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Autore: KyraPottered22years    03/07/2016    2 recensioni
27th Court Road, Edimburgo, 1996.
E' proprio qui che tutto ha inizio, è proprio in un freddo giorno d'inverno che Amelia Helbinger, una bambina timida e codarda, trova un passaggio segreto che la conduce in un mondo completamente diverso da quello in cui abita; un mondo popolato da Æsir e non da esseri umani, un mondo dove magia e creature con capacità eccezionali sono del tutto normali.
Sembra un sogno, tutto sembra così irreale che perfino una bambina piena di fantasia come Amelia stenta a crederci. Ma come potrebbe negare a sé stessa l'esistenza di Loki, il suo amico dagli straordinari poteri magici, anche se sua madre e il suo psichiatra lo considerano "immaginario"?
Come può essere frutto della sua immaginazione se Amelia farà ritorno in quel bellissimo mondo altre due volte?
E come ci si potrebbe sentire quando una verità così irreale, che è stata depistata dalla vita di una ragazzina per tutta la sua adolescenza, diventasse una realtà così raccapricciante che metterebbe a rischio l'intero pianeta Terra?
Ragione o follia?
Verità o menzogna?
Odio o amore?
[Pre-Thor] [TheAvengers]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Wahnsinn

                                                                                  

“I ricordi battono dentro di me come un secondo cuore.”
                             - John Banville






L’istinto le portò le braccia a proteggersi la testa al momento dell’impatto contro il pavimento. Si voltò verso lo specchio e si alzò in piedi. «Riportami indietro! NO! NO!» Prese a pugni il suo riflesso con tutta la forza che aveva nelle braccia, fino a quando il vetro non si crepò e si spezzò in mille pezzi.

Sangue colava dalle sue ferite alla moquette di quella sala abbandonata del museo.

Doveva correre. Doveva andare a casa e provare a ritornare dal dipinto, non aveva altra scelta. Doveva sapere di più. Doveva salvarli.

Corse via, verso l’uscita, incurante di tutti gli sguardi preoccupati rivolti verso la camicia della divisa piena di macchie scarlatte e dei richiami degli addetti alla sicurezza.

Non prese alcun mezzo di trasporto pubblico, continuò a correre fino a casa, rischiando più volte di essere investita, mentre i battiti cardiaci aumentavano insieme ai suoi pensieri e alle sue preoccupazioni.

La sua testa era affollata, ma ogni cosa si ricollegava a una singola domanda: “Perché lo ha fatto?” Non si sapeva spiegare il perché. Aveva notato giorni prima come fosse cambiato, ci aveva dato importanza fino a quando lui stesso si era seccato dei suoi tentativi di capire cosa fosse andato storto durante il suo periodo di assenza.

Fece un volo di circa due metri quando attraversò senza guardare, investendo una bicicletta. Altre ferite, l’asfalto le aveva sbucciato via la pelle, altro sangue. Ma non aveva il tempo di sentire dolore, o di scusarsi con il ciclista.


Non c’era tempo da perdere.

Arrivò davanti alla porta di casa, ci vollero più secondi del dovuto per aprire la porta, la mano insanguinata e piena di frammenti di vetri era così tremante che fu un miracolo quando la chiave entrò nella serratura.

Chiuse la porta con un calcio, provocando un colpo così potente da far tremare i muri dell’ingresso. Dalla cucina arrivò la voce spaventata della madre, ma Amelia era già al piano di sopra.

Amaya salì le scale in fretta con un coltello da cucina ben affilato in mano. Trovò la figlia in ginocchio, con il quadro, quel maledetto quadro, a terra sotto di lei.

Il cuore da madre le si strinse in una morsa soffocante quando vide tutto quel sangue.

«AMELIA!» Urlò Amaya, ma quella non le prestava attenzione. Agitava il quadro, imprecava e poggiava le mani sulla tela, sporcando anche quella di sangue ancora fresco. Buttò il coltello a terra e prese la figlia dalle spalle, la spinse via con violenza e gettò il quadro giù dalle scale.

«NO!» Urlò Amelia con tutto il fiato presente nei suoi polmoni. Si precipitò alla ringhiera e con terrore constatò che il quadro si era spezzato in tre parti al momento dell’impatto, la tela colorata che raffigurava il bel paesaggio era strappata in vari punti.

«Cosa diamine sta succedendo?!» Non si era nemmeno accorta che suo padre era arrivato in casa dopo il turno di lavoro e aveva salito le scale, affiancando la moglie in preda al panico, spaventata fino al midollo delle ossa.

Amelia si voltò verso di lei e guardò la madre con gli occhi sgranati, tremanti e lucidi.

Gli occhi di una folle.

«Che cosa hai fatto?!» Aveva gridato forte, mentre le ginocchia cedevano a terra. «Come farò a tornare adesso?» La schiena era scossa dai singhiozzi, mentre le schiene dei due coniugi erano scosse da brividi di freddo.

Dovevano fare qualcosa.

«Amelia, ma di che cosa stai parlando?»

«Loro hanno bisogno di me! Devo salvarli o moriranno tutti! Moriremo tutti! L’universo collasserà se lui prenderà il potere, lo vuoi capire?! DEVO TORNARE!» Si avventò verso il padre scuotendolo dalle braccia, urlando come una dannata.

Cercò di prenderla alle buone per calmarla, anche se ci volle tempo. Padre e figlia si accasciarono a terra, mentre quest’ultima ululava nel  pianto, con il nodo alla gola sempre più stretto. «Amaya, chiama subito un’ambulanza.»

Quel giorno si avverò la loro più grande paura.

 
*


Si svegliò pian piano. Prima le sue pupille saettarono dietro le palpebre, poi aprì lentamente gli occhi e infine si abituò alla luce forte delle lampade a neon dell’ospedale.

Sono in un ospedale?

Si tirò su a sedere, o almeno, ci provò. «Non ti sforzare.» Una voce femminile che conosceva bene parlò, invitandola a sdraiarsi di nuovo. Aprì nuovamente gli occhi.

«Agente Hill, cosa-» le faceva male la gola e la voce era limitata ad appena un filo. Sicuramente era a causa dell’urlo che aveva gettato via prima di svenire. «cosa ci fai qui?» Decise di parlare sussurrando, fare delle domande era inevitabile.

«Un’ottima domanda da porre più tardi.»

«Che… perché sono qui?» Non esitò a chiedere altro.

«Hai avuto un trauma cranico, dormi da due giorni a partire dalla distruzione della centrale.»

Il cuore di Amelia si scosse in un tumulto di angoscia. «Distruzione?»

«L’energia che ha rilasciato il Tesseract era troppo forte da poter essere controllata, così non abbiamo potuto fare niente.»

Restarono un attimo in silenzio.

Ricordava ogni minima cosa: la sensazione strana, l’allarme di evacuazione, la pistola carica sulle mani, la corsa, le orecchie che fischiavano e la voce.

Quella voce.

Rabbrividì.

Maria aspettò che Amelia si riprendesse del tutto prima di rispondere alla prima domanda. Perché la risposta l’avrebbe scossa, e molto.

«Trauma cranico?» Domandò con voce più alta, pian piano le corde vocali iniziavano a riscaldarsi. «Non ricordo di aver sbattuto la testa.»

Bene, è arrivato il momento di aprire l’argomento. Pensò l’agente prima di proferire parola. «Sono qui perché una persona molto, molto speciale mi ha fatto il tuo nome e data la situazione e la richiesta da questa persona, ho fatto più ricerche sulla tua vita, ricerche personali.» Fece una pausa.

Amelia si mise a sedere, incurante del dolore alle gambe e della flebo che le punzecchiava fastidiosamente il braccio. Il suo cuore batteva fortissimo e solo in quel momento si rese conto di aver saltato due dosi giornaliere di ansiolitici. «Chi è la persona che ti ha fatto il mio nome?»

«Dobbiamo procedere con calma, Helbinger.» Sperò che la ragazza l’ascoltasse e per miracolo si zittì. «Negli archivi ho scoperto che in passato hai avuto problemi psicologici e che tutt’ora continui a prendere degli antidepressivi.»

«Perché?» La interruppe Amelia, le dita che tremavano erano un chiaro segno di autocontrollo. «Cosa c’entra tutto questo con me e con cose che mi sono voluta lasciare alle spalle?» La sua voce divenne aggressiva per cercare di trattenere i singhiozzi.

«C’entra eccome. Lasciami finire.»

«No. Questa conversazione finisce qua, Agente Hill. Non ho intenzione-»

Maria sapeva che avrebbe dovuto fare in fretta e non rigirarci troppo intorno. «E’ stato crudele ciò che ti hanno costretto a fare: dimenticare qualcosa di vero.»

Amelia scoppiò.

Iniziò a tremare e a piangere rumorosamente (incurante di avere davanti il suo capo) quando l’agente Hill ebbe finito di parlare. «Co-?» Non riusciva nemmeno a parlare. Respirò affondo, recuperando un po’ di fiato.

Questo non è reale.

Sto sognando.

E’ tutto nella mia testa, non è reale. Non è reale. Non è reale. Non è reale.


Si portò le ginocchia al petto e iniziò a darsi colpi alla testa. «Svegliati!» Si ordinò.

«Helbinger!»

Ma continuava a darsi colpi alla testa, a piangere a dirotto e a singhiozzare.

«Amelia!» Cercò di afferrarla dalle braccia, di trattenerla, perché si stava facendo del male. In quel momento sembrava così diversa da quella che le era apparsa in quei mesi che l’aveva conosciuta. Il punto era che in quel momento Amelia appariva ciò che era davvero: una piccola donna, fragile e piena di demoni. Una vittima che si nascondeva dietro una maschera per evitare che gli altri potessero vedere ciò che era davvero. Debole.

Fuori dalla stanza due infermiere si fecero avanti per entrare e verificare la situazione.
«Non c’è problema, ci penso io.» Con un solo braccio prostrato davanti alle due, riuscì a bloccarle.

«E’ il nostro lavoro, noi-»

«Sta bene, ho detto che ci penso io.»

Le infermiere andarono via con un po’ di titubanza, ma lui si trovava lì perché Maria Hill gli aveva chiesto quel favore.

«La ragazza ci serve.»

E lui voleva fare di tutto per aiutare lo S.H.I.E.L.D.

Entrò nella stanza quando Maria si allontanò da lei con l’impreparazione e l’impotenza negli occhi.

Andò verso la ragazza e le afferrò i polsi senza troppe cerimonie, non era sua abitudine essere maleducato, ma quella situazione non gli lasciava altre opzioni.

«Hey, va tutto bene.» Non fu molto convincente, ma quando la vide in viso per la prima volta, qualcosa dentro di lui si sciolse e allentò la presa su quei piccoli polsi, senza lasciarli andare.

Amelia non poteva credere ai suoi occhi. Quella persona, lì davanti a lei, avrebbe potuto alimentare di più l’idea che tutto quello che stava succedendo non era altro che un sogno, eppure, in quegli occhi azzurri trovò tranquillità e verità.

«Sai chi sono?» Le domandò e, mentre lei si dibatteva sempre di meno nella sua stretta, gli rispose di sì annuendo. «E’ tutto apposto, Amelia. Va tutto bene.»

Maria sapeva che non sarebbe stato semplice.

Come ci si potrebbe sentire quando una verità così irreale, che è stata depistata dalla vita di una ragazzina per tutta la sua adolescenza, diventasse una realtà così raccapricciante che metterebbe a rischio l'intero pianeta Terra?

Passò un quarto d’ora di silenzio in cui Amelia si distese sul lettino e Steve Rogers affiancò Maria Hill.

Respirò, si ripeté una decina di volte il suo nome nella mente e si ordinò di tranquillizzarsi.

Indossò la sua maschera.

E’ reale. Tutto questo è reale. Si disse nella mente, rielaborando ogni ricordo che aveva oppresso e considerato falso, frutto della sua immaginazione da ragazzina.

«Chi è la persona che ha fatto il mio nome?»

Maria Hill pescò dalla sua borsa tracolla un tablet, con pochi tocchi avviò un video. Si avvicinò ad Amelia e gli diede l’apparecchio fra le mani.

«Lui.»

Era un breve filmato ambientato nel New Mexico, raffigurava un robot altissimo, violento, che avanzava pericolosamente verso un uomo alto, muscoloso, biondo, con un’armatura impossibile da non riconoscere.

«Thor.» Accarezzò lievemente lo schermo del tablet con i polpastrelli.

Steve sospirò.

Era davvero così, allora.

Quella ragazza conosceva il dio e il suo mondo.

«Lo conosci?» Chiese gentilmente Maria.

«Il… giorno del compleanno della regina Frigga diedero un ballo. Fu Thor a regalarmi l’abito più bello di tutti, cucito dalle mani dei nani donna più esperte, fatto di smeraldi e filamenti d’oro.» Quei ricordi vennero a galla dopo tanto, tanto tempo. Come se la sua memoria li avesse annullati e ripristinati solo in quel momento. Diede il tablet all’agente Hill e guardò, un’occhiata di sfuggita, Steve. «Eppure ciò che causò più stupore nella sala del trono non fu l’abito, ma il cavaliere.» Altre lacrime scivolavano dai suoi occhi. «Non sono mai stata piena di attenzioni nella mia vita, ma ad Asgard era diverso…»

«Allora non conosci solo Thor?» Chiese Steve piano, con la paura di svegliarla da quella piacevole trance di ricordi. Amelia lo guardò e continuò il suo racconto guardandolo negli occhi.

«Io e Thor non passavamo tanto tempo quanto lo passavo con…»

«Con?» Domandò Maria. Solo in quel momento Amelia notò che l’agente teneva qualcosa di estremamente piccolo nella mano, un piccolo bottoncino nero che produceva una lucina rossa.

Un registratore.

«E’ davvero tutto reale?»

«Riguarda quel video, guarda il notiziario, guarda Steve Rogers stesso.» Alzò gli occhi su di lui, che avanzava verso il lettino, verso di lei.

Con l’indice e il pollice si tolse via la flebo, si alzò in piedi e andò verso un tavolino dov’era adagiato il telecomando.

Accese la TV, ignorando ancora una volta il dolore alle gambe.

“[…] Non si sa ancora niente dell’uomo che ha attaccato oggi il laboratorio del Dottor Pyne. Egli era armato e seguito da più uomini. Forze dell’ordine e FBI cercano di indagare. Questo è un video che una telecamera di sorveglianza è riuscita a registrare, se qualcuno di voi dovesse vedere quest’uomo, contattare subito la polizia è obbligatorio.”

Sullo schermo apparve lo zoom di un video nitido, in bianco e nero. Uno zoom su una figura che Amelia riconobbe subito.

Alto, spalle larghe, un corpo tonico sotto lunghe casacche verdi e nere. Capelli neri, più lunghi e incolti di come li ricordava. Il volto era irriconoscibile per chiunque lo avesse visto solo una volta nella sua vita, ma lei… lei lo conosceva benissimo.

Fece cadere il telecomando a terra per portarsi le mani a coprirsi la bocca.


 
*


Amaya lasciò perdere il proprio lavoro su quel maglione di lana quando il telefono squillò una quarta volta.

Al quinto squillo, rispose: «Pronto?»

«Ciao, mamma.»

«Oh, Amelia!» Il suo cuore si riempì un po’ di gioia alla voce della figlia. «Come mai non hai chiamato più? Io e tuo padre abbiamo aspettato, ma-»

«Sono stata due giorni in ospedale.»

Il petto di Amaya si strinse in una morsa. «Che cosa?»

«La centrale dello S.H.I.E.L.D è collassata a causa di un incidente nel laboratorio principale.» Attraverso l’apparecchio, la voce della figlia era fredda e distaccata, arrabbiata.

«Cos’hai? Stai bene adesso? Vuoi venire qui per un po’ oppure… vengo io lì a New York?»

«Oh, non ti scomodare» disse con un’ironia sprezzante. «adesso sono più impegnata che mai con il mio lavoro. Sai perché?»

Amaya indugiò a rispondere. «Amelia, mi dici cos’hai? Sembri arrabbiata dalla voce.»

«Accendi la televisione e vai nel canale delle notizie.» Le ordinò ancor più rigida di prima.

La donna si avviò in soggiorno con il cellulare e stranamente trovò subito il telecomando, non guardavano mai la TV. La accese nel canale che aveva detto Amelia.

«Stanno parlando di un furto a Londra.»

«Aspetta giusto in minuto. Il servizio che mi interessa lo ripetono ogni mezz’ora. Strano che tu e papà non ne abbiate sentito parlare.»

In effetti era da un paio di giorni che il marito era silenzioso, con una permanente faccia triste stampata in viso.

Il cuore di Amaya perse un battito.

Intuì cosa stesse succedendo e sperò con tutta se stessa che non si trattasse di…

“[…] Non si sa ancora niente dell’uomo che ha attaccato oggi il laboratorio del Dottor Pyne. Egli era armato e seguito da più uomini. Forze dell’ordine e FBI cercano di indagare. Questo è un video che una telecamera di sorveglianza è riuscita a registrare, se qualcuno di voi dovesse vedere quest’uomo, contattare subito la polizia è obbligatorio.”


Sullo schermo della televisione comparve il video di un uomo che, con un curioso oggetto in mano, irrompeva all’interno di un edificio insieme ad altri uomini.

Capelli neri, alto, corporatura tonica.

Amaya ricordò tutto in un flash.

«Amore, cos’è questo disegno?»

«E’ il mio migliore amico.»

«Non è troppo grande per essere il tuo migliore amico?» Domandò, aggrottando le sopracciglia, curiosa e preoccupata.

«In effetti ha più di milletrentadue anni, ma ne dimostra molto di meno.»

Amaya non sapeva se ridere o preoccuparsi ancora di più. «E’ l’uomo che hai sognato l’altra sera?»

La bambina abbandonò i suoi colori a cera e guardò la madre con la delusione e la rabbia negli occhi. «Non l’ho sognato! Io sono stata ad Asgard! E Loki è reale!»


«Allora, mamma?» La chiamò, mentre il viso della donna si riempiva di lacrime. La giornalista continuava a dare informazioni sull’uomo, su ciò che aveva fatto alla base dello S.H.I.E.L.D. Improvvisamente l’immagine iniziò a sgranarsi e ad annebbiarsi, fino a sparire del tutto. Sullo schermo partì un video di pessima qualità.  Amelia cliccò il tasto invio e dall’altra parte del telefono riuscì a sentire che il filmato di Thor nel New Mexico era appena partito. «Sai chi è quell’altro uomo, mamma?»

«Sì.» Rispose piano.

«Non ho sentito.» E invece aveva sentito, e molto bene.

«SI’!» Urlò Amaya, sedendosi sul divano.

«Sai, l’unica cosa che mi dispiace sono tutti i soldi che avete speso per quell’ospedale, per farmi imbottigliare di psicofarmaci, per farmi credere di essere diventata pazza quando invece quelli che avevano bisogno di una mano da passare nella coscienza eravate proprio voi.»

Maria Hill stava seduta nel suo ufficio temporale di quell’Helicarrier, guardava Amelia parlare al telefono. Era così stupita che si era anche dimenticata della fretta che aveva di presentare la nuova agente a Nick Fury.

«Amelia, posso spiega-»

«So tutto.» Dal suo volto privo di emozioni fuoriuscì una lacrima. «Tutto.»

E con tutto, intendeva il passato che Amaya e il marito avevano cercato di nasconderle.

«Non è come sembra.»

«E invece sì. Lavoravi nello S.H.I.E.L.D. Eri a conoscenza dei segreti dell’universo, di entità extraterrestri, di Asgard e altri mondi. Quando hai scoperto che quella era tutta roba con cui non volevi avere niente a che fare hai abbandonato il lavoro. Hai messo su famiglia. E quando tua figlia ti pregava di crederle su qualcosa con cui tu stessa avevi avuto a che fare, l’hai spedita da psichiatri e psicologi, per poi scaricarla in un fottuto manicomio.»

«Amelia, ti prego, ascoltami,» la implorò in singhiozzi. «non è come sembra, c’è un motivo se ti ho protetta da quella verità. Tu non capisci, loro sono-»

«Non voglio stare a sentire la tua voce un secondo di più.» Quel pianto non la scuoteva nemmeno di un po’, anzi, la faceva arrabbiare ancor di più. La odiava ancor di più. «In ventiquattro anni non hai fatto altro che mentirmi. Adesso, negli anni a venire non voglio nemmeno osare a respirare la stessa aria che respiri tu.»

«A-amelia, p-per-favore!» Urlò.

«Continuerò il lavoro che tu da codarda hai lasciato perdere. Addio, mamma.» Staccò la chiamata, si infilò il cellulare in tasca e rimase a guardare il vuoto, con le mani poggiate ai fianchi.

«Agente Helbinger?» Alzò lo sguardo e si asciugò velocemente quelle lacrime che nemmeno si era accorta di aver pianto.

«Possiamo andare.»

«Ne sei sicura?»

No.

«Sì.»

«Psicologicamente, intendo.»

Sono confusa. Voglio urlare. Non so nemmeno se sto continuando a sognare.

«Sono pronta a incontrare gli Avengers.» E ad escogitare con loro un piano di cattura per il mio migliore amico che adesso è diventato un pazzo assassino seriale.







 
  
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