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Autore: MadAka    01/07/2016    1 recensioni
Logan Jackson Miller – a tutti noto come Jack – è un personaggio tormentato. Dipendente da droghe, omosessuale, con una vita sentimentale complicata e con un progetto che desidera portare a termine fin troppo ardentemente. Un ragazzo destinato all’autodistruzione.
A impedire che ciò accada – facendolo a sua stessa insaputa – c’è Riley, la ragazza della porta accanto.
Un’amicizia forte la loro, un legame saldo, che in un momento di duplice debolezza si incrina profondamente.
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Davanti alla porta della camera di Jack, Nicole si fermò. Si voltò verso Riley, che l’aveva seguita in silenzio dopo che la donna le aveva rivelato che il ragazzo voleva vederla.

Nicole osservò per un lungo momento la ragazza, il suo sguardo non era più severo, né diffidente. A Riley parve solo stanco.

«Vi do dieci minuti. Mio figlio ha bisogno di molto riposo» disse la donna.

Riley annuì con il capo, mormorando un leggero “Grazie” prima di superare Nicole ed entrare nella stanza. Un forte senso di disagio la pervase come varcò la soglia. Era già la seconda volta nell’arco di dieci anni che entrava in una camera d’ospedale con la consapevolezza che, distesa sul letto, c’era una persona che amava. Il silenzio era opprimente, interrotto soltanto dal suono del cardiofrequenzimetro che monitorava il battito cardiaco di Jack. Riley sentì Nicole chiuderle la porta alle spalle e con passo insicuro si avvicinò al letto posto al centro della stanza. Notò diverse sedie lì intorno e dedusse che non doveva certo essere l’unica ad aver aspettato seduta per giorni il risveglio di Jack. In fin dei conti aveva visto più volte Nicole in ospedale e non solo lei, ma anche Benjamin e Connor.

Jack era disteso sul letto, avvolto in un bozzolo di morbide lenzuola bianche che aveva però fatto scivolare fino al petto. Teneva il viso rivolto al soffitto e appena sentì Riley si voltò verso di lei. La ragazza le parve una visione in quei suoi vestiti leggermente larghi, i capelli raccolti in una lunga treccia che le ricadeva sulla spalla e gli occhi verdi puntati su di lui. Si sentì infinitamente grato ad averla lì ed era più che determinato a raccontarle la verità.

«Ehi» la salutò, la voce bassa e leggermente roca per via dalle troppe ore di sonno e dal malessere fisico.

Riley sorrise, una strana amalgama di emozioni a stravolgerla da dentro. Si sentiva felice nel vedere Jack rivolgerle un sorriso – per quanto flebile – e fu vagamente lusingata dalla consapevolezza che il ragazzo avesse espressamente chiesto di lei. Tuttavia si sentì anche tremendamente impotente e amareggiata. Non poteva sopportare di vedere Jack in quello stato, soprattutto con la consapevolezza che si era fatto tutto quel male da solo.

«Ciao» disse infine Riley, sistemandosi sulla sedia vuota accanto al letto. «Come ti senti?» chiese poi, ricordandosi di avere solo una decina di minuti a disposizione.

Un altro leggero sorriso increspò le labbra del ragazzo. «Su un baratro. Ma i medici dicono che mi riprenderò.»

Le parole uscivano strascicate dalle sue labbra. Riley intuì che Jack doveva aver portato il suo corpo davvero al limite se quelle erano le conseguenze. Dormiva da due giorni ma sembrava che non chiudesse occhio da tempo e il battito del suo cuore – registrato attimo per attimo – era lento, quasi stanco.

«Sono contento di vederti» riprese a parlare lui. «Sei rimasta là fuori ad aspettare per tre giorni» disse, gli occhi grigio-azzurri più spenti e opachi del solito. Tuttavia il leggero sorriso che gli incurvava le labbra continuava a rimanere al suo posto.

«Tu hai dormito per due» rispose prontamente Riley, con dolcezza.

«Come hai fatto a sapere che ero qui?»

Lei si strinse appena nelle spalle, allontanando lo sguardo. «L’ho dedotto.»

Raccontò a Jack di quello che era successo. Gli disse che, alla fine, era andata al night club per poterlo incontrare e trascorrere un po’ di tempo con lui. Gli raccontò di aver visto suo padre entrare nel locale e di averlo seguito quando si era accorta che l’uomo era turbato da qualcosa. Infine gli disse di aver raggiunto l’ospedale e di averlo trovato come Daniel Carter ricordandosi della loro vecchia conversazione e di aver deciso di aspettare seduta fuori nel corridoio pur di sapere come stava. Il suo racconto non durò a lungo. Riley saltò ogni dettaglio nella speranza di guadagnare tempo così da conoscere cosa esattamente era successo a Jack. Era questo che le premeva sapere più di ogni altra cosa.

Quando lei si zittì, Jack dovette ammettere a se stesso di sentirsi colpito. Era felice di sapere che Riley aveva fatto così tanto pur di sapere come stava. La ragazza era una sorpresa continua.

«Quello che hai fatto significa molto per me» le rivelò poco dopo, non trovando parole migliori. Riley si limitò a sorridere e Jack trovò che fosse giusto, nei suoi confronti, dirle cos’era successo. «Non volevo farmi del male l’altra notte, devi credermi.»

Lei abbassò lo sguardo sulle proprie mani, intente a tormentare il laccetto della felpa. «Jack» esordì, dopo un lungo sospiro. «Io ti credo, sai che mi fido di te. Ma come puoi dire che non volevi farti del male se ogni volta che assumi droga te ne fai un po’?»

Era una domanda retorica e colpì duramente il ragazzo. Jack non aveva mai detto a Riley di fare uso di droghe e non avrebbe mai voluto farlo. Era una cosa di cui non andava fiero e sapeva che avrebbe profondamente deluso la ragazza, cosa che non voleva in alcun modo accadesse.

«Lo sapevi?» le chiese, sconvolto. Il cardiofrequenzimetro registrò un picco più intenso.

Riley si morse il labbro inferiore, stringendosi nelle spalle e annuendo lievemente. «Lo avevo capito da tempo. Dovresti saperlo che mi piace notare i particolari. E quando tieni molto a qualcuno è come se i dettagli si intensificassero. Ignorarli diventa impossibile.»

Jack si portò le mani al volto, un gesto che parve richiedergli un grande sforzo. Inspirò a fondo e, quando parlò, subito la sua voce parve incrinarsi: «Ho provato a smettere. Ma ogni volta non ci riesco.»

Il tono cominciò a caricarsi di rabbia e frustrazione: «Ogni volta che mi convinco di aver superato la dipendenza, o almeno di averla arginata, combino qualcosa che mi ci fa ricadere dentro e non riesco più a trovare la forza per impedirlo.»

Guardò la ragazza, gli occhi chiari profondamente amareggiati. Era un discorso troppo intenso, troppo profondo. Quel genere di discorsi che Jack non aveva mai imparato veramente ad affrontare, ma che sembravano in qualche modo più semplici, o meno difficili, se con lui c’era Riley.

«Gli unici momenti in cui non ho bisogno di quella roba sono quando sto con te. Ma dopo quello che ti ho fatto…» si interruppe.

«Non mi hai fatto niente, Jack. Altrimenti non sarei qui» rispose lei con fermezza. Sentiva di aver ormai superato quella notte che avevano trascorso insieme ormai mesi prima e voleva che anche il ragazzo lo facesse. I sensi di colpa rischiavano di rovinare un legame che con molta lentezza si stava ricucendo e che quella sera – Riley se lo sentiva – avrebbe certamente risaldato insieme.

La ragazza approfittò del silenzio che si era formato al termine della sua affermazione per respirare a fondo, così da poter poi ricominciare a parlare: «Tu pensi di non essere importante per qualcuno o che a nessuno interessi di te? È questa tua convinzione che ti riporta nel vortice della droga ogni volta? Perché se è per questo e ti basta sapere di importare veramente a qualcuno perché tu la smetta di farti del male, beh… io tengo a te, tantissimo ed ero veramente felice ogni volta che lo eri tu. Non voglio perderti per colpa della droga. Solo che ho veramente paura che possa accadere un giorno.»

La ragazza pronunciò ogni parola con voce ferma, senza però guardare negli occhi Jack. Quello che aveva appena detto la fece imbarazzare, ma aveva sentito il bisogno di dire al ragazzo ciò che sentiva.

Jack rimase a fissarla, un vasto conflitto emotivo a scuoterlo dentro. Sapeva di avere deluso Riley e di aver tradito la sua fiducia in qualche modo. Tuttavia si sentiva anche profondamente felice e grato per quello che la ragazza aveva detto. Posò la propria mano su quelle di Riley, che lei ancora teneva in grembo. La ragazza fu attraversata da una leggera scossa quando sentì il tepore della mano di Jack. Lo guardò subito.

«Mi dispiace. Non mi sono comportato bene nei tuoi confronti. E pensare che tu per me ci sei sempre stata» le disse il ragazzo, una nota di amarezza nella voce.

Riley abbozzò un sorriso: «Non tormentarti per questo. Credo che tu abbia già pagato le conseguenza della tua dipendenza.»

Jack non replicò. Distolse leggermente lo sguardo. Tuttavia Riley era intenzionata a sapere fino in fondo cos’era successo al ragazzo e, soprattutto, a capire quella che era stata la causa della sua nuova ricaduta.

«Perché lo hai fatto? Ero convinta che avere finalmente il tuo night club ti rendesse felice.»

Non le serviva specificare nulla. Era impossibile che il ragazzo non avesse inteso ciò di cui stava parlando. Lui respirò a fondo, allontanando la mano da quelle di Riley e prendendo a scrutare il soffitto.

«Mi sentivo solo» ammise.

Cominciò a raccontare alla ragazza tutto. Le disse dell’incontro con Louis e del fatto di averlo invitato all’inaugurazione. Le raccontò della lite avuta con il padre e di ogni cosa che si erano urlati contro; di come la sua assenza e quella di Louis fossero stati per lui un colpo durissimo e di come la rabbia, la frustrazione e la sua cocciutaggine avessero fatto il resto.

«Volevo trovare un modo per non pensare più a niente. Avevo bisogno di distrarmi, di annullarmi completamente. È sempre stato questo il motivo della mia dipendenza. Ho sempre assunto droga per annullarmi. Non per sentirmi meglio, ma per non sentire niente.

«Quando ho cominciato l’ho fatto perché non sapevo cos’altro fare per evitare che la realtà mi facesse troppo male. Cercavo in ogni modo di superare lo stress e le tensioni a cui ero soggetto per via della situazione che avevamo in famiglia. Essere un Miller ha sempre comportato degli oneri e delle etichette in cui non mi riuscivo a immedesimare, ma che con l’uso di sostanze mi andavano un po’ meno strette.

«Più i riflettori erano puntati su di noi, più sentivo il bisogno di assumere qualche genere di droga per non scoppiare. Così facendo però aumentavano le liti famigliari e di conseguenza i riflettori puntati sulle nostre vite. È un circolo vizioso da cui non sono mai riuscito a uscire.»

La dichiarazione di Jack impedì a Riley di replicare. Ripensò attentamente a quello che le era stato detto prima di parlare. Sapeva già che il legame del ragazzo con la sua famiglia non era dei più semplici, sapeva già che per lui era complicato riuscire a sopportare le liti e le discussioni che spesso nascevano a causa di una convivenza forzata che i membri della famiglia Miller avevano con la stampa e i cacciatori di gossip. Da quando aveva intuito che Jack assumeva droghe e conoscendolo come lo conosceva lei, aveva iniziato a sospettare che tutto fosse cominciato proprio perché lui non riusciva a sostenere, né a sopportare, di avere una vita perennemente giudicata da estranei.

Con la dolorosa ammissione che Jack le aveva appena fatto, Riley ebbe modo di capire che i suoi sospetti erano sempre stati fondati.

«Sai, ho visto famiglie in cui i membri non andavano affatto d’accordo, addirittura si odiavano. E, credimi, sono famiglie decisamente diverse dalla tua. Non posso immaginare come dev’essere, essere il figlio del ex Presidente degli Stati Uniti e dell’attuale Segretario di Stato, anche se sospetto che per uno poco appassionato di politica come te debba essere snervante.»

Prese fiato un momento, puntando lo sguardo fuori dalla finestra, dove il cielo cominciava a diventare più scuro. Jack non riuscì a capire cosa volesse dirgli la ragazza con quelle parole, per tale motivo aspettò, così da vedere se avesse altro da aggiungere. Riley, infatti, ricominciò a parlare: «Fatto sta che se vuoi parlare con qualcuno di quello che ti tormenta, se vuoi sfogarti o vuoi provare veramente a ripulirti dalla tua dipendenza, io ci sono. Non so quanto aiuto possa dare, ma sono disposta a provarci. In fin dei conti hai detto tu stesso che quando sei con me non hai bisogno di assumere niente. Possiamo provare a partire da questo.»

«Perché ti prenderesti un simile disturbo per me?» domandò lui, colpito dalle parole della ragazza.

Lei lo guardò interrogativa, dopodiché si strinse nelle spalle. «Perché non dovrei? Nei tre giorni che sono rimasta ad aspettarti mi sono ritrovata a immaginare come sarebbe la mia vita se dovessi perderti.»

Abbassò la voce e quasi mormorò: «E non fa per me.»

Il leggero sorriso che incurvò le labbra di Riley contagiò anche Jack. Prima che potesse ringraziarla per tutto quello che aveva fatto e stava facendo per lui, però, la porta della stanza si aprì e sulla soglia comparve Nicole. La ragazza si voltò e vedendo la donna intuì che i minuti a disposizione erano scaduti. Si alzò dalla sedia, ma subito Jack la fermò, afferrandole il polso con la mano. Riley lo sguardò, stupita.

«Ti ricordi quella volta che sono mancato da casa per due settimane?» le chiese il ragazzo.

Lei annuì semplicemente con la testa.

«Era successo qualcosa di simile. Solo che al posto della cocaina c’era il monossido di carbonio.»

Riley sgranò gli occhi, incredula. Capì subito perché una volta aver rivisto Jack dopo quelle due settimane, il ragazzo le era parso tanto turbato. Non si trattava del night club o della semplice rottura con Louis. Jack aveva tentato il suicidio. Aveva provato ad annullarsi fin quasi a raggiungere la morte.

La ragazza non riuscì a dire nulla. Sentì solo una forte determinazione crescerle dentro. Non sapeva di aver rischiato di perdere Jack ben prima dell’inaugurazione del night club e non sapeva di averlo avuto vicino quando lui aveva davvero bisogno di aiuto. Promise a se stessa che non avrebbe mai più permesso al dolore di sopraffare Jack, non finché lei poteva in qualche modo impedirglielo.

Nicole li raggiunse.

«Sarebbe meglio che ora riposassi» disse rivolta al figlio, la voce più insicura di quanto Riley ricordasse.

Jack parve non fare caso a quello che la madre gli aveva appena detto. Continuò a guardare la ragazza, una supplica negli occhi chiari. «Scusa se non te l’ho mai detto prima. Non sapevo come fare.»

Lei si ricompose. «Lo hai fatto ora. Va bene ugualmente.»

«Vorrei che uscissi.»

Nicole alzò il tono di voce, interrompendo così lo scambio di sguardi fra i due ragazzi. Riley si voltò verso di lei e fece segno di sì con il capo. Dopodiché tornò a guardare Jack. «Per quanto tempo starai via di casa?» domandò.

«Il tempo necessario» rispose Nicole per Jack.

Riley non la degnò di uno sguardo nonostante avesse sentito la risposta.

«E se in questo lasso di tempo io volessi vederti?»

Lui sorrise, dolcemente. «Ti chiamo io» disse.

La ragazza non disse altro. Si avvicinò al viso di Jack e gli diede un leggero bacio sulla fronte. Lo salutò debolmente e dopo un ultimo sguardo si avviò verso la soglia, seguita da Nicole. Come furono fuori la donna chiuse la porta e si voltò verso la ragazza. Sembrava stanca e provata, l’aura austera era scomparsa. Sospirò, alzando poi lo sguardo su Riley: «Ti pregherei di non dire a nessuno di tutto ciò. Jack non ne ha bisogno.»

La ragazza si sentì immediatamente offesa per quella frase. Tuttavia si rese conto che quella davanti a lei era una madre che cercava di proteggere il proprio figlio. Si sarebbe certamente comportata così anche lei se fosse stata al suo posto.

«Non ne ho nessuna intenzione. Solo vorrei che non mi toglieste dalla vita di vostro figlio esclusivamente perché temete che possa fare qualcosa di sconveniente.»

La voce di Riley suonò così sicura da cogliere Nicole impreparata. Tuttavia, dopo un primo momento, la donna sorrise, colpita. «Abbiamo privato già troppe volte Jack delle cose che ama. Temo che sia dovuto a questo nostro atteggiamento sbagliato la sua presenza qui. Non commetteremo nuovamente lo stesso errore.»

Riley sorrise, pronunciando un veloce ringraziamento. Augurò buona giornata a Nicole, dopodiché si avviò verso l’uscita dell’ospedale. Dopo tre giorni trascorsi in quell’edificio poteva finalmente uscirne con l’intenzione di non rimetterci piede tanto presto. Non lo avrebbe fatto e non lo avrebbe permesso a nessuna delle persone che amava, non se poteva impedirlo.

 

 

 

  
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