mondo al di là dell’inferriata. I suoi occhi di Lifestream, infatti, si muovono
famelici e attenti, perché altrimenti non si perdonerebbe di non aver
controllato meglio ogni dettaglio.
- Cosa sta
cercando? –
- Sta aspettando me. –
- Ma siamo
di fronte a lei… -
Sephiroth sospira esasperato, alzando gli
occhi al cielo; tuttavia trattiene per sé qualunque altro commento.
- Non può vederci, Cloud. -, spiega
pazientemente, fa una pausa, durante la quale, egli sembra farsi forza, come se
proferire la frase successiva gli costasse una fatica immane, - Lei è morta. –
E capisco il perché. Però…
- Anche tu
lo sei. –
Il Generale piega le labbra all’insù, in un
sorriso sghembo.
- Ti piacerebbe. –
Ora sono io a sospirare esasperato. Dannazione,
quante volte devo ucciderlo questo qui?
Riposo gli occhi su Evelyn e la mia
attenzione viene attirata da una larga macchia rossa sul suo grembo. In un
primo momento, ho creduto si trattasse del colore dell’obi o di una sfumatura
del kimono, siccome le mani coprono parzialmente il punto; ma con un’analisi
più attenta mi rendo conto che si tratta di... sangue. Sangue che sgorga da una
lunga e stretta ferita inferta all’altezza del basso ventre.
Un momento…
Lei è bruciata.
- Lei è
stata arsa viva. L’ho visto. –
Sephiroth sembra non avermi sentito, dal
momento che continua a perseverare immobile; ad un certo punto, però, egli si
stacca dal cancello e indietreggia di un paio di passi. Cerco il suo sguardo e…
avrei preferito non trovarlo. Ira. La stessa che animava i suoi occhi quando
bruciò Nibelheim. Vendetta. La stessa che brillava buia ad ogni colpo di
Masamune. Odio. Lo stesso che deformava il suo ghigno sanguigno, quando
l’ennesima vittima cadeva ai suoi piedi. Delle urla giungono disperate al di là
della foresta. Rivolgo la mia attenzione verso la sommità degli alberi e vedo
fumo e fiamme elevarsi verso le montagne. Improvvisamente, le urla diventano
più forti, assordanti… agghiaccianti. Il suono è insopportabile. Chiudo gli
occhi e crollo a terra, tappandomi le orecchie; ma quelle grida sono nella mia
testa e non c’è modo di attenuarle. Stringo i denti per resistere alla
tentazione di unire la mia voce a quella dei miei ricordi. Avverto il calore
insopportabile del fuoco vorace e intriso dall’odore acre di carne bruciata e,
non so per quale motivo, apro gli occhi. Dinnanzi a me, corpi sventrati,
decapitati, mutilati, deformati, violentati, defraudati, assassinati senza
pietà affogano in un mare di sangue ribollente. Rivedo mia madre, i miei amici
d’infanzia, il padre di Tifa, Tifa stessa, Marlene, Denzel, Vincent, Yuffie,
Cid, Barret, Zack, Aerith… tutti accatastati ai piedi di quel maledetto mostro.
Egli mi guarda trionfante, malefico, derisorio. Il sangue di coloro che amo
grondare dai suoi capelli, dal suo ghigno, dalle sue mani, dalla sua spada.
- Tell me what you cherest most… Give
me the plesure to take it away. -
[Dimmi a cosa tieni di più. Dammi il
piacere di portartela via. Sephiroth
FFVII: ACC]
- SEPHIROOOOOTH! –
[Cloud Strife FFVII: CC]
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Un impeto
violento riempie ogni cellula del mio corpo, inducendo i muscoli a scattare per
avventarsi contro chiunque mi sta attorno. Percepisco un collo venire catturato
dalla mia mano sinistra e il calcio di una pistola stretto nella destra.
Inchiodo a terra l’assalitore, ribaltando la situazione, tolgo la sicura e
appoggio il cane dritto sulla sua fronte.
- Cloud…
-
Il rantolo
arriva a malapena alle orecchie, ma con abbastanza convinzione da persuadermi a
premere il grilletto. Non subito, almeno.
- To- torn…
ah. In. Te. –
La voce è
soffocata e la mia parte razionale, molto lontana, sembra riconoscerla. La
momentanea esitazione, mio malgrado, permette al mio avversario di reagire,
colpendomi dritto alla mascella con un guanto ferrato. Il colpo è molto forte e
mi stordisce quel tanto che basta all’avversario di sfilarmi la pistola e
liberarsi dalla presa al collo. Mi dà un colpo al fianco e un altro alla
pancia, entrambi molto forti. Tossisco a corto di fiato, mentre striscio
lontano da chiunque sia con me, pronto a difendermi. Sono completamente
stordito e l’unico segno del mio avversario è il continuo tossire. Rimaniamo
qualche istante immobili nei rispettivi angoli a riprendere fiato, durante i
quali il mondo inizia a farsi più chiaro. Ci sono delle casse e tutto si muove
a scossoni. Le pareti sono fatte di tela grigia e un pigro fascio di luce entra
da uno svolazzante velo alle spalle del mio avversario. Un frastuono simile al
rombo di un motore riempie l’aria. Torno a focalizzarmi sull’uomo dinnanzi a me.
Mantello rosso, capelli corvini, occhi vermigli, pistola a tre canne, guanto
dorato, pallido come un lenzuolo…
- Vincent… -
Rantolo il
suo nome e cerco di alzarmi, ma il suono di una sicura levata mi blocca a metà
del gesto. Mi accorgo solo ora che l’Ex- Turk mi sta tenendo sotto tiro.
- Fermo dove
sei. –
- Vincent,
posso spiegare... –
Alzo le mani
in segno di resa e cerco di farmi più vicino, ma il moro si alza continuando a
puntarmi l’arma addosso. Un gesto molto eloquente.
- Se fai
un'altra mossa, giuro che sarà l’ultima che farai. –
Indietreggio
lentamente e distolgo lo sguardo dal suo, senza abbassare le mani.
- Ok, ok.
Sei stato chiaro. –
-Questa
storia ti sta sfuggendo di mano, Cloud. Sei fuori controllo. –
La voce di
Vincent è un ringhio rabbioso. Spero di non aver innescato qualcosa,
attaccandolo. Ci manca solo Chaos in questa dannata storia! Dobbiamo calmarci
prima, sia da parte mia, che da parte sua, la situazione degeneri.
- Lo so. Me
ne rendo conto, ma ti assicuro che puntandomi una pistola addosso non aiuta a
riottenerlo, il controllo. –
Lo guardo
infastidito, come se non avessi un’arma puntata dritta alla testa, giusto per
sottolineare di stare varcando soglie non proprio raccomandabili da superare.
La situazione è tragicomica, a dir poco, comunque. Dopo qualche istante di
riflessione, il pistolero decide di ottemperare la mia implicita richiesta,
rimette la sicura e si accovaccia, incrociando le braccia sulle ginocchia. La
Cerberus ben salda nella sua presa.
- Non la
rinfoderi? –
- Mi spieghi
che ti è saltato in testa? –
- Lo
prenderò come un no. –
-E io come
una minaccia. –
Giuro se quella sicura non la smette di
cliccare… No, bisogna mantenere i nervi saldi, altrimenti qua scoppia un
macello, penso, nel tentativo di calmarmi. Meglio cominciare ad essere
ragionevoli. In fondo, Vincent ha tutto il diritto di sapere perché ho tentato
di ucciderlo.
- Non volevo
farti del male. Scusami. E’ che… -, come
spiegarlo? , - credevo fossi qualcun altro. –
Il moro alza
un sopracciglio, in una perfetta imitazione di suo figlio. In altre
circostanze, avrei apprezzato la somiglianza, ma, ora come ora, mi viene da
saltargli alla gola di nuovo.
Le sua mani ricoperte del LORO sangue…
- E chi? Ci
siamo solo io e te in questo furgone. –
Ora sono io
a guardarlo in modo eloquente. Che gli piaccia o no, qualcun altro c’è…
altroché se c’è. Il pistolero capisce ed emette un sonoro sospiro. Questo gli
fa finalmente rinfoderare l’arma. Credo che a volte soffra il fatto di
dimenticarsi che lo spirito di suo figlio viva in me e che lui ci cammina
attorno come un’ombra, guidandoci sul filo della follia.
- Perché
avete litigato, stavolta? –
Il tono
dell’ex-Turk ha perso la sua animalesca minacciosità e ha assunto
un’inflessione più umana e comprensiva. La domanda, infatti, è rivolta come se
parlasse con due bambini che hanno bisticciato per l’ennesimo motivo futile.
Forse è così. Ma il motivo, probabilmente, non è così futile.
Tifa morta… Ai suoi piedi.
Mi porto la
mano alla fronte, sfregandola, come se volessi cancellare quelle immagini. Fosse così facile…
- Nibelheim.
–
- Ha
infierito su quell’argomento? –
Mi volto
verso di lui e cerco di riafferrare le immagini di quel sogno.
- Non
proprio. –
- Senti, se
ti aspetti che io ti tiri fuori le risposte con le tenaglie, hai proprio capito
male. –
Rido. Vincent Valentine che farei senza di te?
- Quello che
intendo è che… -
Mi blocco.
Ripenso alla catasta di corpi ai suoi piedi e noto un particolare che mi era sfuggito.
Tifa. Non è lei. Capelli neri, lisci, pelle
pallida… tutto corrisponde, ma… gli occhi! Gli occhi sono diversi. Sono… sono
verdi! Verdi come il Lifestream.
Non ha senso… perché avrebbe dovuto…?
- CLOUD! –
Mi sento
scuotere e chiamare, mentre mi rendo conto di altri dettagli di quella scena,
come visi di uomini e donne sconosciuti mischiati a quelli dei miei ricordi. Mi
ridesto e osservo Vincent. Dal suo sguardo capisco che i miei occhi sono tutto
un programma.
- Che
succede, Cloud? –
Inizio a
spiegargli il sogno, per quanto facile possa essere illustrare un completo
delirio ultraterreno. Fortuna vuole che l’ex-Turk non sia del tutto estraneo a
questo genere di fatti: pende letteralmente dalle mie labbra, infatti. Esper,
che darebbe che essere nella mia testa… Infine, arrivo al momento del crollo,
sperando che la mente analitica del moro possa venirmi in aiuto.
- Lui
accetta la morte di sua moglie, ma, quando ho accennato all’incendio, lui è
come impazzito. Mi ha mostrato Nibelheim, come la ricordiamo entrambi. E come
io ricordavo lui. Folle, spietato e assetato di sangue. C’era una massa di
corpi ai suoi piedi, ma alcune di quelle persone non le ho mai viste in vita
mia. Ma quello che mi lascia più perplesso è la donna giacente ai suoi piedi:
all’inizio credevo si trattasse di Tifa, invece… -, abbasso lo sguardo sulle
punte delle scarpe, sconvolto, e le ultime parole escono dalle mie labbra come
un soffio flebile, - era Evelyn. –
Prendo un
grosso sospiro e mi siedo, esausto, sul pavimento del furgone.
-Non ha
senso. –
Vincent, il
quale mi ha ascoltato in assorto silenzio, mi osserva come se volesse
trafiggermi l’animo, mentre mi struggo a capire cosa in realtà Sephiroth
volesse dirmi.
- Fuoco…-
Il pistolero
mormora qualcosa, attirando la mia attenzione. Lo sguardo di Vincent è cupo e
concentrato, estraneo. Sorrido inconsciamente.
Ci sei.
- Il fuoco è
un elemento ricorrente. Entrambe le vostre vite ne sono state segnate e il
vostro animo arde nello stesso modo, animato da ricordi fin troppo simili. -,
si alza e inizia a vagare per il furgone, incurante degli scossoni, come se i
suoi ragionamenti trascendessero la realtà, - Fuoco. -, alza una mano,
-Ricordi. -, solleva anche l’altra. Rimane ad osservare i palmi aperti,
immobile, perso nelle sue elucubrazioni.
-Ehm,
Vincent. Non ti seguo. –
Ad un certo
punto, mi guarda, una luce soddisfatta brilla in quelle iridi vermiglie. Io
scuoto la testa e assumo un’espressione ebete. Il pistolero alza gli occhi al
cielo ed emette un suono esasperato.
- Santo
cielo, Cloud, sarai rapido con la spada, ma di certo non lo sei di cervello. –
Mh, benvenuto nel mio
mondo.
Taci tu.
- Ricordi
alla Città Dimenticata, quando hai lasciato il corpo di Aerith ai flussi del
lago? –
- E chi se
lo dimentica? –
- Cosa le è
successo? Al suo spirito, intendo. –
- Beh, si è
unito al Lifestream… -
- Sì, e poi?
–
- Poi, ha
combattuto al nostro fianco impedendo la caduta di Meteor… -
- Ok e dopo
quello? –
- Ha guarito
il Geostigma. –
-Come? –
- Attraverso
la pioggia e il lago nella chiesa. -
Mi blocco.
Il fuoco scatena i ricordi. Questo vuol
dire…
- Se Aerith
è l’acqua… Evelyn è il fuoco! –,
scatto in piedi anch’io, - E’ l’unico modo che
ha di percepirla. –
-
Distruggere il Pianeta equivale donarlo a lei. Donare a una Dea della
distruzione il suo regno. –
- E con lei
al comando nel mondo, nessuno si opporrebbe al loro amore. –
- Nemmeno il
Pianeta. –
Sto per
chiedergli più informazioni quando, improvvisamente, il furgone si ferma. Ci
scambiamo un’occhiata e Vincent prepara la Cerberus. Il proprietario scosta i
lembi del telo con poca delicatezza e ci squadra da cima a piedi, mentre
mastica il suo tabacco. Sputa a terra.
- Siamo a
Bone Village. Spero che non mi abbiate rotto niente con la vostra rissa,
altrimenti me lo dovrete ripagare. –
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7 Gennaio XXXX
Ora comprendo la completa sterilità del
rapporto di Fair. Sento il fiato mozzarmi in gola davanti a questo indescrivibile
scempio. Dove una volta sorgevano campi verdeggianti, ora uno spesso strato di
cenere grigiastra ricopre ogni filo d’erba; dove l’aria era pulita e fresca,
ora una pesante cortina di bruciato sopprime ogni altro odore; dove una volta
il sole splendeva, ora desolanti nubi di fumo precludono la vista del cielo.
Dove una volta sorgeva la ridente Banora, ora v’è solo un luogo desolato,
bruciato fin dalle fondamenta. La cenere scende lenta dagli alberi
carbonizzati, simile a fiocchi di neve, ricoprendo con la sua leggiadria il
viale che si snoda sotto di essi. Lo sto percorrendo con rispettoso cordoglio,
come se stessi passando in mezzo a un cimitero. E in effetti, non sono molto
lontano dal vero. Giunto all’apice della collina, i miseri rimasugli di un
maestoso albero arcuato mi suggeriscono di aver raggiunto la mia meta. I
ricordi iniziano a fluire dinnanzi ai miei occhi; come fantasmi figure
evanescenti ripercorrono i passi di quei giorni lieti, quando ancora vivevo
nell’illusione dell’amicizia. Mi aggiro nel grande spiazzo, dove gli
sferraglianti e ancora incandescenti resti di una della macchine infernali di
Scarlet giacciono in pezzi sul terreno carbonizzato. I segni di micidiali
spadate mi strappano un sorriso tirato. E’ divertente costatare che, nonostante
gli sforzi degli ingegneri, le uniche, vere, perfette macchine da guerra siamo
noi SOLDIER. Per quanto può essere divertente essere paragonati ad una
macchina, ma ho imparato a conviverci con questa idea. In fondo, la totale
mancanza di pietà che ha costellato la mia carriera è una perfetta prova del
pensiero comune. Anche se Aerith avrebbe da ridire su questo argomento. Piccola
ingenua.
Prima di avviarmi verso le macerie del
grande casale, meta del mio pellegrinaggio, mi fermo dinnanzi a un tumolo
profanato. I corpi di coloro sepolti in esso sono stati lasciati alla mercé
degli elementi, lasciati a giacere in posizioni che mettono a nudo le loro
mortali ferite. Con un paio di occhiate studiose, capisco che sono stati
spostati dalla loro posizione originale, probabilmente per essere analizzati.
Una smorfia di disgusto scappa dal mio controllo: l’unico briciolo di umanità
di Genesis vanificato in questo modo… Non lo accetto. Queste persone meritano
rispetto, così come il dolore di un figlio sperduto. Non posso fare a meno di
cercare di comprendere i sentimenti del rosso quando ha deciso di mettere fine
alla vita dell’uomo e la donna che lo hanno cresciuto… amato. Avrà esitato?
Avrà pianto? O si sarà mostrato spietato e freddo? Il rapporto di Zack è
alquanto scarso su quell’argomento, credo che dovrò interrogarlo una volta
tornato a Midgar. Nel frattempo, posso solo fare illazioni. A giudicare dal
fatto che si sia prodigato a seppellirli, credo che ogni colpo inferto ai suoi
genitori fosse un colpo dritto al cuore.
Lui li amava. Non ho dubbi su questo…
L’ho visto quando suo padre ci ha raggiunto
in Wutai e l’ho constatato quando sono venuto qui l’ultima volta, durante la
licenza invernale dalla guerra. Non ho mai visto due genitori così affettuosi e
prodighi nei confronti del proprio figlio. Avevano un rapporto veramente
bellissimo. Soprattutto quello che intercorreva tra Genesis e sua madre era
qualcosa di veramente speciale. Lei era una donna così dolce, innamoratissima
del figlio. Era nata per fare la madre, non c’erano dubbi su questo. Quando ci
vide varcare quello stesso viale, ricordo, saltò al collo del rosso con una
tale foga da farlo crollare a terra, riempiendolo di baci quasi fino a
soffocarlo. Rimembro che lui commentò che era quasi più al sicuro a Wutai.
Ridemmo, anche se stavo morendo d’invidia. Che avrei dato per avere anch’io una
madre che si rallegrasse del mio ritorno dalla guerra. Mi rabbuiai, ma cercai
di riprendere il mio solito cipiglio inflessibile appena Genesis mi presentò a
lei. Assunse un portamento composto ed elegante, in linea con i canoni
nobiliari del suo rango e si scusò per il comportamento di poco prima.
‘Ero così
preoccupata per il mio bambino. La ringrazio per avermelo riportato a casa sano
e salvo, Generale.’, ricordo che mi
disse, con un leggero inchino.
Genesis sbuffò sonoramente, sottolineando il
fatto che non era per nulla merito mio, ma suo, ricordando alla madre di essere
un SOLDIER First Class.
‘Sono capace
di prendermi cura di me stesso, senza l’aiuto di questo pallone gonfiato.’
Naturalmente, ogni occasione era buona per
sfidarmi apertamente per il Comandante. Stavo per rispondere a tono, ma la
signora Rhapsodos lo reguardì, smaccandolo brutalmente.
‘Ti conosco
bene. Te sei solo capace di ficcarti nei guai, con quella testa calda che ti
ritrovi. Spero che tu abbia imparato qualcosa da una persona posata come il Generale.’
Genesis scoppiò a ridere sguaiatamente,
guadagnandosi un’occhiata di fuoco da parte mia.
‘ Posato,
lui?! Oh, mamma… sei una comica. E’ per questo che ti adoro!’
Le diede un sonoro bacio sulla guancia,
stringendola forte a sé. Avvertii una fitta al cuore. E la provo tuttora. Era
una donna così dolce, educata, paziente… una madre meravigliosa. Amava così
tanto quel figlio dall’anima oscura da morire ben prima del colpo ferale. Posso
vedere il dolore dilaniante congestionato sul suo viso gelido. Ha subito vari
colpi, noto. Sono ferite non particolarmente gravi, ma comunque inferte in zone
potenzialmente mortali. Come se… l’attentatore non avesse la convinzione
necessaria per affondare la lama nel corpo della sua vittima. Mi scappa un
mesto sospiro.
Tormento
Non ce la facevi, vero, amico mio? La amavi
troppo per farle del male. Avevi affrontato l’ira di Wutai, sopravvissuto alle
più cruenti battaglie, lottato con la morte per renderla fiera di te. Anche se
a lei non che importasse molto se fossi rimasto un anonimo fante o un acclamato
Eroe. Tu eri il suo bambino e questo bastava. L’hai ferita molto più in
profondità di quanto la tua spada possa aver fatto. Mi è giunta voce che li hai
uccisi perché ti avevano tradito: non è che tu hai tradito loro? Come hai
giustificato un tale atto e te stesso? Avanzando nelle mie ricerche riguardanti
il Progetto G, incappai nei documenti che comprovavano l’adozione di Genesis da
parte dei signori Rhapsodos. Rimasi stupito dalla rivelazione, ma poi,
ripensandoci, mi accorsi di averlo sempre intuito. Il rosso non presentava
nemmeno una delle fattezze dei genitori. Ma… davvero importava? Davvero
meritavano la morte? Forse ciò che tu chiami tradimento, amico mio, era solo un
modo di proteggerti proprio dal fatale destino che stai intraprendendo. Loro
avevano accettato l’onere di crescerti ben volentieri, nonostante la tua natura
mostruosa. Mi scappa un gesto stizzito. Io non so che darei per aver avuto dei
genitori come i tuoi. Non importa se adottivi o naturali, ma qualunque cosa
sarebbe stata meglio dell’infanzia spaventosa e buia che ho subito. Qualunque
cosa piuttosto che… me.
Avevi tutto… perché lo stai distruggendo,
vanaglorioso ragazzino viziato?
Ora i signori Rhapsosdos possono riposare in
pace, al sicuro nel ventre del Pianeta, anche se sono certo che il loro
tormento riecheggia nel Lifestream, trasportato dalle loro anime squarciate. Quale
pena con cui convivere per l’eternità…
Lascio il tumolo e mi dirigo a ispezionare
la magione. Non ne è rimasto molto, solo un cumolo di macerie annerite, implose
su loro stesse sotto la violenza dei missili e delle esplosioni marchiate
Shinra. Mi aggiro tra di esse, studiando i pochi oggetti salvatosi dalle
fiamme. Tra di essi noto un portafoto, miracolosamente intatto se non si considera
il vetro spaccato, custode geloso della famiglia al completo. Mi scappa un
sorriso sincero nell’osservare un giovane Genesis costretto in una posa
composta e ponderata. Immagino la lotta intrapresa dai genitori e dal fotografo
stesso nel tentativo di convincere quel ragazzetto ribelle a stare immobile per
quattro secondi. Ricordo la signora Rhapsodos sospirare affaticata, ripensando
a quei momenti. Diceva che da bambino, il Comandante era una peste
ingovernabile, e mi chiese se la vita militare lo aveva aiutato ad imparare la
disciplina. Ahimé, nulla resiste all’esuberante carattere del rosso. Nemmeno la
ferrea disciplina di SOLDIER. Perfino il mio pugno di ferro è capitolato di
fronte a Genesis. Mi sovviene una discussione avuta molto tempo prima, del cui
motivo mi sfugge, quando, esasperato, gli chiesi spiegazioni riguardo la sua
indole giacobina. La risposta mi lasciò di stucco.
“Cosa siamo
noi SOLDIER se non ribelli? Noi possiamo piegare le leggi della fisica,
governare gli elementi, domare le masse. Proprio perché non ci sono limiti alla
nostra potenza. Tu per primo ti ribellasti ai tuoi ufficiali comandanti per
perseguire un bene comune. Non siamo poi così diversi tu ed io.”
Quando gli chiesi quale fosse il bene
superiore che stava perseguendo egli rispose citando una delle sue parti
preferite di LOVELESS.
‘ Infinite in mistery is the Gift of the Goddess,
we seek it thus and take to the sky.
Ripples form on the water’s surface,
the wandering soul knows no rest.’
[‘Infinito
mistero è il Dono della Dea, Noi lo cerchiamo e andiamo verso il cielo. Onde si
formano sulla superficie dell’acqua, l’anima vagante non conosce requie’,
LOVELESS Atto I]
Il Dono della Dea. Ricordo che sospirai e
scossi la testa di fronte a quell’ennesimo delirio. Ora, però, mi rendo conto
che Genesis non parlava per dar aria alla bocca. Ho sempre bollato le sue
continue citazioni e i suoi discorsi accorati, come modi fantasiosi e
improbabili per aggirare le costrizioni della disciplina; invece… voleva farmi
aprire gli occhi. Come sempre, voleva aiutarmi e io… io non l’ho mai ascoltato.
Questo è il mio peccato. Cerco di tendere
l’orecchio ora, nella speranza che la sua voce possa rispondere alla miriade di
domande che avrei dovuto porgli, ma che, nella mia arroganza, ho sempre
evitato. Mi odio per aver tentato in tutti i modi di cambiarlo, senza essermi
mai fermato un attimo per provare a comprendere. Ho schiacciato i suoi sentimenti,
ignorato la sua essenza, sminuito la sua umanità. Il vero mostro sono sempre
stato io, in fondo.
Girovagando per i resti del casale, sono
giunto nella zona dove un tempo sorgeva la biblioteca della famiglia.
Naturalmente, tutto il prezioso sapere ivi contenuto è andato definitivamente
distrutto, a parte per una copia di LOVELESS, abbandonata sul pavimento. E’
aperta sul Prologo.
‘When the war of the
beasts brings about to the world’s end,
the Goddess descents from the sky.
Wings of light and dark spread afar,
she guides us to bliss, her gift everlasting. ‘
[Quando la
guerra tra le bestie porterà alla fine del mondo, la Dea discenderà dal cielo.
Ali di luce e scurità si spiegheranno, lei ci guiderà alla beatitudine, il suo
dono eterno.’ LOVELESS, Prologo]
Mi sembra quasi di sentire la voce teatrale
del rosso, mentre trascrivo queste righe. Esaminando questo manoscritto mi
accorgo che sembra essere lasciato qui apposta. E’ troppo ben conservato per
essere scampato all’incendio, tuttavia lo strato di cenere sopra deposto indica
che è stato lasciato in un lasso di tempo non troppo lungo, tra il
bombardamento e il mio arrivo. Non troppo prima del mio arrivo, direi. Che sia
ancora nei paraggi? Meglio andare via da qui prima che lui possa venire a conoscenza
del mio diario.
7 Gennaio XXXX, Ufficio SOLDIER, Midgar.
Alcune ore dopo il viaggio a Banora.
Ho passato le ultime ore ad esaminare questa
copia di LOVELESS rinvenuta nella magione Rhapsodos di Banora. La mia analisi
iniziale era corretta: questo libro non era presente nella biblioteca di
famiglia quando le bombe sono state sganciate. Eppure appartiene a quel luogo,
come testimonia il timbro sul retro del frontespizio. Una rara edizione del
poema epico LOVELESS. Troppo rara e particolare per non riconoscerla all’istante.
Questo libro era suo… Non se ne separava mai, perché lo ha lasciato in mezzo a
quella desolazione? Questa domanda è stato il mio chiodo fisso per ore, fino a
che un’analisi ancora più approfondita ha rivelato l’intenzione del rosso di
comunicare. Infatti, gli orli di alcune pagine sono stati lasciati arricciati a
mo’ di segnalibro, in corrispondenza di alcuni passaggi del poema. Passaggi che
ho sentito recitare fino alla nausea, ma la fitta trama di note in rosso
attorno a quelle strofe mi ha spinto a compiere il tentativo di cogliere il
significato racchiuso in quei versi così accorati.
Sono partito dal Prologo, trascritto in
precedenza. Ciò che ho appreso mi ha sconvolto! Non posso credere che le sue
intenzioni siano rivolte davvero alla distruzione di questo Pianeta. Qual è la
ragione di una scelta così drastica? Crede davvero che portare questo Pianeta
sull’orlo del baratro possa salvarlo dalla sua lenta decadenza? Davvero è
convinto che questo libro indichi il fato di ognuno di noi?
Per questo motivo che il suo corpo è mutato?
Per questo ora bestie dotate di ali nere e bianche vengono avvistate in ogni
angolo del globo? Un’altra guerra è alle porte?
‘My friend, do you fly away now?
To a world that abhors you and I?
That is await you is a somber morrow.
No matter where the winds may blow. ‘
[Amico mio,
voli via adesso? Verso un mondo che aborra entrambi? Ciò che ti aspetta è un
vuoto domani. Non importa in che direzione i venti soffino.’ LOVELESS, Atto
III]
‘Non importa
in che direzione i venti soffino’. Questa
frase non fa altro che ronzarmi nella testa. La mia strategia nel mantenermi
neutrale agli avvenimenti si sta mostrando in tutto il suo fallimento, come,
infatti, suggeriscono queste righe. Genesis è più determinato di quanto
pensassi. L’ho sottovalutato e, ora, il sangue delle sua vittime ricade sulle
mie mani. Non posso più tirarmi indietro… Per quanto cerchi di sfuggirlo, il
conflitto è inevitabile. Ma la domanda che più mi tormenta in queste ore è:
qual è il disegno che ha creato per me? Ha intenzione di trasformarmi in uno
dei suoi fantocci alati? Oppure un destino più oscuro e raccapricciante egli
sta riservando a ‘colui che resta’?
‘My friend,
your desire is the bringer of life:
the Gift of the Goddess.
Even if the morrow is barren of promises,
nothing shall forestall my return.’
[Amico mio,
il tuo desiderio è portatore di vita: il Dono della Dea. Anche se il domani è
arido di promesse, niente fermerà il mio ritorno.’ LOVELESS, Atto III]
Queste sono le frasi che più mi
agghiacciano. Il mio desiderio… esistono tanti tipi di desideri, ma quale di
questi è portatore di vita? La risposta è ovvia: la passione. Non posso fare a
meno di pensare che quei versi si riferiscano a Takara. A quel punto il senso
di colpa torna a farsi sentire: che cosa ho trasmesso a mia figlia? A quale
atroce destino l’ho condannata?
A volte penso che avrei dovuto stroncare la
sua piccola vita sul nascere. Invece di lasciare che Evelyn portasse avanti
quella gravidanza, avrei dovuto impedirglielo con più fervore. Sarebbe bastato
un colpo al ventre ber assestato per levarsi d’impiccio. Se Evelyn dovesse
leggere queste righe probabilmente mi malmenerebbe, o peggio, e io farei di
tutto per negare, trovando giustificazione nel periodo nero che sto passando;
ma… mentirei. Sia chiaro, amo mia figlia e farei qualunque cosa per lei,
tuttavia la sensazione che la sua esistenza su questo Pianeta sia un errore a
cui porre rimedio non mi abbandona. Qualcosa, nel profondo del mio essere, la
percepisce come una minaccia. E ora LOVELESS sembra confermare ciò che ho
sempre considerato dei semplici presentimenti senza fondamento. Ci sono troppi
segnali, troppe incongruenze che girano attorno alle mie oscure origini per
ignorarle. Anche se, come può Taky rientrare nei piani di Genesis se lui non è
a conoscenza della sua esistenza? Sono sempre stato attento a non lasciar
trapelare nulla sulla mia relazione clandestina, mantenendo l’atteggiamento più
naturale possibile; anche se talvolta non era così facile rimanere impassibile.
La frustrazione albergante nel mio cuore era così devastante da condizionare
profondamente il mio comportamento. I miei amici non sapevano mai che tipo di
Sephiroth aspettarsi di giorno in giorno. Credo sospettassero che fossi
invischiato in una qualche tresca con qualche fanciulla dal difficile
carattere, dal momento che spesso lanciavano frecciate malcelate su
quell’argomento; ma non penso abbiano mai veramente capito cosa avessi tra le
mani. In effetti, Angeal e Genesis non si sono mai prodigati troppo a indagare
sulle situazioni sentimentali del trio. Probabilmente era un argomento che era
meglio lasciar passare sotto silenzio. Eravamo in guerra, dopotutto. Dopo mesi
interi passati a sguazzare in mezzo al sangue e alla morte, diveniva impellente
il desiderio di gettarsi tra le grazie della prima ragazza carina che si parava
davanti. Lasciarsi andare tra le morbide carni della propria donna, è un buon
modo per, un istante, dimenticare. La magnifica spossatezza che attanagliava le
mie membra ad ogni amplesso mi permetteva di scivolare in un sonno senza sogni,
in pace, soddisfatto. Avvertire la sua calda presenza, le sue delicate carezze,
il suo rassicurante respiro…
Amore mio…
Mi manchi da impazzire. Ogni notte sogno
quel tuo splendido, dolce sorriso, il quale ti illumina il viso di una luce
meravigliosa. Quel sorriso capace di spaccarmi il cuore letteralmente in due;
quel sorriso per cui morirei per non vederlo mai spegnersi; quel sorriso
divenuto l’unica mia ragione di vita. Nella mia mente, ormai da qualche tempo,
si sta delineando l’intenzione di abbandonare la Shinra. Non credevo che sarei
mai stato in grado di sviluppare un tale pensiero. La Compagnia è sempre stata
la mia unica, sola, desolante realtà. Non mi erano concesse alternative al
futuro. Io sono nato per servire la Compagnia, per uccidere nel suo nome, per
vincere le sue guerre. Fin da bambino non hanno fatto che ripetermelo. Per
questo Hojo si è sempre prodigato d’impedirmi di avere degli amici, d’istruirmi
su nozioni che non esulassero oltre dall’arte militare, di leggere nulla che
non fossero strategie belliche. La mia sola ragione di vita sarebbe dovuta
essere la guerra e la morte. Motivo per il quale sono stato nutrito con odio e rancore,
sopprimendo qualunque altro sentimento. Dovevo essere una macchina da guerra
spietata e assetata di sangue. E per un periodo questo obiettivo fu anche
raggiunto, ma LEI… LEI ha cambiato tutto. Quei sentimenti che credevo aver
perduto per sempre, ho scoperto di averli sempre serbati nel cuore. Anche se,
mi accorsi, di aver sempre saputo di non averli dimenticati. Quel pizzico di
innocenza pura e semplice che ancora albergava in me li ha conservati al sicuro
dalle grinfie della Bestia per tutto quel tempo. Io non sono più disposto a
corrispondere delle aspettative che mai sono stato in grado di rispettare. E
sono stanco di vivere in questo limbo di miseria. E’ arrivato il momento di
nascere. Di nuovo.
Non so che epilogo avrà questa storia, ma
una cosa è certa: dopo questa Crisi, SOLDIER sarà destinato a sparire. La
ribellione di Genesis ha portato a una gigantesca diserzione di massa che ha
completamente svuotato il Reparto. Io e Fair siamo gli unici First rimasti
sotto il comando del Presidente. Tra il popolino sta cominciando a svilupparsi
una sorta di psicosi nei confronti dei SOLDIER.
Siamo Dèi, crudeli e spietati, e quello che
suscitiamo è proprio questo: una timorosa adorazione. Come le divinità,
fintanto che ci dimostriamo protettivi e benevoli nei confronti dei nostri
accoliti, essi ci amano e ci rispettano. Poco importa il terrore che
disseminiamo tra i nemici della patria; poco importa se siamo in grado di
spaccare la testa di un uomo con una sola mano o in grado di radere al suolo un
intero villaggio con una sola magia. Poco
importa se dentro siamo dei mostri. E’ per questo motivo che non ho mai
amato essere l’idolo delle folle. Quella gente non mi rispetta per le azioni eroiche
che ho compiuto, ma perché teme il modo in cui le ho realizzate. Temono la
possibilità che possa accadere anche a loro, un giorno.
Io da solo ho ucciso centinaia… no, migliaia
di persone. Di ogni età, di ogni sesso, di ogni etnia.
Ho
ucciso tanti bambini. Questo mi
tormenta più di ogni altra cosa. Ora che sono diventato padre, mi rendo conto
dell’orrore che ho compiuto, della spietatezza provata. Spesso e fin troppo
volentieri, mi divertivo a
torturare i genitori, uccidendo i loro figli di fronte ai loro occhi, in modi
che preferisco non trascrivere.
Come ho potuto?
Che diritto avevo di compiere degli atti
così osceni?
Come ho giustificato a me stesso quei
crimini?
Forse non l’ho mai fatto e, probabilmente, è
per questo che non riesco a perdonarmi e ad accettare che i doni che la vita mi
ha regalato. Qualche giorno successivo alla nascita di Takara, dopo che
l’iniziale entusiasmo svanì, questi pensieri iniziarono a tormentarmi. La
guardavo dormire quieta nella sua culla e immagini oscene di corpi di bambini
straziati si contrapponevano a lei. Iniziai ad allontanarmene, ignorando le
necessità del mio istinto paterno. Questo comportamento venne notato da Evelyn,
naturalmente, e ciò portò un paio di volte a scontrarci, ma, in un modo o
nell’altro, riuscii sempre a sviare l’argomento. Fino a che, una notte, un
incubo raccapricciante, di cui a stento ricordo i dettagli, e anche se ne
avessi memoria preferisco non ripercorrerlo, mi strappò dal sonno con un grido
straziante. Una morsa di panico mi attanagliò la mente, offuscandola di puro
terrore. Rotolai su un fianco e mi accartocciai su me stesso. Dietro di me, il
pianto spaventato della bambina si univa a quello dei miei ricordi, facendomi
uscire di testa. Mi portai le mani alle orecchie per sopprimere quei lamenti,
ma quegli strilli agghiaccianti erano troppo acuti per essere ignorati. Nella
follia, vidi in Takara il nemico: la fonte del mio dolore, la quale doveva
essere terminata all’istante. Il passo tra pazzia e violenza fu tragicamente
breve. Mi alzai, rinvigorito da una forza bestiale, e mi gettai sul lettino di
mia figlia con un solo, letale intento. I miei pugni calarono sulla culla più e
più volte, distruggendola in mille pezzi. Ad ogni colpo, sentivo quel pianto scemare
e l’incubo perdersi nell’oblio del subconscio. Piano piano, ripresi il
controllo delle mie emozioni. Fissai il lettino sfasciato, incapace di
concepire ciò che era accaduto. Poi, mi accorsi di un respiro affannato alla
mia destra. Lentamente mi voltai, anche se avrei preferito non farlo:
l’espressione di puro terrore dipinto sul viso di mia moglie fu uno squarcio
nel cuore. Mi fissava come si guarda una bestia feroce. Il suo corpo era tutto
un tremore, i muscoli tesi, i sensi all’erta: pronta a scappare, o a difendere
il fagotto che stringeva al petto, in alternativa. Fu in quel momento che
realizzai ciò che avevo fatto. O meglio, stavo per fare. Guardai le mie mani,
piene di schegge intrise del mio stesso sangue e mi sentii morire.
Perché?, mi chiesi, Perché sono così
incontrollabile?
Mi ritrassi, pieno di vergogna e odio verso
me stesso, non avevo il diritto di stare nella stessa stanza con loro. Mossi
qualche passo verso l’uscio, ma un braccio gracile, ma dotato di una graziosa
forza, mi bloccò. Poi, un corpo caldo mi si adese alla schiena, causandomi,
tuttavia, un brivido gelido lungo la spina dorsale. Mi irrigidii: non volevo,
non potevo godere di quel contatto.
Avvertii un liquido caldo attraversare la stoffa del kimono. Lacrime. Una stilettata
di dolore mi colpì direttamente al cuore, stroncando il respiro. Ero io la vera
causa di sofferenza. Improvvisamente, il desiderio di scappare venne
impellente. Cercai da muovere un altro passo, ma la stretta si fece più forte…
determinata. Poi, avvertii alcune ciocche tirare sotto l’azione di minuscole
morse morbide e birichine, seguite da una risatina cristallina e innocente. Mi
voltai lentamente e adocchiai Takara da sopra la spalla, intenta a giocare con
i miei capelli. Placida, ignara… meravigliosamente ingenua. Non aveva paura di
me, del mostro che aveva interrotto il suo sonno tranquillo e che, se non fosse
stato per la freddezza di sua madre, l’avrebbe uccisa. Alzò lo sguardo luminoso
su di me. Rideva con quella boccuccia buffa e sdentata. Quando allungò le
manine verso di me mi sentì mozzare il fiato direttamente in gola. No, non
potevo… Le mie mani…
‘Non vorrete
davvero disattendere a un ordine, Generale…’, disse una voce d’angelo, scherzosa.
Un sorriso sfuggì al mio controllo: come ci
riusciva ogni volta? Veloce come era venuto, così se ne era andato, comunque, ma
per lei fu abbastanza. Sciolse appena la morsa che mi teneva inchiodato
sull’uscita della camera e si piazzò di fronte a me, senza abbandonare il
contatto. Ella rivolse la sua attenzione sulle mie mani insanguinate, per poi
accogliere la sinistra –quella della spada- nella sua delicata stretta. Provai
l’impulso di ritrarmi: non volevo che quella pelle così pura venisse
contaminata dal mio sangue maledetto. Prima che potessi formulare quel
pensiero, tuttavia, lei accompagnò l’arto alla sua bocca, dove iniziò a posare
dei delicati baci sulle nocche, sulle dita, sul dorso. Io ormai ero ammaliato
dalle sue movenze, lente e accorate, tanto da sopprimere ogni altro istinto. La
osservavo e basta, completamente rapito dalla sua benevolenza.
La mia Regina…
Le sue dita, ormai rosse, sfilavano sulla
mia pelle ferita, con una delicatezza tale da non avvertire nessun dolore. Esse
s’incrociarono alle mie, in un intrico rosso e bianco, il quale si riservò un
posto sul suo viso di porcellana. L’intreccio si sciolse e un ultimo bacio
venne lasciato sul palmo, prima di essere adeso completamente alla sua morbida
gota. Studiai il suo operato, il quale mi strappò ogni commento, qualunque
fosse stato, direttamente dal cervello. La sua mano, il suo viso, le sue labbra
completamente ricoperte del mio sangue. Era dannatamente bella… Prima che
potesse dire o fare alcunché, lei mi porse la bambina e l’appoggiò dolcemente al
mio petto, costringendomi, mio malgrado, ad afferrarla. La piccola emise un
urletto soddisfatto, felice, per poi rapidamente rilassarsi tra le mie braccia,
confortata dal mio calore.
“Visto? Lei
non ha paura di te. Nessuno di noi due ti teme, perché noi ti amiamo,
nonostante ciò che hai fatto. Il passato non si può cambiare. Puoi solo fare
ammenda dei tuoi errori, qui e ora, dimostrando di aver capito il valore della
vita. Sii il padre che quei bambini avrebbero dovuto avere, cresci tua figlia
come quei genitori avrebbero voluto per i loro figli. Vivi per loro. E’ il
minimo che tu possa fare. “
Non posso davvero credere di meritare tutta
questa benevolenza, come non posso credere che esista realmente un essere umano
in grado di comprendermi così a fondo. Una qualunque altra donna mi avrebbe impedito
di avvicinarmi di nuovo al suo prezioso pargolo, oltre che rifiutarsi
categoricamente di ascoltare le mie ragioni, me lei no. Lei è al di là di
questi …‘sciocchi dettagli’, come ella
li definisce. Si rende conto di aver sposato un uomo che presenta più ferite di
quanto il suo corpo mostri effettivamente. E molte di esse sono ben lungi dal
definirsi guarite. Il mio angelo lo comprende più di quanto io stesso possa davvero
immaginare. E’ tutto ciò che ho sempre desiderato e perderla… perderla per me sarebbe
la fine.
‘My soul, corrupted by vengeance,
hath endured torment
to find the end of the journey
in my own salvation
and your eternal slumber’
[La mia
anima, corrotta dalla vendetta, ha subito il tormento per trovare la fine del
viaggio nella mia stessa salvezza e nel tuo sonno eterno.’, LOVELESS, Atto IV]
La mia ultima affermazione mi riporta a
queste strofe… Questo passaggio è sempre stato il più controverso dell’intera
opera. E mi ha sempre inquietato. Una promessa di rivalsa, una maledizione di
un amico, una speranza di salvezza. Genesis non è mai guarito dalla ferita
inferta durante quel maledetto allenamento. Ho riscontrato tracce nei rapporti
che rivelano un difetto tipico dei soggetti G: se infusi di una quantità
eccessiva di mako, il loro corpo inizia a morire. Motivo per il quale, né
Angeal, né Genesis, sono mai stati sottoposti ad ulteriori sedute d’infusione. Il
poema suggerisce che, per sopravvivere, Genesis deve uccidermi. Ma come è
possibile se non è mai stato in grado di vincermi, nemmeno quando era al
massimo delle sue forze? A questo punto mi chiedo: cosa c’è nel mio sangue di
così speciale per riuscire a guarire un difetto genetico così grave? Senza
contare che i livelli di mako nelle mie cellule sono tra i più alti dell’intero
corpo d’élite. Sarebbe contro producente per lui e ciò spiegherebbe perché
Hollander m’impedì di essere il donatore della trasfusione che avrebbe salvato
la vita al Comandante. Almeno per un po’.
No, se ho ben capito, il piano di Genesis è
tutto scritto in questo libro, motivo per il quale egli si è premurato di
farmelo rinvenire. Vuole che io sia al corrente di ogni sua mossa, affinché
tutti i protagonisti della storia seguano il copione sillaba per sillaba. E
finalmente, il suo poema sia messo in atto, come lui ha sempre desiderato. Da
un lato, sarebbe un atto misericordioso permettergli di prendere parte alla sua
follia, in quanto potrei considerare questa implicita richiesta come l’ultimo
desiderio di un uomo morente. Ma, dall’altro… non posso permettergli di
portarmi via ciò che ho costruito con tanta fatica e sofferenza. Ci DEVE essere
una soluzione pacifica. Ormai so che non potrò tirarmi indietro dallo scontro,
ma esso non deve essere per forza con le spade. Se solo avessi occasione di
parlargli, indurlo alla ragione; forse… potrei salvarlo.
L’attacco di Banora è stata un’ulteriore
manifestazione dei suoi intenti: si sta avvicinando. Forse non dovrò attendere
così tanto per mettere in pratica il mio piano. Anche se, devo ammettere,
Genesis si è mosso più abilmente di quanto il mio orgoglio riesca a sopportare.
E’ troppo determinato e io non sono mai stato in grado di controllarlo. Ma ci
devo provare. Per il bene della mia famiglia, devo combattere contro la fonte
della sofferenza.
Costi quel che costi…
Yeeeeeee!!! Che parto, ragas! Questi
dannati capitoli d’intermezzo… Ma almeno me lo sono levato, dal momento che mi
aspetterà un ritorno un po’ impegnato. Sapete com’è, l’estate XD. E, siccome mi
devo ancora riprendere dalla traumatica esperienza falklandiana, ho intenzione
di recuperare l’orrida estate dell’anno scorso e riscattarla quest’anno.
Quindi, non so quando pubblicherò il prossimo capitolo, io spero sempre presto,
perché so bene che non resistete dalla curiosità! Ora mi dovrò andare a
riguardare la linea temporale del CC, perché non mi ricordo mai come si
susseguono gli avvenimenti e cercare d’estrapolare il tempo trascorso tra un
evento e l’altro. Se non sbaglio, il primo blocco di storia (fino alla morte di
Angeal e Genesis, per intenderci) è ambientata 7 anni prima degli eventi di
FFVII, quindi ho ben due anni da coprire (magari anche meno, dal momento che a
me sembra che tutta la storia della diserzione di massa sia accaduta e risolta
in qualche mese). Anyway, so che avevo detto che non avrei più usato LOVELESS,
ma questo capitolo è praticamente incentrato su Genesis e quindi mi è toccato…
Ho deciso di dare una riscrittura anche da quel punto di vista, dal momento
che, ahimè, tutto gira attorno a quel dannato libro. Le paranoie del buon Seph
fanno poi il resto XD Riguardo Cloud, le spiegazioni non sono ancora finite e
continueranno con calma nel prossimo capitolo (so che pendete dalle labbra del
buon Vince… letteralmente!). Ho deciso così, perché se no c’era troppa carne
sul fuoco e poi mi diverto a lasciarvi in suspence, BUAHAHAHAHAHAH!!! (Crudele!
ndCloud, E poi sarei io il cattivo ndSeph).
Grazie ancora per la pazienza che avete
avuto in questi mesi di assenza e ancora grazie per aver dedicato un po’ di
tempo per supportarmi.
Vi voglio bene, bimbe mie!
Alla prossima!
Besos!