Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Naco    18/04/2009    1 recensioni
Un incontro, assolutamente casuale. E la ruota del destino comincia inesorabilmente a girare.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Mara e i suoi amici'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
XIV

Mi svegliai che era già mattina. Erano anni che non dormivo così a lungo, nonostante la posizione non fosse delle più comode: a quanto pareva, piangere così tanto e non dormire per una notte intera potevano rivelarsi utili, ogni tanto.
Guardai l’orologio e giudicai che avrei fatto in tempo a farmi una bella doccia prima di telefonare alla casa editrice e di uscire.
Ignorando il ben di Dio presente nel mio frigo, presi un budino per colazione e meditai su come liberarmi di tutta quella roba: ne avrei portato un po’ ai signori Saracino, ovviamente, e probabilmente avrei organizzato una cena con i miei amici; tutto, pur di non restare da sola per qualche giorno.
Controllai l’orario e presi il numero telefonico che la direttrice mi aveva dato il venerdì precedente; sì, decisamente era ora di fare quel passo.
Il telefono squillò a vuoto per qualche secondo prima che una voce maschile mi rispondesse,
“Ehm… Parlo con la casa editrice Grandi Sogni?” provai titubante.
“Lei è la signorina Mara Facchetti?”
“Sì…” Ero spiazzata: aspettava forse una mia chiamata?
“Salve. Sono Andrea Berardi. Sono io che l’ho cercata, per conto della casa editrice.”
“Oh…” Andrea Berardi: dove avevo già sentito questo nome?
“Senta, lei è una studentessa universitaria, vero?”
“Sì.”
“Le andrebbe di venire a trovarmi all’università? Il mio dipartimento è al terzo piano dell’ateneo. Ha presente?”
“Sì, ho capito.”
“Le chiedo scusa se non posso essere più preciso al telefono, ma, sa, ho lezione fra pochi minuti.”
Lezione?
“Ma certo. Devo venire in ateneo oggi perché anche io ho lezione.”
“Perfetto! Che ne dice per le 11.30? Le va bene?”
“Sì, certo.”
“Allora, la saluto. A dopo.”
Chiuse velocemente la comunicazione e io mi ritrovai a fissare il display del mio cellulare, disorientata.
Andrea Berardi. Era un nome che avevo sentito da qualche parte, ne ero sicura, anche se non ricordavo in quale occasione. Se doveva tenere una lezione, significava che era un docente, oppure un assistente; sì, ma di quale materia? Non una delle mie, indubbiamente, né della facoltà di lettere in generale, visto che, bene o male, li conoscevo quasi tutti, almeno di fama; del resto, se aveva il dipartimento all’ultimo piano, era davvero improbabile che frequentasse i nostri dipartimenti.
Troppo curiosa per resistere, mi collegai un attimo al sito dell’università, e ci misi pochi minuti per venire a capo del mistero: insegnava letteratura per l'infanzia. Immediatamente, tutto mi fu chiaro: c’erano molti miei colleghi che, per i crediti a scelta, avevano deciso di dare quell’esame, proprio perché la materia era piuttosto interessante e per nulla difficile. Mi venne la tentazione di spulciare la sua pagina, magari per cercare di carpire qualche informazione in più, ma era tardi, così decisi di rimandare.
Uscii di casa che ero ancora preda delle mie riflessioni, quando mi trovai davanti la signora Lucia; cacciai un urlo di gioia.
“Signora! Ma allora è già uscita? Stavo pensando di venirla a prendere io, con la macchina!”
La signora mi abbracciò: “Ma no, cara, non ce n’era bisogno. Marcello mi ha detto di non dirti niente proprio per non disturbarti inutilmente.”
“Ma non è un disturbo!” protestai io.
“Lo so, cara, ma tu hai così tante cose da fare! Non preoccuparti per me.”
“D’accordo. Però mi permette di invitare lei e suo marito a cena stasera, da me? Mia madre mi ha costretta a fare la spesa per cento persone e nel frigorifero non entra più niente!”
La signora sghignazzò: ero contenta di vederla fuori dall’ospedale, gioviale e allegra come al solito.
“Lo so. Mi ha detto che, secondo lei, tu non mangi abbastanza.”
“La ignori. Lei lo sa che io mangio.”
“Certo che lo so, cara. Ma, io… ecco… non vorremmo disturbarti troppo…”
Non accettavo un no come risposta. “La prego! Finora lei si è sempre presa cura di me e adesso vorrei ripagarla in qualche modo: mi dica cosa vuole mangiare, e gliela preparerò.”
La donna mi fissò: c’era uno strano luccichio nei suoi occhi che non mi convinceva per niente. Non è che stava per mettersi a piangere, vero?
“Va bene, cara, hai vinto. Marcello!” l’uomo apparve dietro di lei con il borsone della moglie “Mara ci ha invitato a cena stasera e non ammette rifiuti.”
“Sia mai che noi offendiamo una gentile signorina rifiutando il suo cortese invito!” commentò con un inchino “Siamo onorati di essere da lei per cena, signorina.”

Il “terzo piano” era chiamato così, non tanto per distinguerlo topograficamente dagli altri due, quanto per le attività che vi si svolgevano: il primo piano era quello destinato alle segreterie; il fatto che vi fossero anche vari dipartimenti – come quello del professor Amani, per esempio – era un dettaglio trascurabile: era lì che gli studenti di tutte le facoltà dovevano recarsi per richiedere un certificato o immatricolarsi e il terribile pensiero delle file interminabili che si era costretti a fare aveva portato tutti gli studenti a dimenticare l’esistenza di altre attività in quella zona. Il secondo piano era nostro, ossia degli studenti di lettere e filosofia e quelli di scienze storiche; in verità, anche qui c’erano dei dipartimenti non attinenti alle nostre materie, ma il fatto che ci fossero lì anche le aule in cui si tenevano le lezioni a cui ogni giorno assistevamo ci faceva provare uno strano sentimento di possessività.
Il terzo piano, invece, era il regno di scienze della comunicazione, della formazione e dell’educazione, con le loro aule e i loro dipartimenti; beninteso, non che gli studenti facessero lezione solo lì, visto che non era neanche così grande, ma nell’immaginario collettivo era il luogo dedicato alle materie psicologiche.
A me, quel piano non era mai piaciuto: i corridoi troppo stretti, con il soffitto troppo basso, sembravano dei cunicoli senza uscita; ci ero stata un paio di volte e mi ero ripromessa di non metterci più piede.
Il dipartimento del professore era esattamente in uno di quei corridoi che tanto odiavo. Quando arrivai, la porta era aperta e non c’era nessuno.
Cominciamo proprio bene, mi trovai mio malgrado a pensare.
“La signorina Facchetti?” mi chiese all’improvviso una voce che riconobbi subito essere quella che mi aveva risposto al telefono.
“Sì.”
“Molto piacere,” disse tenendomi la mano “sono lietissimo di incontrarla, signorina. Vuole accomodarsi?”
Lo anticipai, mentre lui chiudeva la porta alle nostre spalle. Si sedette di fronte a me, affabile: aveva un volto simpatico, decisi, gli occhi scuri, in contrasto con il bianco dei suoi capelli; doveva essere una persona molto attiva, pensai.
“Allora arrivo subito al dunque, signorina. Lei non lo sa, ma io sono un suo compaesano.”
“Davvero?”
“Sì. Ho letto i suoi racconti sul giornale e sono rimasto favorevolmente impressionato.”
Pensai che, per il momento, non avrei distrutto il suo sogno e avrei evitato di rivelargli che, in realtà, io lì ci vivevo soltanto da quando studiavo all’università, quindi per motivi di studio.
“Grazie.”
“Io, come immagino saprà, insegno letteratura per l’infanzia. Ho pubblicato vari libri, oltre a saggi di vario genere sull’argomento, perciò sono rimasto molto colpito dai suoi scritti. Recentemente,” si sistemò meglio sulla poltrona “ho deciso di non pubblicare raccolte mie, ma sponsorizzare autori emergenti, come lei, che affluiscono comunque ai miei interessi.”
Annuii, per dimostrargli che stavo seguendo il discorso.
“Quindi… cosa ne pensa?”
“Beh, sarebbe un sogno che si avvera.” Ammisi. “Però, per esperienza, so che i sogni possono anche trasformarsi in incubi.”
Rise: “Bella metafora, mi piace! Capisco cosa intende lei: chi mi assicura, lei sta pensando, che questo qui non si prende le mie storie spacciandole per sue?”
Non ero stata così diretta, e non lo sarei mai stata, però, sì, il pensiero era stato proprio quello: non ero così sprovveduta da non conoscere anche questi risvolti.
“Non mi guardi così, signorina. Lei ha perfettamente ragione a non fidarsi di tutti indistintamente. Avevo pensato di incominciare con la pubblicazione dei suoi racconti già pubblicati, magari con l’aggiunta di qualcuno inedito, in modo tale che nessuno possa prendere alcunché; poi, se avrà successo, e ne sono certo, potremo continuare con la pubblicazione di storie completamente inedite.”
Non riuscivo ancora a capacitarmi che stesse accadendo proprio a me.
“Ma… scusi se insisto, però… crede veramente che qualcuno spenderebbe i propri soldi per i miei lavori?”
Il professore scoppiò quasi a ridermi in faccia: “Vedo che ha tantissima fiducia in se stessa! Beh, ovviamente la certezza assoluta non potremo mai averla prima di averci provato, ma secondo me, non ci saranno problemi di sorta.”
Arrossii: era un difetto che tutti mi criticavano, quello, ma io non riuscivo a farne a meno.
“Bene,” si alzò, segno che la discussione era terminata “Che ne dice di vederci fra qualche giorno direttamente in casa editrice? Magari, porti qualche racconto inedito, così potremo decidere insieme quale inserire nella raccolta.” Mi esortò aprendomi la porta molto cavallerescamente.
“Oh!”
L’esclamazione attirò la mia attenzione e mi ritrovai faccia a faccia con il professor Amani; non proprio la persona che sognavo di incontrare in quel momento.
“Buongiorno, professore.”
“Buongiorno. Come mai al terzo piano?”
“Ma come, vi conoscete?”
“In un certo senso…”
“Saverio, ti avevo detto che avevo deciso di curare la pubblicazione di un’autrice emergente, no? Beh, si tratta proprio della signorina!”
Il professore sgranò gli occhi: “Congratulazioni, allora!”
“Grazie. E lei come mai è qui, professore?”
“Andrea mi ha chiesto aiuto per la traduzione di un articolo dall’inglese.”
“Capisco.”
“Signorina,” mi prese da parte, mentre il professor Berardi veniva fermato da alcuni ragazzi che probabilmente volevano chiedergli qualche informazione sull’esame. “Volevo ringraziarla per quello che ha fatto per mia moglie. Non sa quanto gliene sono grato.”
Lo sapevo che saremmo finiti su quell’argomento.
“Non mi deve ringraziare, professore. In verità, Hiroshi ha fatto tutto da solo: gli serviva solo una spinta.”
“Può darsi. Lo sa che ieri ci ha chiamati per salutarci e dirci che oggi sarebbe partito?”
Mi bloccai. Cosa?
“Cosa? Parte oggi?”
Mi guardò stupito: evidentemente, pensava lo sapessi. “Ma come, non le ha detto niente? Parte questo pomeriggio, per le sei. In realtà non mi aspettavo che se ne andasse così presto, ma ha detto che doveva tornare urgentemente in Giappone per lavoro. Strano non l’abbia avvisata.”
“Sarà stata un’emergenza e non ci ha pensato.” Cercai di rispondere con noncuranza.
“Lo penso anche io. Buona giornata e grazie di tutto!”
Sorrisi, o almeno, provai ad atteggiare la bocca ad un sorriso, ma non dissi nulla.
Partiva.
Sapevo che sarebbe successo: dopotutto, lui era giapponese e aveva un lavoro. E nel giro di poche ore, sarebbe ritornato alla sua vita di sempre; eppure, dal sapere vagamente che questa eventualità era possibile al sentirsi dire che sarebbe partito entro poche ore, ce ne correva. Non l’avrei rivisto mai più; non avrei potuto più spiegarmi; sarebbe andato via senza sapere la verità.
Mi ritrovai al secondo piano senza ricordarmi come ci fossi arrivata. Dovevo avere davvero un’espressione strana, perché più di una persona mi lanciava occhiate preoccupate e curiose al tempo stesso.
“Mara!” riconobbi la voce di Luca e me lo trovai accanto.
“Ciao, Luca.”
“Mio Dio, Mara, ma che è successo?”
Scossi la testa, ma non parlai: se solo avessi aperto bocca, sarei scoppiata a piangere davanti a tutti.
“E’ successo qualcosa con Hiroshi?”
Perché quel ragazzo era così perspicace?
“Parte. Oggi.”
“Ma come lo hai saputo?”
“Me l’ha detto il professor Amani.”
“Ah…” tacque, non sapendo cosa dire; non che ce ne fosse bisogno, ovviamente.
“Senti,” sentivo il peso sul cuore farsi sempre più pesante “io me ne torno a casa. Non ce la faccio a seguire una lezione. Salutami gli altri, ok?”
“Sicura che non vuoi che ti accompagni almeno in stazione?”
Mi scostai da lui con una manata: “No. Ho bisogno… ho bisogno di stare un po’ da sola, per favore.”
Acconsentì di malavoglia; lo avvertii chiaramente dal suo sguardo preoccupato, dalle sue labbra che fremevano, desiderose di insistere, nonostante il mio rifiuto. Mi allontanai prima che riuscisse a farmi cambiare idea e mi diressi verso la stazione; da qualche parte, dietro di me, sentii la voce di Enrico che arrivava proprio in quel momento.
Capivo l’ansia di Luca e me ne rendevo conto anche io; eppure, non me ne importava niente: anche se in quel momento un treno mi avesse investito, io non me ne sarei neanche accorta.

Quando aprii la porta di casa e mi ritrovai di nuovo nel mio appartamento, mi accorsi dell’enorme stupidaggine che avevo commesso nel tornare indietro: avevo cercato qualsiasi appiglio, pur di non restare sola fra quelle mura, e invece io mi ci ero buttata come un suicida si lancia contro una macchina in corsa. Fu solo quando avvertii qualcosa di bagnato sulle guance, che compresi quanto nel mio inconscio avessi desiderato essere finalmente lì: restare da sola per un po’ e sfogare il dolore e la rabbia piangendo. Perché, quelle lacrime che ormai bagnavano completamente le mie guance e quei singhiozzi che riempivano le mie orecchie non erano gli stessi di quando mi ero sfogata con mia madre: non ero abituata a mostrare a tutti il mio dolore e per questo, solo in quel momento, libera persino di urlare se avessi voluto, capii quanto quel pianto, in completa solitudine, fosse davvero liberatorio per me.
Pensai che, se fossi stata meno stupida, le cose sarebbero andate molto diversamente e avrei potuto spiegarmi e chiedere spiegazioni. Come un’idiota, mi resi conto di non sapere neanche in quale albergo alloggiasse e non avevo neanche voglia di chiederlo al professor Amani: in quel caso, avrei dovuto coinvolgere lui e sua moglie in una questione che riguardava solo me e Hiroshi e non volevo che il fragile rapporto instauratosi tra loro, per questo, potesse uscirne ancora una volta incrinato.
Non so quanto tempo rimasi in quel limbo prima di riprendermi: ormai era fatta, cercai di convincere me stessa, avevo trascorso dei bei giorni, con lui, e, nonostante tutto, non rimpiangevo il nostro incontro. A che cosa serviva deprimermi ancora?
Mi alzai e andai in bagno a sciacquarmi il viso; mi guardai allo specchio e per poco non gettai un urlo: capivo perfettamente la preoccupazione di Luca e di tutti coloro che avevo incrociato sul mio cammino. Non potevo permettere che anche la signora Lucia mi vedesse in quello stato, altrimenti rischiavo seriamente di doverla riaccompagnare all’ospedale, prospettiva che, ovviamente, non mi allettava per nulla.
Corsi in cucina, accesi il computer e feci una ricerca veloce su cosa avrei potuto preparare.
Il campanello squillò proprio mentre posizionavo gli ingredienti sul tavolo.
“Sì?”
“Sono il signor Marcello.”
Merda. Aprii, nonostante tutto.
“Sì?”
Il signor Marcello mi squadrò un attimo. “Tutto bene?”
“Sì.” La mia voce era più sicura “Stavo pulendo le cipolle.” Era la scusa più vecchia del mondo, ma, visto che stavo cucinando, era in fondo una mezza verità.
“Ah, capisco.” Non sembrò avere nulla da ridire sulla mia versione. “A proposito di questo, non ci ha detto che per ora dovremmo venire.”
“Uhm… verso le otto, va bene?”
“Perfetto!”
“C’è qualcosa che sua moglie preferisce o che il medico le ha consigliato?”
Ci pensò su. “Verdure.”
Registrai il dato, nonostante avessi già in mente di preparare un piatto simile.
Ci mettemmo d’accordo per gli ultimi dettagli e mi ritrovai di nuovo sola. La voce era tornata quella di sempre e le mie guance erano di nuovo asciutte; una serata con loro mi avrebbe fatto bene, ne ero sicura.
Tornai in cucina molto più di buon umore, e mi diedi da fare. Non ero una cuoca provetta, ma sapevo arrangiarmi egregiamente, così preparai una zuppa di verdure e una frittata di zucchine.
Quando guardai nuovamente l’orario, l’orologio segnava le sette. Visto che avevo finito di preparare tutto quanto, cercai qualcos’altro da fare: se mi fossi fermata un attimo, avrei ricominciato a pensare e non mi andava. Decisi di continuare a scrivere il racconto che avevo iniziato il giorno prima per far scorrere più in fretta il tempo; il ticchettio solitario delle mie dita sui tasti mi mise allegria.
Quando lanciai un’occhiata sul datario del computer, l’orologio segnava le 7.30: il professore aveva detto che l’aereo di Hiroshi sarebbe partito alle sei del pomeriggio; quindi, in quel momento, doveva già essere arrivato a Roma, oppure essere ancora in viaggio a causa di qualche ritardo; mi chiesi se stesse facendo direttamente il check in, oppure avesse deciso di fermarsi a Roma almeno per una notte. No, cambiai idea all’ultimo secondo, a lui Roma non piaceva, perché odiava i luoghi troppo caotici, mi aveva detto, quindi probabilmente sarebbe ripartito subito. Lui preferiva Venezia.
Ormai i pensieri correvano più veloci e avevano seminato da un pezzo la mia volontà di fermarli; ritornai con la mente a quella sera, così piena di avvenimenti da sembrare che fosse durata una vita.
La vista ricominciò a farmi brutti scherzi e capii che stavo nuovamente per scoppiare in lacrime. No, protestai contro me stessa, non potevo farlo. Non in quel momento. Loro non dovevano vedermi così. Dovevo essere allegra, parlare del mio incontro con il professore, della casa editrice, di quello che la vita mi stava mettendo davanti…
Il citofonò squillò, strappandomi nuovamente da questi pensieri; guardai l’orologio che segnava le 7.45 e, senza neanche chiedere chi fosse, aprii.
“Eccovi finalmen…!”
Le parole mi morirono in gola: davanti a me, c’era Hiroshi.
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Naco