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Autore: Lost In Donbass    11/07/2016    3 recensioni
Tom non ne vuole sapere di studiare, vuole vivere la vita sulla pelle, vuole suonare agli angoli delle strade, vuole rivoluzionare qualcosa che è solo nella sua testa. Ma forse è ancora troppo giovane.
Bill è semplicemente un genio, si sente un dio, vuole che lo osannino, passa tutto il suo tempo a studiare cose che non gli interessano per sentirsi uguale agli altri. Ma nasconde qualcosa di troppo doloroso per poter essere tenuto nascosto troppo a lungo.
Ed entrambi sono troppo e sono troppo poco, sono padroni e schiavi di loro stessi, e soprattutto sono nemici giurati da anni. E se quest'anno qualcosa cambiasse? In un saliscendi di amore, odio, passione, lacrime, incomprensioni, e segreti inconfessabili, riusciranno i due ragazzi a trovare l'accordo di pace tra loro stessi?
Genere: Angst, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate
Capitoli:
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CAPITOLO UNDICI: GREAT DAY
My heart is open
And my eyes are swollen
Is it way too hard to see
My head is on clouds
But your voice is too loud
Only cigarettes to breath
 
Tom si accorse che qualcosa non andava solamente quindici giorni dopo la festa al Kalende May. Non che non si fosse accorto dell’assenza di Bill, certo, ma aveva realizzato con un po’ di ritardo la palese agitazione delle Bill’s Angels e i loro visi evidentemente crucciati. In realtà, a essere sinceri, non aver visto il ragazzo per quindici  giorni lo aveva vagamente indispettito: come mai era assente, lui, lo studente modello? E soprattutto, come mai non gli aveva detto niente? Non che Tom volesse davvero ammettere di essere preoccupato ma … non poteva fare a meno di pensarci. Si guardava in giro, durante le lezioni, sperando di vedere i capelli sparati in ogni direzione svettare da qualche parte, o sentire la sua voce melodiosa dare la risposta corretta a ogni domanda posta dalla professoressa. A mensa, aveva perfino scordato di rispondere con la sua arguzia proletaria alle battute dei suoi amici, troppo impegnato a cercare con lo sguardo il tavolo dove sedeva sempre Bill con le sue amiche e incappando solamente nei capelli blu di Octavia che spiccavano luminosamente tra teste more, brune, bionde e rosse. Aveva atteso ore come un idiota fuori dal club di lettura nella speranza di vederlo uscire, ma non ricevendo altro che stranite occhiate dalla bibliotecaria. A un certo punto, era stato sul punto di chiamarlo, salvo fermarsi appena prima di schiacciare il pulsante, perché Tom Kaulitz non può essere etichettato come ragazzo romantico. Però, poteva contarsene quante voleva, l’assenza di Bill lo stava disturbando sensibilmente; gli pensava ogni secondo, il cuore perennemente in attesa di vederlo sbucare dalla porta della classe perché “oh mio Dio, scusi il ritardo, non trovavo la lacca stamattina!”, o di sentire il suo sguardo perforante nella schiena a pranzo e vederlo intento a mangiare signorilmente un’insalata in mezzo alle sue oche giulive, oppure di spalancarsi non appena barcollava sui tacchi a spillo fuori dalla biblioteca, il suo meraviglioso sorriso che si allargava a dismisura appena lo avvistava, appoggiato sgraziatamente a un muretto, con la sigaretta in bocca e lo skateboard appoggiato alla gamba, o anche solo di vedere quel dannato messaggio ogni santa notte con scritto “Buona notte amore, mi manchi”, che Tom solitamente frenava con un “Notte a domani”, senza calore e senza affetto, perché gli dava fastidio che fosse sempre così dannatamente sdolcinato. Eppure, erano quindici notti che Tom si rigirava insonne a letto, dormendo leggeri sonni agitati e risvegliandosi sudato fradicio, per afferrare il cellulare e guardare un eventuale messaggio, anche un semplice augurio di sogni d’oro, che però non appariva, e solo Dio sapeva quanto il rasta abbisognasse del messaggino serale di Bill, stuccoso e pieno di cuoricini. A quel punto, era curioso di sapere dove si fosse cacciato, perché se ne fosse andato senza fargli sapere nulla. Ovviamente, non che gliene fregasse qualcosa, sia chiaro. Era solamente per sapere che fine avesse fatto, curiosità personale. In qualche modo, si stava rendendo conto che Bill però gli mancava. Non sapeva dire bene cosa gli mancasse di lui, se quegli occhi meravigliosi che lo scrutavano da sotto il trucco, se quella voce dolcissima che cinguettava sempre, se il sesso e tutto quello che comportava, se anche solo la sua asfissiante presenza al suo fianco. Tom aveva smesso di dormire sonni tranquilli da quando erano cessati i messaggi, per quanto continuasse a giocare bene a rugby aveva perso tutta la verve di prima e si limitava a fare un gioco bello ma senza passione da quando Bill aveva smesso di accamparsi sugli spalti vuoti a sorbirsi tutti gli allenamenti, si trovava ancora più impreparato di quanto già non fosse perché quel poco tempo che occupava per studiare oramai lo passava a pensare a Bill e a niente altro, si era reso conto che stava sempre più spesso per strada a suonare canzoni strappalacrime e che ogni volta che la chitarra piangeva gli pareva di udire il nome di Bill risuonare tra le note. Se quello era innamorarsi, Tom decise che era una tortura psicologica non da poco. Se quello era innamorarsi, Tom stava venendo meno al suo giuramento personale “Solo sesso, niente intruppi sentimentali”. Se quello era innamorarsi, Tom era davvero fottuto. Non voleva nemmeno pensare di essersi innamorato di una persona, di Bill Kaulitz, poi! Stava precipitando come un sacco di patate in un mondo che non conosceva, pieno di mine e di bombe pronte a farlo saltare in aria come un bambolotto. Si era fatto un esame di coscienza, una notte, giungendo all’assurda conclusione di provare per Bill più che una semplice attrazione fisica, anche se continuava a non capire cosa ci potesse essere nel suo ex nemico per averlo fatto capitolare così drasticamente. Quando erano insieme, non si sentiva diverso da come si era sempre sentito, ma ora che era scomparso un grosso macigno gli pesava sul petto, angosciandolo e intristendolo oltre ogni misura. Subito aveva pensato che fosse partito per una vacanza, ma sapeva che Bill sarebbe stato il tipo da spedirgli una cartolina con mille cuori e mille frasi sdolcinate, e lui di schifezze simili, fortunatamente, non ne aveva ricevute. Aveva ripensato a ogni momento dell’ultimo mese, trascorsi praticamente tutti con il moro tra i piedi. Gli era bastato accompagnare sua mamma al parco per una passeggiatina “come ai vecchi tempi, quando eri piccolo così!” per prendere quasi meccanicamente, al chiosco dei gelati, una coppetta alla pesca, come faceva sempre Bill. Lui, che aveva sempre odiato il gelato alla pesca!, come gli aveva fatto immediatamente notare sua mamma, con sguardo vagamente preoccupato. Tom era esterrefatto da sé stesso: finché Bill era lì con lui, arrivava a momenti in cui l’avrebbe volentieri mandato a fare in culo, ora che se ne era andato avrebbe dato chissà cosa per averlo di nuovo lì, con i suoi vestiti imbarazzanti e le sue unghie smaltate di nero. Una strana alchimia, dell’avere e del desiderare, del dare per scontato la sua presenza e rimanerne ustionati a morte non appena essa finisce. Decisamente, il rasta non sapeva più dove sbattere la testa. Aveva bisogno di sapere dov’era Bill, ma contemporaneamente voleva starsene sulle sue, per non rovinare il personaggio costruito con fatica in tutti quegli anni di scuola. Alla fine, aveva pensato bene di chiedere a Octavia, l’unica che sicuramente non l’avrebbe preso a ceffoni come Ria, non l’avrebbe malmenato come June e May, non l’avrebbe affogato di insulti come Nora e non l’avrebbe trattato da pezzente lurido come Anastasia. Dunque eccolo lì, Tom, che si trascinava mollemente dai capelli blu elettrico della melanesiana, cercando di mantenere il suo sguardo duro e non sfoderare qualche lamentosa espressione persa e triste.
-Oh, finalmente ti sei fatto vivo, Tom!- non appena Octavia lo vide, mollò i suoi amici e gli saltellò accanto, un nuovo tatuaggio del demone babilonese Pazuzu che il ragazzo notò subito a incorniciarle l’ombelico.
-Ehi, Octavia … - il rasta si grattò nervosamente il retro del collo, non sapendo bene come iniziare il discorso – Volevo, ecco …
-Volevi chiedermi dove si è cacciato Bill, vero?- la ragazza lo sospinse fuori dai cancelli, dove tutti gli studenti si spintonavano nel tentativo di raggiungere la fermata dell’ autobus o la macchina dei genitori.
Tom annuì, la coda di dread che frustava l’aria avanti e indietro, avviandosi al fianco di lei lungo il fiume che scorreva placido sotto i vecchi ponticelli poco stabili.
-Sei stato piuttosto idiota, amico, fattelo dire.- Octavia lo scrutò da sotto la frangetta rettangolare, e solo allora Tom si accorse che aveva dei nuovi tatuaggi anche sul collo, come un colletto a punta che le sfiorava le guance. Gli faceva sempre più paura ogni volta che la vedeva.
-Del tipo, dovevo interessarmene prima?- la precedette Tom, affondando le mani nelle tasche della felpa enorme.
-A parte quello, che mi pareva ovvio.- ribatté Octavia, dandogli un leggero calcetto negli stinchi con gli stivali borchiati – Avresti dovuto avere un minimo di senso in quella capoccia da rasta che ti ritrovi.
-Senso? Dio, Tavia, dove cazzo è Bill adesso?- sbottò il ragazzo, esasperato, sentendo uno strano senso di panico montargli dentro.
-Se vuoi veramente bene a una persona, dovresti sempre sapere dove si trova e come sta. Lo dicono anche a Sottovento.- continuò imperterrita lei, accendendosi una sigaretta e lanciando un’occhiata cupida alla vetrina di torte – Non ti sei mai chiesto dove potesse essere finito il caro Bill, dopo la festa?
Tom stava per rispondere, ma lei lo interruppe con un gesto della mano tatuata
-Sì, te lo sei chiesto un sacco di volte, ma non avevi abbastanza coraggio da venire da me o dalle altre a chiederlo. Immagino che avrai passato una settimana insonne a rigirarti nel letto, pensando sempre a lui, senza smettere un solo secondo. Le partite avranno perso il loro interesse e anche la passeggiata al parco con tua mamma ti sarà sembrata una tortura, senza Bill. Perché non chiederci niente? Ovvio, l’orgoglio da maschio alfa che, scusami, non ti si addice niente. Il dover scendere a patti con l’assenza misteriosa della persona che stai cominciando ad amare per quello che è sul serio. Hai perso Bill, ora non sai più nemmeno chi sei, vero?
-Mi hai spiato!- strillò Tom, boccheggiando come un tonno, facendo voltare alcune anziane nella loro direzione.
-Non ti ho spiato, Figlio del Kookaburra, ti ho letto dentro, che è diverso. Dovresti far capire a quella tua testa cocciuta intanto che Bill ti appartiene ormai più di quanto tu voglia darlo a vedere, e poi che io sono la Sciamana delle Isole Sottovento e che posso quello che tu non potrai mai, ok?
Tom si grattò la guancia, confuso e sbalordito, la testa pulsante.
-Senti Octavia … ok, va bene, sono stato un idiota, lo ammetto, però ora dimmi dov’è Bill. Lo voglio vedere, voglio chiedergli perché non si è fatto più sentire.
-Dice la leggenda che quando un Figlio del Kookaburra si spezzi un’ala e precipiti nella foresta, il cielo si metta a piangere tutta la sua disperazione per avvertire l’altro Figlio della sua sventura.- raccontò Octavia, ignorando l’occhiata supplichevole del rasta, il quale si ritrovò a pensare che, effettivamente, aveva piovuto per quasi due intere settimane – Dunque, quando il Figlio sano scopre il fatto e si mette disperatamente a cercare la sua metà, il cielo diminuisce gradualmente il suo pianto per favorire il volo. – Tom guardò il cielo e, oh Cristo, effettivamente ora non stava più piovendo – Quindi il Figlio vola, vola e vola ancora, chiamando a gran voce l’altro, ma continua a non trovarlo. Un giorno, stanco di tutta questa estenuante ricerca, si ferma a riposare nel folto della foresta e lì incontra un grosso ragno con otto occhi e gli chiede se per caso fosse incappato nell’altro Figlio. Il ragno con otto occhi, che tutto vede e tutto sente, perché è l’animale dei morti e degli sciamani, sospira rumorosamente di fronte al triste destino dei Kookaburra, e lo guida nel folto della foresta. Cosa trovano? L’altro Figlio, solo, arso dalla sete e dalla fame, con un’ala spezzata. Cosa fa dunque il nostro giovane Figlio sano? Lo prende tra le sue ali, se lo carica in spalla e volano via, lontani, verso il sole, nella dolce attesa che il Figlio malato si rimetta in sesto, per ricominciare a volteggiare sereni nei cieli della Melanesia.
Tom spalancò i grandi occhi scuri, tentennando, lo sguardo quasi per sbaglio caduto sul davanzale più che prosperoso di Octavia e sull’inquietante tatuaggio di un ragno con otto occhi tra i seni, per poi alzarlo tremebondo sul viso serio e composto dell’amica. Si stupì della sua voce balbettante
-Quindi … fammi capire, io sono il Figlio del Kookaburra sano e tu sei il ragno dagli otto occhi?
Octavia sorrise, sfregandosi le mani e indicando la struttura davanti al quale sostavano, senza che il rasta se ne fosse nemmeno accorto.
-Io sono il ragno con otto occhi, Tom. E ora, Figlio del Kookaburra, prendi il volo e recupera il Figlio con l’ala spezzata dalla tempesta.
Tom avrebbe davvero voluto sprofondare metri sotto terra quando alzò lo sguardo e, davanti a lui, vide ergersi il Bach Hospital con le sue pareti annerite dallo smog e tutte le ambulanze parcheggiate davanti.
 
-Puoi stare solamente dieci minuti, hai capito?
Tom annuì distrattamente alle parole acide della vecchia infermiera, guardando con puro orrore dipinto nelle iridi scure la porta bianca della camera dov’era ricoverato Bill. Ricoverato. Quella parola continuava a rimbombargli in testa senza dargli pace, da quando Octavia l’aveva mollato davanti all’ospedale con una smorfia stanca, dopo tutto quel panegirico che lo faceva sentire dannatamente in colpa. Insomma, tra cieli, uccelli, ragni e quant’altro, la morale era sempre quella: “Tom, sei uno stronzo senza cuore, dovevi interessarti alla sorte del tuo ragazzo”.
-Facciamo un quarto d’ora?- tentò di contrattare – La prego, è il mio fidanzato, io …
-Dieci minuti, piccolo pervertito.- sibilò l’infermiera – E ora sbrigati, prima che scendano a cinque.
Tom si grattò i dread, mentre entrava nella stanza bianca e asettica dell’ospedale, terrorizzato all’idea di quello che poteva trovare. Vide solo un letto bianco, dove giaceva Bill, il suo adorato Bill, ancora più pallido del solito, i capelli spettinati che gli incorniciavano il visino stanco e spossato, il trucco sempre presente ma rovinato, le mani esangui strette attorno alla coperta, alcuni tubicini che gli ciondolavano dalle braccia magre e smorte. Eppure, si ritrovò a pensare il rasta, era meraviglioso anche in un letto d’ospedale. Tom ricacciò indietro un conato di vomito, a vederlo così, la sua stella, la sua meraviglia, quella creatura ultraterrena che continuava a sprigionare il suo Fuoco Celeste tutt’attorno, anche da addormentato. Ma cosa diavolo poteva essergli successo da aver dovuto addirittura comportare un ricovero del genere? E come mai non ne sapeva niente? Si sedette accanto al letto il più silenziosamente possibile, osservando rapito e sconvolto allo stesso tempo quel ragazzo stupendo. Se fosse vissuto nell’Antica Grecia, sicuramente la Venere di Milo avrebbe avuto le sue fattezze, un incrocio perfetto tra l’umano e il divino, una Ninfa alla guardia del Giardino dell’Eden, il figlio auto fecondato dalle nove Muse nel loro fertile grembo. Se Botticelli l’avesse mai avuto sotto gli occhi, la sua Primavera sarebbe stato un tripudio di Bill in ogni sua forma, se Raffaello l’avesse visto sicuramente la Madonna Sistina avrebbe avuto il suo viso e la sua espressione, così come la Gioconda il suo sorriso enigmatico e splendente di mille lune e mille soli. Se Modigliani l’avesse avuto come modello, chissà che inquietanti e fantomatiche figure avrebbe tirato fuori, chissà come l’avrebbe dipinto Turner, in una nuvola di vapore, o come Goya lo avrebbe idolatrato pur di averlo con sé. Ogni scrittore ne avrebbe tratto improvvisazione, il famoso fanciullo di “La morte a Venezia” sarebbe stato descritto come Bill, nel puro stile di Mann, Oscar Wilde ne avrebbe fatto la sua Musa ispiratrice, come Baudelaire, come Rimbaud, il sogno segreto e la perversione di ogni poeta, di ogni scrittore, di ogni commediografo. Bill era l’arte in ogni sua forma, la perfezione incarnata, la perdizione dell’Ofelia ve la si leggeva nei tratti così femminei, lo splendore della ragazza dall’orecchino di perla non era nulla in confronto alla sua. Brillava come una stella, era la Pleiade caduta dal cielo, l’Altair sanguigna, la Vega splendente, una costellazione di stelle elette che portava luce dove non ve ne era, che ustionava qualunque cosa al suo funesto passaggio, che lasciava terra bruciata dietro di sé come un dio dei non credenti.
-Ehi, Bill?- sussurrò Tom, con voce incerta, allungando la mano verso quella cerea dell’altro, sentendola così dannatamente fredda e secca.
Lo guardò ansiosamente, nel tentativo di vedere un movimento, scrutando con desiderio quei grandi occhi aprirsi con una lentezza inquietante, in modo così stanco e assonnato da fargli temere di aver appena risvegliato un moribondo. Bill lo guardò, ma sembrava non vederlo nemmeno.
-Tom? Tom, sei tu?- la vocina musicale del moro si sparse per la stanza, soffocata, impregnata di sonno, impastata e asciutta.
-Sì, bambolotto, sono io.- mormorò il rasta con voce strozzata, sentendo il cuore aumentare di colpo i battiti. I battiti di un cuore terrorizzato, spaventato da qualcosa di troppo grande, che lo faceva sentire l’ultimo degli ultimi. Qualcosa che non poteva combattere, insultare, pestare, distruggere.
-Pasticcino alla vaniglia … - le labbra piene di Bill si piegarono in un sorriso tirato, e gli occhi ruotarono per la stanza, senza guardarlo, soffermandosi nervosamente dappertutto, vagando senza posarsi mai come delle cicogne in viaggio, fiacchi e sporchi . Ma perché non lo voleva guardare? Ripensò improvvisamente a tutte le occhiate che gli aveva lanciato in tutto quel tempo, e si rese conto che tutte avevano un loro fascino, da quelle di odio puro quando ancora erano nemici, orgogliose e fiere come quelle di una regina, a quelle stufe e altezzosamente borghesi quando diceva troppe cazzate, per quelle gioconde e innamorate che tanto temeva, brillanti di miliardi di oceani intergalattici e sprizzanti emozioni turbolente quanto loro stessi, e quelle sensuali e erotiche che lo facevano eccitare da impazzire, c’erano sempre state milioni e milioni di occhiate, magiche nel loro umano splendore, che per il rasta avevano sempre significato qualcosa di profondo e imprescindibile, qualcosa da cui dipendeva in pieno. Quindi, perché proprio adesso non lo voleva guardare nemmeno di striscio? Lo fissò meglio, alla ricerca del motivo che gli stava torturando lo stomaco e la sanità mentale e deglutì rumorosamente, soffocando un gemito distrutto, quando si rese conto di una cosa che avrebbe tanto preferito ignorare: Bill non lo stava volutamente ignorando. No, Bill non lo stava definitivamente vedendo. Era … cieco. Il ragazzo ingoiò un altro conato di vomito che lo scosse. Cosa diavolo era successo?
-Sono qui.- disse piano, voltandogli impacciato il viso verso di lui, sentendo la guancia appiccicaticcia di qualcosa a cui non riuscì a dare un nome. Si guardò la mano, e le macchiette di una sostanza biancastra che gli si erano attaccate alle dita. Gli sembrava di essere appena caduto in un incubo da cui non riusciva a risvegliarsi.
Gli occhi ciechi di Bill si posarono su di lui, senza vederlo, e la sua mano perfetta aumentò la pressione sulla sua, allacciandogli con una lentezza esasperante le dita alle proprie, il pallido sorriso sempre al suo posto.
-Pasticcino … dammi dell’acqua … e un … fazzoletto …
Tom scattò in piedi più veloce di quanto avesse mai fatto, la testa che gli girava come una trottola, la bocca impastata e la bocca dello stomaco bruciante, il senso dell’equilibrio ormai completamente perso, sopraffatto da quella visione orribile che gli si era palesata sotto gli occhi. Afferrò la bottiglia d’acqua e un fazzoletto sistemati sul bianco comodino affianco al letto e glieli mise in mano titubante. Bill li strinse, mettendosi faticosamente a sedere, e sussurrò con voce roca
-Bagna il fazzoletto.
Tom obbedì terrorizzato, bagnando delicatamente il fazzoletto e lo allungò verso il moro, che gli fece un dolce sorriso riconoscente, uno di quei sorrisi che Tom odiava ma che aveva imparato ad amare. Cioè, no. Ad accettare. Sì, suonava meglio. Lo vide portarselo lentamente agli occhi, detergendo delicatamente gli occhi annebbiati, sfarfallandoli piano e finalmente, dopo un tempo che all’altro parve interminabile, rivolse di nuovo il viso verso di lui.
-Tom … che bello vederti … - cercò di sorridere meglio, e il rasta vide con immenso sollievo che l’occhio sinistro era tornato a brillare della luce maliziosa di sempre, un poco opaco, ma di nuovo capace di vedere tutto. Eppure, e se ne accorse con un moto di orrore, l’altro occhio rimaneva inevitabilmente splendido ma perso nel vuoto, girato verso di lui ma orribilmente morto.
-Bill, santo Dio, ma cosa ti è successo? Perché non mi hai detto niente? E i tuoi occhi, chi li ha ridotti così?
Tom non si rese conto di aver urlato, come non si rese conto che stava orribilmente sudando, qualcosa che non voleva chiamare lacrime a inumidirgli gli occhi. Niente era più sotto il suo controllo, tutto stava partendo davanti a lui e non gli dava il tempo di comprare il biglietto per il prossimo bastimento.
-Ho avuto un incidente.- mormorò Bill, tossendo – Dopo la festa del Kalende May.
-Che tipo di incidente?- Tom strinse più forte la mano del moro, incapace anche solo di concepire quello che stava accadendo davanti a lui. Si rendeva drammaticamente conto che più ce l’aveva avuto vicino, più l’aveva odiato, ma ora, più ce l’aveva lontano, più l’avrebbe voluto vicino. Non aveva senso, e non voleva capirlo. Ma era esattamente così che si sentiva in quel momento: solo, come non lo era mai stato prima, impotente di fronte a qualcosa che non poteva capire, senza quella figura che costituiva per lui più di quanto oramai era disposto ad ammettere.
-Non importa, Tom. Non importa più, ormai.- Bill lo guardò con l’occhio sano, tenendogli la mano – Sono ben lungi dal morire, pasticcino alla vaniglia.
-Ma … i tuoi occhi … - c’era qualcosa di affascinante nella semi cecità del ragazzo, Tom non voleva ammetterlo ma era così.
Bill non rispose, si limitò a chiudere le palpebre leggermente truccate, posandosi il dorso dell’altra mano sulla fronte pallida e unta.
-Tom, come mai sei venuto solamente adesso?
-Non pensavo mai più che fossi all’ospedale!- tentò di giustificarsi il rasta, grattandosi la guancia.
-Perché non mi hai chiamato?- Bill sospirò rumorosamente – Non una chiamata, un messaggio, un segno. Ho aspettato due settimane, ti rendi conto? Ho aspettato te. Ma non ti sei fatto nemmeno sentire.
Tom tacque, sentendo bollenti lacrime cominciare a scorrergli lungo le guance, grato a Bill che teneva gli occhi ermeticamente chiusi. Si sentiva colpevole, in tutti i sensi. Colpevole più di quanto si fosse mai sentito in  vita sua. C’era un’antipatica vocina che continuava a dirgli che l’incidente l’aveva provocato lui, anche se non riusciva proprio a capire come avesse potuto farlo. Dopo il Kalende May che diavolo era successo? Ma chi diavolo se lo ricordava, era ubriaco, strafatto, a stento si ricordava di esserci andato!
-Senti, pasticcino … ora sono molto stanco.- Bill aprì lentamente gli occhi, quello vivo e quello morto, dando un’ultima stretta alla mano sudata del rasta. – Vorrei riposare un pochino.
-Torno domani. Domani, te lo prometto!- si affrettò a dire Tom, alzandosi e stringendogli spasmodicamente le mani in una morsa concitata – Tutti i giorni fino a che non ti dimetteranno, te lo giuro, Bill, ogni giorno!
Ora, il ragazzo si sarebbe aspettato di tutto. Uno dei suoi meravigliosi sorrisi, un bacino sdolcinato come al solito, una delle sue frasi innamorate che gli rivolgeva spesso e volentieri, anche un “portami un mazzo di rose, rosse mi raccomando!”, una carezza sul viso, pure una crisi da primadonna. Però, non ottenne nulla del genere. No, ottenne solamente un dolce ma autoritario
-No, Tom. Non tornerai domani, e nemmeno i giorni a venire.- Bill guidò gli occhi arrossati sul suo viso sconvolto – Tra noi è finito tutto. Viviti la tua vita, amore. Non posso di certo obbligarti a doverti sobbarcare il peso di visitarmi ogni giorno in questo mortorio.
-Ma Bill, non è un peso, non puoi dire queste cose, sei stordito dai farmaci, cerca di ragionare lucidamente … - si ritrovò a balbettare Tom, vittima di un panico ancestrale così forte da farlo quasi piegare per i conati. – Io sono il tuo ragazzo.
-Non lo sei mai davvero stato.- Bill lasciò qualche lacrima corrergli lungo le guance unte da quelli che dovevano essere rimasugli osceni di fard e di creme – Ti sei reso conto solo ora di quello che pensi di provare per me, ma è tardi, tesoro. E’ finita, e non saprei nemmeno dire se è mai cominciata. Mi hai tradito, non mi hai mai voluto come ti volevo io, ti è sempre interessato solo il sesso, non hai nemmeno provato a vedere come la stavo vivendo io. Facciamo prima a fare così, ognuno è libero, non è giusto da parte mia costringerti ad avere una storia con una persona di cui non te ne frega di niente, che vedi solo come una bella bambola da scopare.
Tom trattenne a stento le lacrime, sentendosi messo in croce da quello che sì, non aveva mai amato, ma che ora cominciava ad apprezzare sopra tutto. Troppo tardi, come al solito. Però non pianse.
-Va bene, lo so, sono stato un vero bastardo, scusami Bill, ti prego, scusami per tutto quello che ti ho fatto, io … non so, ho cambiato idea su di te, e poi quando mai ti avrei tradito?
-Al Kalende May. Hai baciato un’altra persona. Ti ho visto, non puoi negarlo.
L’espressione distrutta del moro fece più male che una stilettata in pieno petto.
-Dio, Bill! Ero ubriaco, strafatto, sragionavo, non puoi incolparmi di aver limonato con qualcuno in quel frangente!
-Anche io ero ubriaco e strafatto, ma mi sono guardato bene dal farmi anche solo toccare da uno che non fossi tu. Non ti è mai importato di me, e anche se ora ti importasse qualcosa, è troppo tardi. Basta, pasticcino. Io e te non avremo più nulla a che fare sul piano sentimentale. Sono stanco, Tom. Troppo stanco. Volevo che mi baciassi in pubblico ma hai sempre preferito tenere tutto nascosto per la faccia che volevi tenere. Volevo che mi tenessi per mano almeno al parco, ma hai sempre preferito conservare l’orgoglio indipendentista. Volevo che mi portassi sullo skate con te, ma hai sempre preferito tirartela da duro. Volevo che mi coccolassi dopo aver fatto sesso, ma hai sempre preferito fare l’uomo senza una briciola di romanticismo.  Preferivi troppe cose al sottoscritto, e io non sono mai stato il tipo da accontentarmi del secondo posto.
-Cristo, Bill, ma che razza di discorso è?!- Tom si alzò di scatto, mollandogli le mani, punto nel suo orgoglio rocker che nessuno avrebbe mai scalfito. O era solo un modo per nascondere la vergogna e la pena che provava per se stesso? – Abbiamo diciotto fottuti anni, dannazione, non puoi pretendere che la nostra fosse la storia di una vita! Posso aver sbagliato, ok, scusami se ti ho trattato come una troia, però è insensato tutto questo. Non siamo perfetti, nessuno lo è, non ti ho mai dovuto sposare, era solo una cosa nata così!
-Ma per me era tutto, Tom. E ora non ho più niente.- Bill lo guardò, gli occhi gonfi come due meloni, la sua madonna in croce.
-Ragazzo, ci sei rimasto anche fin troppo qui dentro. Devi uscire.- la vecchia megera entrò di gran carriera nella stanza, guardando storto i due ragazzi – Il paziente deve riposare.
Tom guardò Bill, guardò il suo corpo martoriato e il suo sguardo distrutto, il suo cuore a pezzi e il suo occhio a schegge, e se ne andò, con quell’orribile immagine negli occhi, ringhiando all’infermiera, prima di scomparire di corsa.
-Non si chiama “Il paziente”. Si chiama Bill.
Davvero, quando lo sentì, Bill scoppiò in lacrime. Sarebbe esploso di gioia, se glielo avesse tempo qualche giorno prima. Ma ora, ora era solo un’ennesima cicatrice che a portare doveva essere il suo animo a brandelli.
 
  
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