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Autore: sfiorisci    03/07/2016    6 recensioni
Non c’è un modo per evitare il dolore.
Lascio che questo entri in me, che mi affoghi, che mi scorra nelle vene, che mi plasmi a suo piacimento. Sono sempre stata una bambola di porcellana strana, perché invece di essere vuota come le altre, sono colma di dolore.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Bambole di porcellana


A te:
questa è la risposta alla domanda
che non mi hai mai fatto


Non c’è un modo per evitare il dolore.
Lascio che questo entri in me, che mi affoghi, che mi scorra nelle vene, che mi plasmi a suo piacimento. Sono sempre stata una bambola di porcellana strana, perché invece di  essere vuota come le altre, sono colma di dolore. Le persone dall’esterno mi vedono fragile, hanno paura di toccarmi. Non capiscono quanto brami il loro amore, quanto questo potrebbe salvarmi; basterebbe poco: qualche parola, un abbraccio. Credo che siano spaventate, spaventate dal mio dolore, da ciò che non vedono ma percepiscono. Esse non accennano a fare un passo nella mia direzione, così mi sporgo, ogni giorno di più, per essergli più vicina, convinta che solo tra le loro braccia troverei il desiderato conforto.
Le altre bambole di porcellana mi osservano scuotendo la testa, non comprendendo le mie azioni. Come posso spiegare loro che ciò che mi sta accadendo è così fuori dal comune che non lo capisco nemmeno io fino in fondo?
Come posso far comprendere il mio disagio, il mio dolore, se le bambole non dovrebbero avere sentimenti, se il nostro compito è solo quello di sorridere, sorridere, sorridere finché siamo esposte? C’è qualcosa che sta crescendo in me, qualcosa di cui loro sono prive e che la porcellana non riuscirà a trattenere a lungo. Gli uomini e il loro amore sono la mia unica salvezza.
Così, passo dopo passo, un giorno mi spingo troppo oltre la mensola e precipito, aspettando le braccia amorevoli che mi avrebbero presa al volo e salvata. Ma non arriva nessuno e continuo a cadere e mentre cado so che questa è la fine, che non mi riprenderò più, che è troppo tardi per salvarmi, che la vista di me a terra deluderà molte persone.
“Ma come, una bambola così bella…” sussurreranno, incapaci di capire le motivazioni del mio gesto.
Mi sono schiantata, mi sono infranta e il dolore, il male, è uscito. Ora ne sono priva, ma sono a pezzi. I resti di me sono sparsi in tutta la stanza: qualcuno ci si è ferito camminandoci sopra e ha deciso che le bambole di porcellana non fanno più per lui. Persone di questo tipo mi hanno sputato addosso e poi sono uscite per non rientrare mai più.
Il vuoto che la rottura mi ha lasciato, quel niente così intenso che ti si insinua nelle ossa, fa sì che io resti indifferente a tutto ciò.
A volte penso di meritarmelo, per essere stata una stupida bambola. Prima sentivo dolore, tanto dolore, ma almeno quello era un sentimento. Ho imparato a mie spese che il dolore è molto meglio del vuoto.  Ora passo la notte insonne, a guardare le altre bambole sulle loro mensole, sorridenti, perfette, belle come non mai. Provo un moto d’invidia per quand’ero anche io come loro, per quando essere su quella mensola era tutto per me.
Adesso tutto mi sembra così stupido, così privo di significato. Perché sono  a terra e loro continuano a ridere, a pensare di essere esposte, ad ignorarmi. Da quando sono precipitata non mi hanno degnato di uno sguardo, i loro occhi sono sempre fissi verso l’alto per non vedere la tragedia che si consuma a terra. E pensare che sarebbe bastato solo un attimo, posare gli occhi sul pavimento e vedere i cocci di me sparpagliati… hanno preferito pensare che non ci fossi più, che fossi scomparsa, da un giorno all’altro. Tutti gli istanti passati insieme – veri o finti che siano stati – a sorridere sulla mensola, per loro non valgono niente. Hanno impiegato il tempo di una caduta per cancellarmi dalla loro memoria.   
Con il passare del tempo mi accorgo che io non sono come loro, che non sono una bambola di porcellana, ma qualcos’altro. Allora provo curiosità per me stessa e inizio a ricostruirmi, un pezzo alla volta. Alcuni sono schizzati via lontano e ci metto una vita a raggiungerli, per altri vengo aiutata da qualche mano amica. Ogni tanto mi guardo allo specchio, per vedere cosa sto diventando, per controllarmi e noto che non mi riconosco. Guardo una figura e il riflesso mi dice che dovrei essere io, ma non ne sono tanto sicura.
Quando finisco di rimettermi a posto ho cicatrici lungo tutto il corpo, nei punti di frattura della porcellana. Mi guardo e capisco che non sono più la stessa persona che ero su quella mensola e non lo sarò più. Porto cicatrici troppo evidenti per poterle nascondere e so che va bene così, per ricordarmi del male che mi sono fatta, di come abbia deciso di lasciarmi cadere.
Il problema del dolore non è tanto il dolore stesso, ma il trovare il coraggio di farlo uscire e poi ricomporsi, con la certezza di non essere più chi si era prima. Non è detto che questa nuova me sia migliore o peggiore della precedente e, finché non avrà finito il suo corso, non lo potrò dire. So che sono nuova, che sono un cambiamento, che ho amato, sentito dolore, mi sono rotta, ricostruita e rinata.
E so che il mondo continuava ad esistere quando sentivo dolore, quando ero a pezzi e anche ora che sono coperta di cicatrici, che è andato avanti senza di me e che me lo sono perso. Ma se imparare dai propri errori serve a qualcosa, non mi lascerò più sfuggire nemmeno un attimo.
Ora riesco a respirare l’aria e so che quest’aria la stanno respirando altre persone. So che qualcun altro è crollato, che qualcuno ha avuto la forza di reagire, altri no, alcuni sono felici. So che il mondo è fatto di attimi e che ciascuno di essi è importante. So che l’amore serve per vivere, il dolore per riconoscere l’amore, il niente per apprezzare anche il dolore. Tutto serve nel mondo e, nel mio piccolo, servo io: per dare speranza ad altre persone, per regalare un sorriso, per rendere felice qualcuno, per amare ed essere amata, per odiare ed essere odiata, per scrivere parole che siano di conforto o d’ispirazione.
Come io guardo le stelle mi sento, finalmente, in pace: e penso a come il mio cuore batta allo stesso ritmo di tanti altri cuori e ho la consapevolezza che non sarò mai sola. E penso con tristezza al punto dal quale sono partita, penso alle altre bambole, belle e fredde come il ghiaccio, che sorridono e t’illudono. Penso alla loro mensola, alla loro limitata visione del mondo, alla loro non-vita.
Mentre io sono qui. Rotta. Amata. Abbandonata. Con cicatrici. Ma viva.


 

Questa storia l'ho scritta l'anno scorso, in un periodo della mia vita molto particolare. L'ho scritta di getto, molto di getto, infatti ho faticato molto per renderla pubblicabile. Non so bene cosa aspettarmi, sapevo solo che avevo bisogno di farla leggere, di trovare altre persone che si erano sentite quella bambola. Spero apprezzerete! 

Francesca.
   
 
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