You
fell asleep in my car, I drove the whole time
But that's ok, I'll just avoid the holes so you sleep fine
I’m driving here I sit, cursing my government
For not using my taxes to fill holes with more cement
Tear in my heart, Twenty One Pilots
Gerard mi avvicina una mano al viso.
Non mi vorrà baciare, Cristo. (No, Gesù, non era una domanda rivolta a te.)
«Hai…»mi sfiora sotto l’occhio e appena sento il suo dito, un’esplosione ci
destabilizza facendoci separare di quasi un metro.
Eccolo, il familiare sapore dell’erba in bocca.
Un’esplosione? A quest’ora del sabato? Guardo Gerard, sentendo il forte battito
del mio cuore anche nelle orecchie, e anche lui mi sta guardando. Abbiamo gli
occhi spalancati, e lo sguardo vigile; mi giro in cerca di funghi atomici o
palazzi in fiamme, ma il mondo sembra essere imperturbato.
«Cosa…» Prova a dire, poi scuote la testa e si alza, mi porge una mano. Le sue
frasi sembrano essere più sospese nello spazio fra tre puntini che nell’aria
tra di noi, non sarà mica diventato propenso alla reticenza.
Alzo la mano e la vedo tremare impercettibilmente, poi prendo la sua e mi alzo
intenzionato a non lasciargliela. In momenti traumatici il contatto fisico può
aiutare.
Senza parlare, decidiamo di andare dagli altri nella speranza di scoprire
qualcosa. Sempre senza parlare, camminiamo e sfruttiamo il tempo della breve
camminata per normalizzare i battiti cardiaci. Pian piano le nostre dita si
rilassano.
Gli invitati sono un po’ scombussolati, ma non sembrano preoccupati. Gerard ci
porta da suo fratello, e lo vediamo intento a parlare con un ragazzo.
Decide di immettersi nella conversazione tra i due: «Ehi, Mik,
hai sentito anche tu quel… hm-» e Mikey lo
interrompe, quasi sbrigativo. «Questo i- il tecnico del suono, a quanto pare,
ha voluto testare il volume o qualcosa del genere e ha giustamente pensato di
usare la registrazione di una fottuta bomba.» Ha le braccia incrociate, e senza
muoverle accenna con la testa ad un ragazzo alla sua destra, che alza una mano
in segno di saluto e scuse; è biondo, dall’aria simpatica, alto, un piccolo
gigante gentile.
«Te l’ho detto, l’espl-» Mikey
rifiuta le sue spiegazioni con un teatrale gesto della mano. «No. Ne abbiamo
già parlato.»
«Alicia? Dov’è?» Decide di dire Gerard. Anch’io pensavo che i matrimoni
implicassero la continua copresenza dei due neosposini,
uno di fianco all’altro, dalla prima messa all’ultima cena.
«Uhm, sarà a bere con le sue amiche da queste parti. Voi, dov’erav-» i suoi occhi si abbassano alle nostre mani «oh, ho
capito.»
Tolgo la mano da quella di Gerard e fisso il prato in imbarazzo. Accidenti. No,
Mikey, non hai capito…
«Mik, non è com-» Il
fratello lo interrompe per la seconda volta, e Gerard apre la bocca incredulo.
Con ancora la mascella a terra, segue con lo sguardo Mikey
liquidatosi con un professionale: «Vado a cercare mia moglie.»
«Credevo che ai matrimoni quelle schizzate fossero le mogli, e ai mariti
spettasse la parte dell’alcolizzato.» Gli dico.
Il ragazzo ride, anche Gerard. Ci scambiamo i nomi perché evidentemente le
nostre ultime interazioni hanno comportato il passo successivo della nostra
neo-amicizia; si chiama Bob.
«Allora, hm… voi state insieme?»
Gerard diventa un peperoncino, e prontamente risponde: «Non- No.»
Insieme. Oddio, siamo insieme, ma non stiamo insieme. Non- No.
Proprio come ha detto Gerard.
«Cosa te l’ha fatto pensare?» gli chiedo io.
Ci guarda, guarda sia me sia Gerard nello stesso momento, come se fossimo
un’unica cosa. Non so come ci riesca. «Sembrate una bella coppia.»
«…di amici.» puntualizza Gerard, valorizzando lo scetticismo con un
sopracciglio espressivo.
«Chi può dirlo?» detto questo, ammicca e scompare tra i suoi cavi e fili.
Perché ha ammiccato? Non stava flirtando con noi. Insomma, secondo la sua
logica dovremmo flirtare io e Gerard; forse spera in un qualche processo a
specchio, in un’induzione passiva.
«Noi?» dice Gerard, perplesso, rivolto all’aria che ora sta dove prima era Bob.
«Sembra simpatico questo Bob» è più un pensiero ad alta voce il mio.
Inaspettatamente, un amplificatore mi risponde: «Grazie.» Mi sta decisamente
simpatico.
«Non parlavo con te, Marshall»
Al mio pessimo senso dell’umorismo segue una serie di risate e starnazzi
pietosi; non credevo di conoscere persone tanto imbecilli. Mi allontano da
questi suoni strani, e dopo qualche passo mi sembra di sentire un borbotto da
Gerard: “inizio a provare dei sentimenti per te”.
Non ha senso.
Per prima cosa, non ha senso. In secondo luogo, be’, perché inizia? Credevo mi
volesse già bene, almeno un minimo. Terzo, che significa?
Per fortuna mi stavo già allontanando quando ha parlato – sempre se ha parlato
davvero –, mi sarei allontanato in qualsiasi caso, probabilmente, a disagio.
Dei sentimenti.
Di odio? Ecco, lo sapevo. Tutto è cominciato con un favore, e tutto per
arrivare a quest’altro favore. Non voleva fare pena a sua madre, e si è trovato
un falso amico da illudere, e ora si è persino reso conto che faccio schifo
come essere umano quindi mi odia. Almeno ha avuto la decenza di dirlo. Oppure
sta solo aspettando il momento giusto per sacrificarmi a Satana.
Mi siedo, tanto qui c’è solo erba, morbida.
Dovrei andare da lui, a salutarlo per sempre, poi me ne andrò a casa a piedi –
potrei fare l’autostop. Sì, è la soluzione miglior- no, non sono neanche sicuro
di quello che ha detto. Per quanto ne so, è stata un’allucinazione acustica o
qualcosa di altrettanto banale. Per quanto ne so, mi vuole bene. Per quanto ne
so, mi ama. Per quanto ne so… brucia chiese. Di solito non sono uno che
giudica, se brucia chiese possiamo rimanere amici. È solo illegale, credo, ma
non lo dirò a nessuno.
Un’ombra si espande al mio fianco, e scopro che tra il prato ed il sole si è
infilato l’oggetto dei miei pensieri – non le chiese bruciate. Ha due piattini
di torta in mano.
Ora, forse, sono io a provare sentimenti. Sentimenti forti.
Oh, cielo. C’è anche il cioccolato.
«Diavolo, ma c’è anche il cioccolato!» afferro un piattino «Grazie Gee.»
Si siede di fianco a me.
«Ed è un problema?»
«Al contrario. Ormai anche la scienza ha confermato che le torte con anche solo
minime tracce di cioccolato non possono non essere buone.»
Ci sorridiamo, e iniziamo a mangiare.
E la torta è buona.
Questo matrimonio in pratica si sta trasformando in un rave senza
droghe. Siamo quasi tutti “intorno” al palco, e stanno suonando quattro degli
invitati, ogni tanto qualcuno sale e suona un pezzo di canzone o disturba
qualcuno poi salta giù. Anche quel Bob ha suonato la batteria, ad un certo
punto. Ed era anche bravo – inoltre, non so perché, è uno dei pochi di cui
ricordi il nome. Una persona su quattro ha una bottiglia di vino in mano, e tre
persone su quattro aspettano di poter tenere una bottiglia di vino. Qui più che
altro c’è la parte degli amici degli sposi, i loro parenti credo siano quasi
tutti intorno a dei tavoli lì in fondo.
Ho paura che Gerard possa ricordarsi che suono la chitarra e mi chieda di
andare a suonare.
Una ragazza mi è caduta addosso, o si è buttata contro di me. La guardo
perplesso. Forse vuole ballare con me; o peggio, una sveltina.
Le sfilo la bottiglia dalle mani e mi allontano. Il cielo è giallo, e
arancione, anche grigio, un po’ come il cielo la mattina del matrimonio di mia
cugina. Intorno agli alberi è in evidenza un brillante alone, tanto simile ad
un “arrivederci” espresso dal Sole stesso.
Ho sempre trovato divertente il fatto che il tramonto e l’alba si assomiglino
tanto – un tramonto, poi, è l’alba in un’altra parte del mondo –, pur essendo
l’opposto l’uno dell’altro.
«Ehi, Gerard.» gli dico, appena lo ritrovo. «Tieni» gli porgo la bottiglia. Se
beve abbastanza può dimenticarsi di farmi suonare la chitarra, o comunque non
potrebbe avere abbastanza forze per costringermi a farlo, sarebbe più facile da
distrarre. In assenza di cloroformio, il vino rimane tra le opzioni più
convenienti.
La prende, mi guarda scettico.
«Hai ragione» dico, riprendo la bottiglia e vado verso la gente che si agita
vicino al palco. Preferisco non rischiare di prendermi strane malattie
infettive: regalo la bottiglia alla prima persona che vedo e correndo piano
arrivo ai tavoli dei parenti. Non si curano della mia presenza, credo stiano
facendo un torneo a un qualche gioco con le carte. Prendo le bottiglie più piene
che vedo e vado via con nonchalance, sorridendo educatamente al signore che mi
guarda interrogativo.
«Ecco, tieni.» Prendo un sorso io poi do la bottiglia a Gerard, per fargli
vedere che può fidarsi. Le sue mani toccano il collo, dove c’è anche la mia
mano, e nello scambio le nostre dita si intrecciano disgiungendosi subito. Non
so, mi ricordano l’alba.
Le sue sopracciglia sono aggrottate, quando mi guarda. «Non te l’avevo chiesto.»
«No. Pensavo ti piacesse il vino.»
«Sì, certo. È che-» beve un po’, poi si siede sull’erba.
«Non vuoi andare dagli altri?»
Mi guarda, vedere il suo viso da qui, con questa luce fiammeggiante, è molto
rilassante. La sua presenza lo è. «Nah. Stare troppo
tra le persone mi rende nervoso.» dice «Ma se vuoi, puoi andare.»
«Nah» e mi siedo di fianco a lui.
Ora che mi sono seduto, non so se riuscirò ad alzarmi. La stanchezza accumulata
durante tutta questa giornata si è impossessata delle mie membra e le ha
trasformate in pietra.
Stiamo così, a sorseggiare vino e guardare il rosso prevalere sulle altre
sfumature in cielo, senza parlare.
Qualche anno fa il prof. di scienze ci aveva spiegato qualcosa sulla causa dei
diversi colori del cielo, ma, davvero, ogni volta che provo a ricordarmelo mi
si apre un buco nero nel cervello che ingurgita tutti i concetti vicini, che
avrebbero potuto aiutarmi. E dimentico anche quelli.
Siamo abbastanza vicini alla periferia della città, anche se questa zona è
relativamente tranquilla, mi domando se la notte da qui si vedano le stelle… Lo
scoprirò oggi? Su questo prato, con una persona che senza preavviso diventa per
me più importante ogni giorno che vivo. Ha lo sguardo assente, è bellissimo, a
volte lo guardo e, semplicemente, sorrido dentro; mi sento in dovere di
proteggerlo, di sapere che sta bene, dirgli cosa mi passa per la testa. Quelle
cose che provo quando voglio bene a qualcuno.
Ciò che trovo curioso, e che mi piace, delle stelle, è che sono sempre nel
“cielo” ma noi riusciamo a vederle solo di notte, perché è buio. Noi le vediamo
perché è buio. Più è buio più sono belle, si nutrono della notte, la
possiedono. Bruciano anche di giorno, invisibili. È curioso, perché siamo
abituati a pensare che la luce sia necessaria per vedere meglio qualcosa,
mentre la luce per essere vista meglio necessita di oscurità.
Sono lì, eppure non le vedo. Chissà quante altre cose non riesco a vedere.
È curioso anche il fatto che incutano un senso di impotenza in noi, pur
sembrando così piccole e vicine tra loro; ma appunto, è questo che ci fa
sentire polvere… sono troppo grandi, troppo lontane, troppe, nell’Universo. Troppo,
così tanto che non riusciamo ad immaginarlo, polvere senza validi metri di
giudizio, esperienze limitate, capacità irraggiungibili.
Siamo solo uomini, cosa potremmo mai raggiungere? E le stelle, che potere
hanno?
Faccio una smorfia delusa quando prendo la bottiglia e la sento troppo leggera,
senza liquidi dentro che facciano alcun tipo di rumore lieve. La lascio distendersi
sul prato e mi appoggio sconsolato a Gerard, che è nella stessa posizione da
fin troppo tempo: o ha finito anche lui, o non è arrivato neanche a metà. Mi
sostengo sulla sua spalla per sollevarmi e noto a qualche centimetro dalla sua
coscia la bottiglia, adagiata tra i fili d’erba. Mi sfugge un lamento e Gerard
mi guarda con un punto interrogativo in faccia.
«Abbiamo finito il vino.» Sorride, probabilmente perché gli sono sembrato
patetico, e lo sento spostare il peso su un solo braccio per potermi
accarezzare i capelli e consolare.
«Non vorrai ubriacarti, Frankie.»
«È dal matrimonio di mia cugina che volevamo farlo…» Gli dico, senza sapere
come mi sia venuto in mente questo ricordo. «Pensi che riusciremo mai ad
alzarci da qui?»
«Perché, vuoi andare dagli altri?» Mi domanda, quasi preoccupato.
Da qui si sente la musica che stanno suonando, lontana, e sopra di noi il cielo
sembra aver finalmente deciso di puntare a colori tendenti al notturno.
Nego con la testa, e ridacchia come se gli avessi fatto il solletico. In
effetti, forse i miei movimenti gli hanno fatto un po’ di solletico.
«Sei proprio carino, Frankie.» Ah, se prima era il turno del cielo di essere
arrossato, ora è il mio. Non ho mai saputo reagire dignitosamente ai
complimenti. «Non fraintendere, sei carino nel senso più innocuo del termine;
fai venire voglia di abbracciarti.» Una cosa che mi piace, e mi diverte, di
Gerard è che di tanto in tanto sembra flirtare con chi parla, inconsapevole.
Stai attento, Gee, qualcuno potrebbe prenderti sul
serio.
Sorrido contro al suo braccio e gli dico: «Allora anche tu sei carino. È bello
abbracciarti.» In realtà, oltre ad essere carino è anche molto bello, ai miei
occhi. Gli abbraccio la vita per provare la frase che gli ho appena detto, le
mie mani si stringono sul suo fianco.
Restiamo praticamente fermi per qualche minuto, a contemplare l’ambiente in cui
siamo e, nel mio caso, a venire avvolti dal suo profumo.
Ho la bocca un po’ asciutta, e con tracce del sapore del vino. Mi manca il
vino.
«Anche se,» inizio, e lo sento uscire da qualsiasi fosse il suo mondo e girarsi
un po’ verso di me «mi manca il vino.»
«Lo sai che nessuno di noi due si alzerà per ancora molto tempo.» Risponde lui,
sfoggiando razionalità inconsueta.
Ha ragione, però. «Sì, lo so.»
Torniamo nel nostro stato contemplativo.
Divinità, se esisti, chiunque tu sia, fammi un piccolo favore. Lo so che non lavori
così di solito, sei abituata a ricevere richieste di chi non dubita la tua
esistenza; fai un’eccezione, per piacere, riesci a fare in modo ch- vedo una figura stagliarsi contro il tramonto, un uomo
nero diventare sempre più grande e… nero.
Sembra stia arrancando, mi dimentico della mia strana preghiera e fisso l’uomo
arrancare verso me e Gerard.
«Ehi» Sussultiamo entrambi.
Bob.
«Siete sicuri di non essere fidanzati?» Mi stacco subito dalla spalla di
Gerard, su cui in effetti ero spalmato. Che sciocchezze, che fantasticherie.
Mentre la mia testa inizia ad abituarsi al cambio di posizione, Gerard
risponde: «Certo Bob.»
Bob fa qualche altro passo verso di noi, e vedo due bottiglie di birra tra le
sue dita, due bottiglie grandi.
Ce le porge, le prendiamo. «Come volete.» Poi si inchina di fronte alle nostre
facce confuse e va via, così.
Fisso la bottiglia, c’è troppa poca luce per distinguere la marca, ma non mi
interessa; anche se avrei preferito del vino avvicino il collo alle labbra, la
bottiglia sembra ancora piena ma già senza tappo. Bene.
Ora sono abbastanza ubriaco, e anche lui. Anche se si
ricordasse che suono la chitarra, non potrei suonare perché sicuramente
sbaglierei tre note su cinque. O peggio, farei cadere la chitarra. A pensarci
bene, avrei potuto fermarmi prima e in caso di emergenza fingermi ubriaco.
Tutte le idee migliori mi vengono troppo tardi, accidenti.
Tanto, ora non posso di certo tornare indietro.
Mi stendo sul prato, mentre Gerard al contrario si alza.
«Devo fare la pipì.» Asserisce.
«Mh.» Mi giro, e lo vedo guardarsi intorno alla
ricerca dell’albero più vicino e buio da poter marcare. Si avvicina poco
convinto ad uno, probabilmente a caso.
«Stai attento a non farti staccare il pene da nessuno gnomo della foresta.»
Sembra trasalire, e gira la testa verso di me «Di-Dici che ci sono gli gnomi?»
Chiudo gli occhi e annuisco, forse anch’io devo fare la pipì.
In qualche modo mi alzo, e vado verso l’albero di Gerard.
«Che ci fai ancora qui?» Noto che ha qualcosa tra le mani. Mh,
probabilmente è il suo pene.
«Ho paura…» fissa il vuoto, preoccupato. Poi sussurra: «Degli gnomi.»
Oh. Be’. Lo capisco.
«Anch’io, Gee.» Anche se… ma certo! «Gerard, gli
gnomi ora si sono tutti nascosti, c’è troppo casino qui questa sera. Se
avessero voluto, ci avrebbero assaliti tutti molto prima.» Convinto del mio
ragionamento, mi calo i pantaloni per svuotarmi la vescica.
Gerard sorride. E facciamo la pipì a un metro di distanza uno dall’altro, nel
buio di un boschetto, con una canzone post-hardcore amatoriale in sottofondo.
«Ora dovremmo lavarci le mani.»
Ci sistemiamo e, in silenzio, ci incamminiamo verso i parenti più anziani, che
giocano a carte e bevono vino.
Non vedo più Gerard, dov’è? Satana l’ha reclamato? Brucia chiese per attirare
la sua att- ah, è lì, ha solo girato a destra. Boh,
lo seguo.
Si ferma davanti ad una fontanella sotto qualche albero. Ah. E chi l’aveva
vista?
Gerard.
Grazie, vocina interiore, a volte sottovaluto la tua importanza…
Bella mossa, comunque, abbiamo risparmiato tempo e interazioni sociali. Mi
trovo dinanzi ad un grande amico.
Gerard mi guarda confuso, dovrei smetterla di pensare così tanto in compagnia.
Ci laviamo le mani e ci asciughiamo sulle nostre eleganti camicie, che tanto i
nostri abiti saranno già pieni di erba e terra quindi chissenefrega, giusto?
Ci guardiamo pieni di aspettative, cioè, aspettando – che qualcuno dica o
faccia qualcosa, perché ormai abbiamo finito le missioni da compiere e non
essendo personaggi di videogiochi non abbiamo la possibilità di cliccare pulsanti
e leggere dove andare o chi uccidere. Probabilmente non dovremmo uccidere
nessuno in alcun caso, ma non si sa mai.
Almeno, io non lo so.
Continuiamo a guardarci, e ad un certo punto annuiamo lentamente, forse
l’alcool sta iniziando a friggerci. O ci ha già fritti. Ma ancora una volta,
chissenefrega.
Mi giro e penso di vedere tutti gli altri seduti o accasciati vicini al piccolo
palco, gli strumenti abbandonati e una playlist per
sostituirli; ora sento una canzone di Bowie, o, boh, qualcosa che parla di alieni.
Mi siedo per terra cadendo sul prato, e Gerard mi cade accanto, riuscendo a
conservare più grazia e fluidità di me. Gli altri sono un po’ lontani, gli
chiedo se vuole avvicinarsi ma mi risponde che essere troppo sociale gli
provoca uno strano malessere. Meglio così, non penso di avere la forza per
alzarmi da qui nei prossimi minuti.
Lo guardo. Ormai è buio e della sua figura rimane il profilo, scuro, come gli
skyline delle città nei puzzle. Uno skyline regolare, con due bagliori in cima
che mi fissano vacui.
Devo dire che io e Gerard dovremo essere degli sfigati pazzeschi. Voglio dire,
siamo entrambi piuttosto carini ma non abbiamo neanche l’ombra di una ragazza o
qualcosa del genere – oddio, io l’ombra di una ragazza l’avrei, giusto
il suo ricordo, ecco.
Quella traditrice…
Non perché mi avesse tradito come tradizionalmente si fa tra fidanzati, ma… oh,
be’, sono troppo stanco per fare questi discorsi, mi appoggerò a Gerard. E, hm,
si sta molto meglio ad occhi chiusi. Se non stiamo attenti potremmo rischiare
di addormentarci, l’ho detto io che quest’erba è innaturalmente morbida.
«Frank,» mi arriva un sussurro da destra, e faccio un verso «parliamo,
altrimenti potrei addormentarmi.» Oh, ottima idea. Mi appoggio più comodamente
alla sua spalla, odoriamo un po’ di vino entrambi.
Finalmente. Posso chiedergli quello che mi sono sempre chiesto.
«Hai mai bruciato una c-» No Frank, aspetta, parti da una domanda più
generale. «qualcosa?»
«Ho mai baciato cosa?» mormora.
«No, hai mai bruciato qualcosa?»
Dopo averci riflettuto, dice: «Non credo… bruciato qualcosa tipo cosa?»
«Edifici... tipo, scuole, fienili, chiese…»
«Non mi ricordo, ma sono abbastanza sicuro di no. Una volta, però, era la
vigilia di Natale e stavo andando in sala a mangiare i biscotti per Babbo
Natale – i miei genitori mi avevano chiesto di farlo… perché Mik credeva ancora nella sua esistenza – e il presepe stava
bruciando, allora ho, hm, svegliato i miei genitori e abbiamo spento tutto. Mikey ha continuato a dormire e quel Natale ha scoperto la
verità su Babbo Natale.» Interrompe il lento discorso, sta iniziando a
biascicare. «Ma ci fece poco caso, era felice perché ho salvato la famiglia.»
Uno sgradevole senso di nausea mi inghiotte gli organi interni, Gerard ha
rischiato di morire. Grazie vocina utile, davvero. Non l’avrei mai
conosciuto, sarei stato da solo al matrimonio di mia cugina… e ora Alice non
avrebbe appena finito di festeggiare il proprio.
«Anch’io sono felice che voi siate vivi.»
A questo punto conversiamo in sussurri, le nostre labbra sono pigre e non c’è
bisogno di parlare ad alta voce.
«Quindi non hai mai bruciato chiese?»
Mi guarda.
«No.» Dovrei sentirmi sollevato? Deluso?
Avevo ragione, ma avevo anche torto. Fantastico.
Mi aggrappo a Gerard, alla sua nuca, le nostre labbra finiscono per aderire e
il suo braccio mi circonda la schiena.
Wow, non ha senso.
Gli sto schiacciando il petto, e non stiamo facendo molto. Stiamo qui, ci
muoviamo ogni tanto, ma come prima le labbra sono pigre e non si aprono
eccessivamente. Però mi sento così bene…
Il mio orecchio si riempie d’erba e mi ritrovo con due mani appoggiate alle
spalle, io e Gerard continuiamo il bacio, lento, e forse stiamo baciando anche
un po’ d’erba. È tutto così delicato, surreale, che sembra un ricordo lontano,
ma sempre più vivido. Come se fossimo anime gemelle che tentano di
ricongiungersi in ogni vita, o come se fossimo due ragazzi confusi troppo
brilli che si baciano.
Piano piano ci fermiamo, e rimaniamo incastrati sul prato. Ho un braccio
attorno al suo collo, e la mano tiene lì la sua testa. Con la bocca gli sfioro
la guancia, e rimaniamo così.
Mente e corpo assenti, rimane solo un senso di nausea che spero non sia causato
dal vino. Non vorrei vomitargli addosso adesso.
Wow, chi l’avrebbe immaginato? Io no, neanche lui… e la dice lunga, visto che è
stata un po’ un’idea di entrambi. Strano, davvero, poco fa eravamo grandi
amiconi.
Mi arriva un respiro di vino e: «Perché dovrei baciare una chiesa?»
Poi, non lo so, ci addormentiamo.
«Gerard, Gerard!»
Mi sento oscillare, e la mia testa cade su qualcosa – morbido.
«Gerard!»
Non sto più oscillando, ma il nome di Gerard continuo a sentirlo.
Sento anche dei versi, sembrano di Gerard.
«Gerard, Frank, alzatevi dai.»
Apro gli occhi, e una luce mi investe per meno di un secondo «Porca troia.»
«Scusa» dice Bob, ridacchiando, poi la luce si sposta su Gerard e alzandomi sui
gomiti mi accorgo della torcia , di Bob, e di Mikey.
Gerard sta guardando il fratello, confuso.
Bob mi porge una mano, e mi alzo più o meno nello stesso momento in cui si alza
Gerard.
«Allora, ora siete una coppia?» inizia Bob, con fare cospiratorio. «Sai, di
solito gli amici non dormono così vicini.» Lo fisso in cagnesco, troppo
rincoglionito per articolare una frase.
Sono intorpidito. E – oh. Io e Gerard ci siamo baciati, prima. Sarà meglio
scriverlo, domani potrei non ricordarmelo. E non ha mai bruciato una chiesa,
scriverò anche quello.
«Hai un foglio?» Abbiamo iniziato a camminare verso ciò che rimane del piccolo
rave senza droghe.
Bob tira fuori una penna. «Ho solo questa.»
Mi rivolgo verso i fratelli Way: «Avete un foglio?»
Ottengo un paio di sopracciglia inarcate in risposta, e basta.
Prendo la penna e mi arrotolo la manica. Dopo aver scritto la tiro giù e spero
che Bob non abbia sbirciato.
Alcuni ci salutano e ricambiamo, poi torniamo a buttarci sul prato (provando a
non cadere su nessuno), solo che questa volta rimaniamo seduti. Bob e Mikey si siedono nello spazio dove siamo io e Gerard,
formando una specie di cerchio; vedo le persone intorno a noi ma non mi
interesso a ciò che fanno.
Mikey tira fuori, dal nulla – ve lo giuro, dal nulla
– un mazzo di carte, e con altrettante capacità illusionistiche Bob tira fuori
una bottiglia di – boh, alcool.
«Vi va di fare una partita?» Chiede Mikey,
distribuendo le carte.
«Ci avete svegliati per questo?» Chiede Gerard.
I due alzano le spalle, e Bob ci passa la bottiglia.
Percepisco la luce, e il caldo.
Ah, che sofferenza.
Piego il collo e mi sfuggono versi di dolore mescolati ad uno sbadiglio. Mi
stropiccio gli occhi, e quando li apro mi accorgo di essere in un parcheggio,
sul sedile di una macchina – uhm, della macchina di Gerard. Lui?
Continuo a sbadigliare e – cos-?
MICEY BARA A CAPTE,
trovo scritto sulla mia mano sinistra. È la mia scrittura, l’ho scritto io.
L’interpretazione più verosimile credo che sia “Mikey
bara a carte”, anche se non so come mi possa essere utile saperlo.
Conoscendomi, e a giudicare dalla consistenza strana della mia testa, direi che
ieri mi sono leggermente ubriacato e ho deciso di scrivermi le cose più
importanti perché, conoscendomi, le avrei dimenticate.
Infatti, di ieri ricordo che – hm. Mikey si è
sposato, abbiamo mangiato e io e Gerard abbiamo parlato sul prato, e… i suoi
amici sono simpatici e ascoltano bella musica, e andrò ad un concerto con loro
e Ray. E Bob, Bob e io diventeremo grandi amici – no.
Io e Bob lo siamo già, di sicuro. Ha la mia simpatia da quando ha fatto esplodere
una bomba immaginaria.
La macchina dice che è mattina, e anche il Sole. La mia pancia pure, reclama la
colazione. Gerard sta dormendo, ancora; non dà segni di voler aprire gli occhi
e affrontare il mondo. È un po’ buffo,
accartocciato come un gattino e con la bocca socchiusa. Certo, non è buffo
quanto sarebbe se avesse gli occhiali.
Anche se è la sua macchina sono sicuro che mi autorizzerebbe a guidarla, e
anche se ho un po’ di mal di testa per ieri, sono in grado di guidare la sua
macchina. Poi ho fame, e non voglio girare qui a piedi come un cretino –
lasciandolo in macchina per giunta – per cercare del cibo. Quindi ho deciso,
guido io e lo lascio dormire. Non so se accendere lo stereo, non mi ricordo che
CD e a che volume stessimo ascoltando ieri, ma farei meglio a non rischiare.
Rimane l’invitante idea di accendere e alzare il volume per svegliarlo da
veri amici. Frank interiore, non ti credevo sadico.
Prima di partire dovrei mettere la cintura anche a lui, sì. Mi giro e
guardandolo meglio è anche più buffo di quanto credessi. Ha la schiena piegata
da una parte e non sembra essere proprio in equilibrio, sicuramente gli farà
male il collo – come a me – in effetti devo ancora capire perché abbiamo
dormito qui. Probabilmente eravamo troppo stanchi per tornare a casa. Dovrò
informarmi. Ma prima metto la cintura a Gerard (e mangio).
Esco dalla macchina, è fresco qui fuori, bene. Apro la portiera più
lontana da lui poi mi siedo e gli avvolgo un fianco con il braccio, e devo dire
che trovo il suo calore confortevole, poi in qualche modo, molto lentamente, lo
alzo un po’ e mi stacco. La sua testa penzola, in pratica, allora la prendo
gentilmente e la appoggio al finestrino. È bellissimo. Frank, perché ci
tieni a farmi notare la dolcezza con cui respira? Ho fame.
Metto in moto e esco dal parcheggio, prima di tutto, perché anche se non ho
idea di dove siamo sembra l’idea più ragionevole. Proverò a guidare piano per
non fargli sbattere la testa contro al vetro, i movimenti bruschi sono da
evitare, potrebbe farsi male. Il comune dovrebbe riparare tutti quei buchi.
Stupido Jersey.
Seguendo le frecce di alcuni
cartelli con nomi familiari, credo di essere arrivato alla periferia della
città, riconosco alcuni edifici – spero.
Ecco, tra poche decine di metri dovrebbe iniziare la zona popolata da
Starbucks.
Non ne vedo. Okay, chissenefrega, ho visto un bar che non sembra abbandonato.
Siamo in uno di quei posti vuoti, anche in città, siamo in una zona più o meno
abitata ma non malfamata. Solo… tranquilla, piatta.
Davanti al bar ci sono un po’ di parcheggi liberi, perfetto.
Gerard continua a dormire.
Mi annoio.
Scendo dalla macchina, ma questa volta apro la portiera dalla sua parte e, per
questo, gli impedisco di cadere tenendolo con un braccio.
Lo scuoto. «Gee.»
Niente.
«Gee.» un altro scossone.
Un sospiro.
«Gee.» Lo scuoto. «Gerard.»
Un grugnito.
Bene, è praticamente sveglio.
«Gerard, vuoi fare colazione?»
Un altro grugnito. «Caffè?» Mi dice con la voce di un corvo che presagisce
morte, ma speranzoso.
«Sì, se vuoi.»
Apre un occhio, geme. (Un occhio molto bello.)
«Non pensavo di essere così brutto», scherzo.
«No è che -» si sgranchisce il collo, che emette rumori tipo zombie che escono
da bare con un po’ di difficoltà. «mi fa male il collo.»
«Anche a me. Hai dormito che sembravi un manichino rotto dopo un crash test.»
Ora ha tutti e due gli occhi aperti.
Non mi ricordavo che vederlo sorridere fosse tanto contagioso.
Si guarda il petto e asserisce: «Mi hai messo la cintura.»
«Non volevo che morissi.»
E tra lievi risate, io che gli consegno le chiavi di sua proprietà, mi sembra
anche di aver vissuto un piccolo déjà-vu.
Entriamo e gli dico di sedersi, poi ordino due caffè e due muffin. Uno al
cioccolato e uno ai mirtilli, almeno uno gli andrà bene. Porto i muffin al
tavolo. «Prendi quello che vuoi.» Allunga una mano, con la vitalità di un robot
prossimo alla rottamazione. Meglio dargli il suo primo caffè quotidiano.
Porto anche i caffè al nostro tavolino, e Gerard ha in mano il muffin al
cioccolato. Ma quello ai mirtilli ha qualcosa che prima non aveva; o meglio, non
ha qualcosa che prima aveva – un pezzo di se stesso, per intenderci. Qualcuno
l’ha morso.
Guardo Gerard. Mi ha deluso. Mi ha tradito. Come tutti, del resto. Frank,
non diventare melodrammatico, per favore. «Non credevo fossi quel
tipo di persona.»
«Quale?» Sputacchia involontariamente, e il suo viso è per metà coperto dalla
mano e dal muffin, sembra una strana versione umana del Gatto con gli Stivali,
lo sguardo è molto simile.
«Il tipo stronzo insensibile.» Mi siedo il più teatralmente possibile, poi
afferro il mio muffin mutilato e mi arrotolo le maniche senza accorgermene. «Perché
l’hai morso?»
«Credevo fossero gocce di cioccolato. È stata colpa sua, mi ha mentito.»
La situazione è più grave di quanto mi aspettassi. «Bevi il tuo caffè, per
tutti i cavoli.» Glielo avvicino anche.
Afferro il mio bicchiere, e con l’altra mano mordicchio il mio dolcetto
mutilato. Non riesco a capire la regola che vieta di appoggiare i gomiti sul
tavolo, sarei morto, perderei l’equilibrio e non riuscirei a fare colazione se
non lo facessi. Gerard intanto si è buttato sul caffè come Jack Sparrow berrebbe le ultime gocce di rum rimaste. Stiamo
ancora indossando i nostri vestiti “eleganti”, ma più che altro sembriamo due
avvocati che hanno passato la notte prima di un processo a fare sesso al parco,
o che hanno deciso di rotolare giù da qualche collina; siamo sporchi e
spettinati, che proviamo a ritrovare il senso delle nostre azioni.
Ho anche mal di testa, ma il torcicollo non me lo fa notare. E ora che il mal
di testa sta passando, temo che il torcicollo mi colpirà con ancora meno
pietà.
«Sei sporco lì.» Mi dice.
«Certo che sono sporco, ieri abbiamo passato almeno metà del nostro tempo a
cadere sul prato.» Gli rispondo, forse troppo irritato per qualcuno che sta
mangiando un muffin.
«No. Dico,» continua a tenere il bicchiere con una mano, con l’altra mi indica
il braccio «lì. È nero. Anche sulla mano.»
La mia mano ha la scritta sulle carte e Mikey; il
braccio, uhm. Ci sono delle scritte anche lì. Lo alzo.
GERAD NON HA MAI BACIATO CHIESE
E T HA BRUCIATO
Cosa?
Deve aver notato la mia confusione, mi sta guardando interrogativo.
«Non lo so, c’è scritto qualcosa.» Continuo a fissare quelle parole, tremolanti
e sconnesse, che sicuramente ho scritto io.
Forse, forse… No. Dovrebbe essere “Gerard non ha mai bruciato chiese e
ti ha baciato”? No.
Ho svelato il mistero senza ricordarmene. E…
Io e Gerard siamo amici, io non… e neanche lui… Io, ecco…
Si alza.
No, no, no, no… No, per favore, no.
Mi alzo anch’io. «Vado un attimo in bagno.»
Quasi corro via, a destra, mi accorgo che qui non c’è nessuna porta.
Dannazione. Mi giro, e ripassando davanti al nostro tavolo sorrido a Gerard per
dimostrare che ho la mia vita sotto controllo. E finalmente vedo la porta con
due persone stilizzate appiccicate sopra.
Entro, e chiudo a chiave.
Porca troia.
Riguardo il braccio. Il messaggio è evidente: ci siamo baciati, e lui non è uno
psicopatico (probabilmente). Perché cazzo non ricordo quasi niente, fottuto
alcool. Io… merda.
Pensa, Frank. Ehi, quello è il tuo lavoro, non posso fare tutto da solo!
Giuro che non sono schizofrenico. Sbatto la testa contro al muro. Mi lavo le
mani e le passo sul viso.
Non laverò via la scritta, la farò vedere a Gerard; solo, non adesso…
Copro il braccio, abbottono il polsino.
Se avessi del cloroformio potrei fargli perdere conoscenza e trovare il modo di
fargli credere di avermi immaginato e basta. Potrei scomparire dalla sua vita.
Sarebbe tutto molto più semplice. Se mia cugina si fosse dimenticata di
invitarmi…
Mi sento così caldo, guardandomi allo specchio noto il rossore sulle guance.
Perfetto, adesso devo anche sperare di tornare normale prima di uscire, o
potrebbe pensare che sia venuto qui a farmi una sega o cos’altro…
Sono passati un po’ di minuti, e forse sono riuscito a finire l’imbarazzo.
Esco.
Gerard mi guarda, un sorriso beffardo sotto al bicchiere di caffè.
«Cosa c’era scritto?» Mi chiede.
Devo dissimulare. Assolutamente.
«Hm? Non mi ricordo, niente di importante.» Lascio il braccio sul tavolo, per
far vedere che non ho bisogno di nascondere niente. «Hai finito il
caffè? Io penso che finirò il mio in macchina.» Mi viene naturale porgergli una
mano per aiutarlo ad alzarsi, ma evito perché è meglio così. Prendo il muffin e
mi butto ciò che rimane in bocca, poi butto l’involucro – qualsiasi sia il suo
nome vero – e saluto il barista con un cenno della mano.
Gerard che guida riesce sempre
ad essere bellissimo, anche con un abito sgualcito, i capelli storti,
l’espressione di chi ha bisogno di un letto su cui riposare per qualche decade,
scintille nello sguardo da caffeinomane. Scintille
che, chissà come, mi riscaldano come se fossero realmente in grado di accendere
qualcosa… Mi sento bene guardandolo.
Dopo dovrò dirgli del braccio, del bacio, delle chiese. Okay, forse delle
chiese no.
Sono stato uno stupido avventato a credere di doverlo drogare e sperare mi
dimenticasse. Sul serio. E odio il leggero senso di colpa che inizia a
sgranocchiarmi l’intestino.
Come a causa di una strana sorta di empatia, il suo sorriso è triste.
Che schifo, e quell’ipocrita del Sole entra anche dal finestrino come se niente
fosse, tutto allegro e sfavillante. Gerard è triste e le nuvole non vengono
neanche qui a preoccuparsi. Sono indignato.
Forse dovrei tenergli la mano, è quello che si fa quando qualcuno è turbato,
no? Non posso abbracciarlo, e non ho voglia di parlare. Ma è un gesto da amici?
Forse, ma… Mi tratterrò, alla fine manca poco a casa mia.
La macchina rallenta, e si
ferma più o meno all’interno delle linee del parcheggio.
Devo dirglielo.
Esco dalla macchina, mentre lui è ancora dentro e mi fissa. Non ci siamo ancora
detti niente, ma penso di essere stato troppo assorto per accorgermi del
silenzio.
Lo invito a venire qui, sul marciapiede, con lo sguardo.
Appena mi raggiunge, rispondo ai suoi occhi confusi con: «Grazie, mi sono
divertito in- hm, nelle ultime ore. Salutami gli altri quando li vedi,
soprattutto Mikey e Alicia.»
Annuisce, e fa un sorriso un po’ forzato. Si comporta in modo strano. Mi dice: «Grazie
anche a te Frankie. Per la colazione e, be’, essere venuto.» Si sta girando,
lento.
Va bene. È il momento.
«Io, Gee- Ho trovato una cosa.» mi slaccio il bottone
e tiro su la manica, poi gli porgo il braccio. Lui torna a guardarmi e lo
prende per osservarlo, e se non fosse per gli impulsi elettrici che per qualche
motivo arrivano ogni volta che mi sfiora, scambierei le sue dita per la brezza
estiva.
«In pratica, c’è scritto che non hai mai bruciato chiese. Ecco, io… è una lunga
storia, non è importante che te la racconti. E sotto c’è scritto che, be’, noi-»
Ora guarda me. «Ci siamo baciati, lo so.»
Lo sa.
Come, lo sa? Cosa? Lo sapeva?
Sarà difficile non balbettare «I-io, Gee, in che
s-senso?» Appunto.
«C’ero anch’io, sai? Sarebbe strano se non lo sapessi.» Ride, nervoso. «Tu non
lo sapevi?»
Come risposta, gli bastano i miei occhi terrorizzati, spalancati.
Li spalanca anche lui. «Non lo ricordavi?»
Abbasso la testa. Che vergogna, sono ciò che rimane del legame tra scimmia e
uomo. «No… Credo di aver bevuto troppo e in quei momenti è come se sognassi e,
be’, di solito la mattina non ricordo i sogni. Però lo sapevo, per questo l’ho
scritto, forse non volevo dimenticare. Vedi? Ho scritto anche che Mikey bara a carte, sono previdente. Ogni tanto.»
«Tutti sanno che Mikey bara a carte.» Sorride. Poi
strizza gli occhi. E singhiozza.
E il mondo mi travolge, non ero pronto. Sta piangendo, ma… non sento odore di
cipolle, quindi è triste, no?
«Gee, cosa fai?» Mi avvicino, devo proteggerlo,
giusto? Da se stesso, dalla tristezza.
«Sono- sono solo stupido. Avrei dovuto saperlo. Lo dicono anche i film, che
baciare qualcuno quando si è dubbiamente coscienti è una pessima idea, un’idea
considerevolmente idiota. È stato un sogno, hai detto, praticamente. Scusa, non
dovrei-» si alza un po’, si asciuga le guance con le mani e se le passa tra i
capelli, per sciogliere qualche nodo. Non è un pianto disperato, al contrario,
piuttosto contenuto, sebbene nervoso. Rimango immobile, sono scosso, sono
travolto, se mi muovessi cadrei in mille pezzi e finirei nel tombino, me lo
sento. «Sono stanco, Frank. Ho bevuto poco caffè- Devo solo dormire, dimentica
tutto.» Conclude così, con un sorriso più amaro del cacao, mi bacia una guancia
e sale in macchina, vola via.
Cos’è successo?
Non lo so. Davvero, non lo so. A volte la vita non ce la fa a lasciarti in pace
per ventiquattro ore di seguito.
Fin.
EEEEEEEEEEhi. Eccomi.
Come al solito, non ho idea del perché abbia scritto ciò che ho scritto. Sono
loro che decidono cosa fare, alla fine; neanch’io so cosa succederà, non
credevo che Gerard fosse tanto emotivo.
Non è la fine, lo sembra a causa di un impeto francese.
Spero che abbiate
commenti da riferirmi, io non ho altro da dire… Sto ancora pensando che mettere
dei titoli ai vari capitoli potrebbe rivelarsi una decisione sensata. Però la
storia potrebbe finire in qualsiasi momento, anche adesso… Devo rifletterci
ancora molto.
Goodbye.
xoxo