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Autore: marveladdicteed89    04/07/2016    1 recensioni
Frank Iero aprì la porta del bagno come al solito.
E trovò qualcosa che nessuno avrebbe mai dovuto trovare.
E lesse qualcosa che nessuno avrebbe mai dovuto leggere:
L'ultimo spasimo di un'anima, di una triste canzone senza niente da dire.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way | Coppie: Frank/Gerard
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Frank entrò in bagno, si chiuse la porta grigia e gialla alle spalle come al solito. Buttò un'occhiata alla carta igienica, poi si tirò giù la zip dei suoi skinny neri, con lo sguardo perso nel vuoto, pensando che ancora un'ora con quella professoressa di storia e sarebbe morto lì, sul banco, in mezzo alla classe.

Non pensava a niente.
La luce delle dieci di mattina filtrava dalle finestre pigramente.
Il bidello fischiettava nel corridoio.
Non c'era niente, niente che lasciasse presupporre una cosa del genere.

Non sapeva niente, niente.

Tirò di nuovo su la zip dopo che ebbe fatto, poi premette sul bottone dello sciacquone, sistemandosi il piercing sul labbro e passandosi le mani tra i capelli scuri, guardandosi allo specchio con aria critica.

Tutto era dannatamente normale, quando successe.
E questo lo sconvolse ancora di più.

Voltò la testa, per ritornare di nuovo sui suoi passi.
La porta era già davanti a lui, quando sul muro vide qualcosa che fece fermare il suo cuore in un gelido abbraccio sovrannaturale che stritolò il suo respiro fino a ridurlo a un suono troppo flebile per essere udito.

Se la ricordò per sempre.
Nello stesso istante in cui la vide, seppe che non l'avrebbe mai dimenticata.

Era una striscia rossa, lunga, terminava nel cestino marrone con il sacco di plastica azzurro appoggiato pigramente sul pavimento.

Annusò l'aria, un'istinto di cui si pentì immediatamente: un odore metallico gli penetrò violentemente le narici.

Lo avrebbe sentito per sempre, ogni giorno, ovunque.

Indietreggiò, terrorizzato.

Era sangue.

Rosso e lucido, morbosamente invitante. Scuro, disconnesso. Trascinato come tra le lacrime, una riga spessa e tremante. Occupava una buona parte del muro, e lui la fissava, senza osare avvicinarsi.

Sembrava abbastanza fresca.

Paura, nostalgia, rabbia, tristezza immensa. Tutto racchiuso in quel piccolo, terrificante, segno di una vita che finiva, alla deriva, stremata.

Non una retta, no: un segmento. Qualcosa che nasce, continua, malfermo e decadente, e poi muore, straziato.

Abbassò lo sguardo, con orrore, fino al cestino, dove finiva quell'esistenza scarlatta.

C'era un foglio, dentro.

Era tutto spiegazzato. Intriso di rosso.

Non sapeva cosa fare, rimase immobile, si sentiva come se non avesse più potuto tornare in classe, come se non avesse più potuto vivere ancora come prima.

Lo prese, la mano gli tremava come non mai.

È brutto da dire, ma non stava pensando assolutamente a niente. Guardava la carta e basta.

Un miscuglio di emozioni gli invase il cuore, straziandolo.

Si sedette, crollando sul pavimento con gli occhi spalancati, il cappuccio ancora calato sulla testa.

Aprì il foglio appallottolato.

Non avrebbe mai dimenticato.

Prese un respiro, mentre sentiva il suo petto lacerarsi in quel muto grido di carta, qualcosa che nessuno aveva mai ascoltato e che adesso era ricaduto pesantemente su di lui.

Al principio dei suoi polmoni, senti un dolore gelido quando inspirò aria.

Si sentì annegare.

E cominciò a leggere.


 

Non so come inizino le lettere deile persone suicide. Probabilmente con un addio ai propri amici, ai propri cari, alle persone che si amavano prima di prendere la decisione di morire.
Sì, ho pensato molto anche a questo. Se ve lo state chiedendo, ho immaginato mille e mille volte me, in una bara scura e lucida, vestito bene in un vestito stretto e nero, con gli occhi chiusi, mia madre che piange e forse anche i nonni, mio fratello Mikey con la testa bassa e gli occhiali che gli scivolano dal naso come al solito. Prima ripudiavo quelle fantasie, con orrore di me stesso, ma col tempo la morte è diventata morbosamente attraente nella sua pace. Da piccolo ricordo che dicevo sempre che non mi sarei mai suicidato, ricordo di avere una paura folle di questo gesto, ricordo che mi chiedevo come potesse essere possibile che una persona pensasse di porre fine alla sua stessa vita. Quando diventai grande compresi. Compresi quel dolorante vuoto, quella malinconia gelida e atrofizzante. Qualcosa che mia madre, Mikey e i nonni non capiranno mai, forse.

Solo loro, però, li vedo al mio funerale, veramente addolorati, se mai ne avrò uno.
Solo loro.
Perché non ho nessuno altro.
Ho resistito tanto, solamente per la mia famiglia, quattro persone, per me stesso no: ero già morto da tempo, il mio io ormai era sottoterra. Con dei fiori sopra la lapide magari. Bianchi.
Ho resistito tanto, perché se mi fossi arreso mi sarei odiato. Perché se mi fossi arreso, mi sarei mostrato veramente a me stesso in tutta la mia debolezza e meschinità. Perché se mi fossi arreso, avrei solamente ammesso la mia innata debolezza rispetto a tutti gli altri.

Ma adesso devo andare. Anzi, forse me ne sono già andato.

Dicevo, appunto, che non so affatto come iniziano le lettere dei suicidi. Be', non so nemmeno come procedono, di cosa parlano. Come finiscono. Mi sono sempre immaginato qualcosa di abbastanza triste e squallido, qualcosa che magari fa piangere, in quel caso sarebbe conforme con quello che sono diventato ora. Io vorrei solamente raccontare la mia storia. Non sono un poeta, né tantomeno so parlare bene. Nei temi facevo dannatamente schifo, come in ogni altra cosa che non fosse disegnare personaggi dei fumetti. Non sarà appassionante, sarà sconnessa, sarà breve perchè in effetti non ho avuto una vita lunga per mia stessa colpa. Non sarà bella e con una forma splendida, non sarà poetica e piena di metafore bellissime o di frasi filosofiche sul senso della vita. Ma adesso penso sia arrivato il momento di farlo, di lasciare qualcosa qui, sulla terra che tanto ho odiato fino a decidere di separarmi da lei.

Non ho mai avuto l'occasione di parlarne veramente con qualcuno, della mia vita. Tutti mi stavano sempre abbastanza alla larga. Ero Gerard Way, e da Gerard Way si stava lontano e basta. E chi si avvicinava era uno sfigato peggio di me. Non che qualcuno ci avesse mai provato.

Comunque, alle elementari me la sono cavata. Avevo più o meno due o tre compagni di giochi, quando si è così piccoli non si pensa a niente, si è amici di tutti e basta. Il problema più grande della tua esistenza sono i pastelli bellissimi del tuo vicino di banco, che, al contrario dei tuoi, corti e fatti male, sono bellissimi, lunghi e lucidi. Il problema più grande della tua esistenza è il fatto che la maestra ti dice che hai una calligrafia pessima. Il problema più grande della tua esistenza è che Jacob adesso ha conosciuto un altro bambino al mare. Non hai una concezione di orrore, di paura, di dolore, di tristezza infinita e di sofferenza. Mi ricordo che una volta, quando avevo nove anni, chiesi a mia madre perché così tanti musicisti e cantanti anche se erano così famosi e ricchi si drogavano e bevevano.
"Perché sono tristi" mi rispose lei, guardandomi fissa.
Non sapevo che anche lei era triste.
Ero troppo stupido per accorgermene.
Ero troppo stupido per accorgermi che papà le mancava troppo.
Poi mancò troppo anche a me.
Ma dovetti crescere per comprenderla veramente.
"E perché sono tristi, mamma?" chiesi di nuovo, insistendo.
Mikey mi guardò con gli occhi a palla, come se fosse stata una domanda proibita.
Ma non ci fu risposta.
Più tardi la capii da solo.

Finite le elementari, che rimasero il periodo più felice della mia vita, venne il momento di crescere, però.
Il brusco stacco da "maestra" a "professoressa" mi lasciò più smarrito che mai. Ero sempre stato cicciottello, ma lì, nel mondo dei grandi, era completamente diverso: cominciarono le prese in giro. Avanzarono gradualmente, ma in modo così veloce che nel gennaio dei miei tredici anni mi ritrovai a essere lo zimbello della scuola.
Tutti mi prendevano di mira, nessuno escluso. Nessuno voleva o anche solo poteva avvicinarsi a me.
Mi picchiavano, mi sbattevano contro gli armadietti e mi davano i pugni in faccia, insultavano mia madre, che scivolava mano a mano in una depressione senza via di uscita, si facevano beffe di mio padre, morto, e di Mikey, così piccolo e abbandonato a sé stesso. Quei bulli mi facevano sentire spazzatura: non ero in grado di difendere me stesso, non ero in grado di difendere nessuno della mia famiglia. Ogni fottuto giorno pensavo a cosa dovesse pensare mia madre di me, di quel suo figlio brutto e debole, ogni giorno pensavo a cosa dovesse dire ai suoi amichetti mio fratello di me, il primogenito che scappava via appena suonava la campanella per non farsi picchiare anche a pranzo e veniva pubblicamente umiliato ogni santissima ora, ogni giorno pensavo che non ce l'avrei fatta a reggere un altra mattina così e puntualmente lo facevo, mi trascinavo avanti con quella vita penosa, ogni giorno pensavo che peggio di così non poteva andare e puntualmente il giorno dopo faceva più schifo del primo.

Ogni giorno mi aspettavo che accadesse qualcosa, che ci fosse un cambiamento. E ogni giorno era uguale al precedente, anzi, peggiore e più difficile.

Quando compii quattordici anni, la nonna Helena morì di tumore. Fu il primo vero colpo che presi dalla vita. Rimasi paralizzato nel dolore, come un animale che, immobilizzato, si contorce nella sua agonia, ancora ragazzino.
Da quel giorno tutto peggiorò. Mi veniva da piangere ovunque, ascoltando qualsiasi canzone, in mezzo a tutti e quando ero solo, a casa e a scuola, con la testa vuota o piena di pensieri.
Fu l'inizio della rovina, della fase intermedia della mia vita, sospesa tra la sofferenza e qualche briciolo di gioia che mi coglieva in qualche giornata.
Dapprima non fu questo granché. Era un dolore, piccolo, ma non lo capivo, non tentavo nemmeno di farlo: un senso di inadeguatezza che mi separava completamente dal resto del mondo e degli esseri umani. Mi sentivo costantemente catapultato verso un altro mondo, irreparabilmente indietro e dolorosamente avanti. Non comprendevo.
Poi alcuni giorni andava meglio, alcuni giorni mi dicevo che potevo farcela, avevo una speranza che mi scaldava il cuore, mi facevo forza e riuscivo ad andare avanti. Pensavo che peggio di così non poteva essere, pensavo che una sofferenza peggio di quella non esisteva, pensavo che sarebbe passato col tempo.

Poi il dolore cominciò a crescere.
Cioè, non proprio a crescere, perché esplose tutto in un giorno solo: il giorno del mio compleanno. Alla sera, mi resi conto che la giornata era stata vuota. Che non avevo vissuto niente. Che avevo parlato del nulla. Che avevo sorriso e avevo avuto ben tre fumetti, li avevo letti con passione e che poi tutto era terminato di nuovo.
Ormai era lo sfacelo totale.
Da lì le cose peggiorarono e basta, senza gioia, il dolore raggiunse livelli incalcolabili e la felicità diminuì, consumandosi mentre cercavo di risucchiarla avidamente, finchè non fui più capace di sorridere. Quando morì la nonna, avevo elaborato una sorta di scala del dolore, per cercare di studiarlo e di capirlo. Be', quando avevo visto i capelli candidi e la pelle scura di Helena nella bara avevo subito pensato: "Questo è il grande, terribile, dieci della mia vita". E mi sbagliavo, mi sbagliavo ogni volta che pensavo che le cose non avrebbero potuto farmi soffrire più di così.

Il grande, terribile, dieci fu il giorno del mio compleanno.

Fu come un crollo totale.
L'inizio di un'implosione terminata in questo modo.
Faceva male, ogni cosa faceva male.
L'esistenza diventò una lama acuminata che grattava contro il mio corpo ogni istante.
Smisi di fare qualsiasi cosa tranne che disegnare e leggere. Non avevo più voglia di niente.
Andavo a scuola trascinando le giornate senza senso, non ascoltavo, non scrivevo niente, ero come perso in un'apatia acuminata.
Cominciai a dirmi che ero pazzo. Vedevo le cose molto differentemente dai miei coetanei. Avevo una sensibilità estranea a tutte le persone che conoscevo, una percezione acuta della realtà che nessuno possedeva. Mi chiesi se fosse il caso di parlare con qualcuno, di dire a mia madre come stavano le cose, ma vederla seduta, con la bocca ridotta a una linea piatta, sulla sedia di legno della cucina, la testa tra le mani e le lacrime che le rigavano il viso, mi fece desistere da questo tentativo. Provai solo a scriverle una lettera, ma mi accorsi che persino a parole era qualcosa di inesprimibile. Non avrebbe avuto i soldi per portarmi da uno psicologo, e aveva già abbastanza problemi da sè. Non volevo dare a Mikey un altro dispiacere, non volevo rovinare ancora la mia famiglia.

E per colpa del mio volerla preservare, ho solo finito col devastarla ancora di più.

Avevo un buco nel cuore, un vuoto incolmabile. Niente bastava, niente aveva senso, niente mi dava qualcosa per cui vivere.
Gli atti di bullismo peggioravano sempre di più, ormai avevo il labbro inferiore perennemente spaccato e gli occhi neri, per i pugni e per le notti insonni che passavo a guardare il vuoti. Non sentivo nemmeno più il dolore fisico, tanto quello interiore lo sopraffaceva e mi rendeva assente dal mio corpo.

E in tutto questo, arrivò qualcosa di peggiore ancora: amore.
Per la persona più sbagliata della terra.
Era un ragazzo.
Non seppi mai il suo nome.
Era bellissimo, oh, così bello.
Era magro e piccolo, con i lineamenti dolci, il cappuccio sempre sulla testa, un adorabile piercing al labbro e un ciuffo di capelli scurissimi sulla testa. E quegli occhi... i suoi occhi erano di un colore indefinibile, verde e marrone. Provai tante volte a disegnarli, e tutte le volte stracciai i disegni, insoddisfatto. Provai tante volte a scrivere qualcosa su di lui, canzoni e poesie. Le sotterrai nel mio giardino, vicino al cespuglio di rose rosse, le sotterrai sotto la luna, piangendo, ridotto all'ombra di me stesso, le occhiaie sempre più evidenti, la pelle sempre più pallida.
Mi picchiava molto forte.
Mi odiava, mi sputava addosso e mi diceva "Way, tua madre è una cagna", mi insultava, mi gridava che ero brutto, che ero grasso, che ero la vergogna dell'umanità, un rifiuto. Mi prendeva per i capelli e mi dava i pugni sul viso fino a che non ansimava, fino a che non ero pieno di sangue.
Oh, quanto sarebbe stato bello se tra i colpi ci sarebbe stato anche qualche bacio.

Io lo lasciavo fare, perché lo amavo. E non sentivo niente.
Lo amavo da impazzire.
E piangevo.
E faceva male.
Forse perché lo amavo.

La nostra era una passione distruttiva. Eravamo amanti e demolitori, ci distruggevamo l'uno con l'altro. Non ebbi mai il sapore dell sue labbra, le mie dita non si intrecciarono mai con le sue. Le mie lacrime non furono mai sulla sua spalla, non vidi mai il suo bellissimo sorriso. Non gli dissi mai niente di quello che ero e pensavo, e lui non ebbe mai l'occasione di sentire la mia voce che lo chiamava per nome. Non ci facemmo mai una di quelle promesse "per sempre" o "fino alla morte", non gli dissi mai che sarei stato disposto ad aspettarlo per sempre, non riuscii mai a chiedergli "Vuoi rimanere stanotte?", non mi rispose mai "Con te ci rimarrei per sempre".

Oh, come sarebbe stato bello finire i nostri giorni insieme, fino alla fine, in una scarica di proiettili.
Era un amore malato.
Era un amore insano.
Era un amore bramoso.
Era un amore che io credevo di vivere ma che capivo non sarei mai riuscito ad avere, non tanto per il fatto che lui mi odiasse, ma perché non sarei riuscito a reggere quel peso. Ero troppo debole. Avevo troppo dolore, in me. Ormai la vita non era più fatta per la mia anima, non riuscivo a tenerla, racchiuso nella mia paura, sentendo la vita come uno spettro, un fantasma che mi si era incollato addosso per sbaglio. Tutto era sbagliato, ogni cosa. Persino la mia esistenza, che ogni giorno scivolava via sempre di più da me, mentre io osservavo, muto, impotente, rassegnato. Le altre persone andavano avanti, e io mi sentivo frastornato, immobile in una dimensione insonorizzata senza via d'uscita, la testa mi ronzava e realtà e fantasie si confondevano.

Ormai non sentivo più niente di niente, solo un'incredibile voragine che mi risucchiava in una nostalgia senza nome.

Mi odiavo così tanto... non sapevo salvarmi, non avevo forze. Le altre persone riuscivano a convivere con la loro vita, mentre la mia mi stava soffocando, lentamente, leccandosi le labbra, con una brama terrificante.

Nacqui.

Vissi.

Mi trascinai.

Sopportai.

Amai.

Crollai.

E questa è la mia fine.

La fine di qualcuno che non ha niente da dire.

La fine di qualcuno che non ha mai lasciato niente.

La fine di qualcuno che non è mai riuscito ad amare e ad avere rapporti.

La fine di qualcuno che il mondo aveva tagliato fuori.

La fine.

Fino alla fine.






 

- Frank?

- Frank dove sei?

- Iero, esci da quel bagno!

- Iero, chiamo la preside!

- Adesso basta, Iero!

La porta si aprì.

Lui non la sentì.

Le sue mani tremavano.

Il foglio di carta che aveva in mano tremava.

Non vedeva niente, tutto era una massa indistinta di buio, lontano da lui, non c'era più niente, niente, se non quella lettera, se non quel sangue, se non quella riga, se non quel rosso, se non lui. Nella sua mente, nel suo cuore, nella sua anima, nel principio del suo respiro e del sole, dell'universo, della terra.

- Iero, cosa hai fatto?

- Chiamate l'infermeria!

- Frank, stai bene?

- Cos'è quel pezzo di carta?

- Iero, forse dovresti rivolgerti a una psicologa.

Non sentì niente, assolutamente niente.

Tutte quelle parole, solo, impresse a fuoco nella sua mente.

Finire i nostri giorni in una scarica di proiettili.

Un piercing al labbro.

Il cappuccio sulla testa.

Mi picchiava molto forte.

Pianse, pianse senza vedere niente.

Lo presero a forza, sentì come dei lacci che lo avvolgevano stritolandolo mentre si contorceva, soffocando sotto il peso di sè stesso, pensando a quell'amore, l'amore più piccolo del mondo, il più innocente, il più breve, il più importante.

La fine.

Fino alla fine.

Piangeva ancora, Frank, quando scavalcò il cancello.

Le sue lacrime trapassavano i fantasmi nell'etere come proiettili.

Piangeva ancora, Frank, quando cominciò a scavare vicino al cespuglio di rose rosse.

Rosse come quel segmento di vita.

Ridotto al silenzio, ridotto a quell'amore distruttivo.

Dissotterrò la cassa di metallo sporca di terra, la prese tra le mani.

Il vento cominciava a soffiare.

Alla luce della luna.

Piangeva.

Tirò fuori i fogli, la carta lo graffiò e il sangue cominciò ad uscire dalla sua mano.

La carta era candida, quella volta, senza macchia.

La lettera gliel'avevano strappata di mano con rabbia, mentre si dimenava come un folle.

Non sapeva niente, non sapeva nemmeno se sarebbe tornato da quella notte, se avesse lasciato semplicemente che il manto buio tappezzato di stelle come cristalli lo prendesse con sè.

Piangeva.

Lasciò che l'aria lo trapassasse, lasciò che il suo respiro diventasse uno spettro.

Lasciò che il cappuccio della felpa cadesse come le sue lacrime.

Lasciò che la pistola scivolasse sulle sue tempie, gelida.

Oh, come sarebbe bello finire i nostri giorni in una scarica di proiettili.

Alla luce della luna.

Lesse solo il primo, lasciando che gli altri si sparpagliassero sull'erba scura e umida.

La terra fremeva e gemeva di dolore per quell'insignificante vita che l'aveva abbandonata, e che tramite quella carta ritornava sottoforma di una presenza silenziosa e nostalgica.

Lesse di nuovo le parole di chi lo aveva tanto amato, fino alla fine.

E pianse di nuovo, sulle parole di chi lo aveva tanto amato, fino alla fine.

E pensò che forse avrebbe potuto avere una bella voce se avesse cantato quelle parole con lui, fino alla fine, piangendo, alla luce della luna:

La mano nella mia, nella tua gelida depressione

E poi ti direi che potremmo prendere l'autostrada
Anche con il bagaglio pieno di munizioni
Finirei i mio giorni insieme a te in una scarica di proiettili

Sto cercando, sto cercando
Di farti sapere quanto significhi per me
E dopo tutte le cose che abbiamo passato insieme e

Continuerei a guidare verso la fine insieme a te
Un negozio di alcolici o due per tenere piena la tanica di benzina
E mi sento come se non fosse rimasto niente da fare
Se non mettermi alla prova per te e continueremo a fuggire

Ma questa volta, faccio sul serio
Ti farò sapere quanto significhi per me
Mentre la neve cade sul cielo deserto
Fino alla fine di ogni cosa
Sto cercando, sto cercando
Di farti sapere quanto significhi per me
Mentre i giorni svaniscono, e le notti aumentano
E ci raffreddiamo

Fino alla fine, fino a questo sangue
Fino a questo, dico davvero, dico davvero
Fino alla fine di...

Sto cercando, sto cercando
Di farti sapere quanto significhi per me
Mentre i giorni svaniscono, e le notti aumentano
E ci raffreddiamo

Ma questa volta, mostreremo
Mostreremo loro quando facciamo sul serio
Mentre la neve cade sul cielo deserto
Fino alla fine di ogni...

Siamo solo, siamo solo
Proiettili, dico davvero

Mentre la pioggia continuerà a passare attraverso i nostri fantasmi

Per sempre, per sempre
Come spaventapasseri che alimentano questa fiamma che stiamo bruciando
Per sempre
Non sai quanto voglio dimostrarti che per me sei la sola
Come un letto di rose, ci sono una dozzina di ragioni in questa pistola

E mentre cadremo, e in questa pozza di sangue
E mentre ci toccheremo le mani, e mentre cadremo
E in questa pozza di sangue, e mentre cadremo
Vedrò i tuoi occhi, e in questa pozza di sangue
Incontrerò il tuo sguardo, dico davvero, per sempre.












 

ANGOLO AUTRICE:
Okay, siate buoni, è la mia prima vera frerard. L'ho scritta tipo in due ore, di getto, perché per l'ennesima volta stavo ascoltando Demolition Lovers. E nada. Spero vi possa piacere.

  
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