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Autore: Ethelweiss    21/04/2009    0 recensioni
La mente di uno psicopatico affetto da una rara malattia: l'ossessione per i colori. Un viaggio che lo condurrà fino al limite della mente umana, affollato da incubi, visioni e orrore. La realtà si dissolve, nemmeno le persone sono più reali. Morte e vita coesistono, e per il nostro protagonista l'una o l'altra non fa alcuna differenza.
Genere: Dark | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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lo spettro del soverchio 1 parte
Non ho intenzione di tentare di convincervi di una mia profonda e piena depressione. Di passare il tempo a elogiare la morte, le rose rosse intrise di sangue, a rimirare il volo dei corvi, di bearmi con lamentose e strazianti melodie.
Ebbene, io ne prendo atto con flemma, con sopita disperazione. Le armi dell'inferno interiore in perenne lotta con i lineamenti di pietra.
Eppure, sono ancora qui. Nessun eroe pronto a salvarmi, nessuna pargoletta mano tesa verso di me, il mondo va avanti, la gente non si trastulla, men che meno si incanta di fronte ad una storia senza morte e senza rimorsi.

Perché, io, proprio io, nulla avevo di cui tormentarmi. Nessuna morte inspiegabile, nessun padre da vendicare, nessuna cattiva strada intrapresa. Una quieto, pacato bisogno di cercare un disegno divino nella mia persona Una strana melodia che incitava alle profondità della terra. Un desiderio folle e morboso di sapere il mio cadavere scarnificato appeso in una dotta università, con milioni e milioni di studenti che mi palpano lo sterno ogni giorno.
La mia stessa esistenza si trascinava lungo una riva sterile, scorrevole come l'oro nero, altrettanto torbido e malsano.
A lungo ho creduto che ciò derivasse da una mia tarda cattiveria, da ciò che mi spingeva a torturare gli esseri più cari, a bastonare cuccioli per bearmi degli uggiolii di dolore, per quella loro tanto apprezzata tenerezza e affettuosità che veniva percossa e sedata sotto il peso del bastone. Presto con tutta me stesso cominciai a desiderare la rissa, le botte, l'adrenalina venosa in tutta la sua dolente concretezza, e il piacere di donarne altrettanto al proprio avversario, talmente inebriante da rendere lo sfondo insipido, sfumato, i suoni attenuati, e l'importante diventava cancellare ogni espressione sul suo viso, storcere la sua bocca in un grido e mischiare le sue lacrime alle proprie. Ogni occasione era propizia, ogni screzio era una Waterloo, ma mai, e dico mai e poi mai mi sarei sognato di provocarne una. Il mio essere tranquillo, ritirato, quasi ascetico, mi preservava da ogni dubbio.
E così scorreva il tempo. Ogni singolo minuto, baco impertinente, scavava furioso la mela della mia mente. A volte scivolava, a volte volava, tentando di incanalizzarmi nel magico disegno, su uno scopo, su un obbiettivo, e puntualmente i miei sporadici intenti venivano dissolti con rabbia e fastidio, le farfalle viventi nel mio io spezzate sullo scoglio dell'inutilità.
Una via portava alla salvezza, una alla dannazione. Ed io. Ed io, cosa feci? Rimirai il bivio, passivo, e mi sedetti al centro. Il nulla. La nube grigia. Le once in perfetto equilibrio, fugato ogni dislivello.
Ciononostante, di tutto si poteva trattare tranne di equilibrio.
Il velo grigio copriva le sagome attorno a me. Le modellava, le lasciava intravedere, era possibile percepirle muoversi, sterili e lontane, ma attraverso il velo ogni carezza, ogni suono e ogni contatto era neve perenne.

Eppure, le mani che sfioravano il mio viso, percepivano calore, sensibilità, amore. Nulla sapevano del tumultuo che imperversava sotto strati di pelle e sangue.
Non volevo vivere, non volevo morire... non volevo, non volevo e basta. La strada lastricata di NO si estendeva davanti a me chiara e sicura, ogni tassello al suo posto, ogni negazione giusta e reale, e l'ultimo gradino saltava nel BLU.
BLU. Il blu era ciò che perseguivo, il blu era ciò di cui mi nutrivo, il blu era niente, il blu non era bianco, né grigio, né nero, il blu era la notte, ma era anche il giorno, erano le profondità vergini dell'oceano, era l'infinito oltre lo specchio davanti al mio letto.
L'eterno blu.
Il BLU entrava e usciva da ogni mio poro, denso, sinuoso, come migliaia di minuscoli serpenti cianotici di una Medusa improbabile. Respiravo BLU. Io ero il BLU.
Mentre mi crogiolavo nella mia unica certezza oltre i dubbi iperbolici, aggrappato ad essa come un naufrago ad un barile, le sagome oltre il velo avevano finalmente intravisto la creatura al di sotto della superficie. D'altronde, la negazione in me era così radicata, che sfoderai l'anticristo del BLU, l'inquieto e vivace LILLA. Lo ostentai, con talento magistrale, lo vomitai leggero e rassicurante su quelle figure indistinte. Ed esse, quali mosche ronzanti di idiozia erano, lo ingoiarono, lo digerirono e me lo gettarono di nuovo addosso.
Fu nel tripudio orgiastico del LILLA, che capii che ormai il BLU aveva preso completamente possesso di me.

La stanza bianca, il mio regno incontrastato, la mia bolla di tediosa ripetizione giornaliera, ammorbata dalle loro voci e dai loro pressanti problemi, le chiacchiere, la tv, il divano, la finestra, il gatto sul tavolino. Il gatto era bianco, come l'intonaco delle pareti. Era così bianco. Una versione sfaccettata dell'intonaco della stanza che si muoveva in tutta casa, come per ricordarmi il mio bunker splendente.
Il gatto bianco gironzolava senza sosta, monito silenzioso, indice puntato sul mio destino a senso unico.
Perché era così bianco, l'ho detto? Era bianco come quella maledetta stanza. Perché? Perché era la stanza stessa incarnata in felino, ennesimo suo disperato tentativo di imprigionarmi per sempre. Avrei perso. Ma, si può forse considerare sconfitta una questione lasciata in sospeso? No. Certo che no. Non mi sono mai vantato di un orgoglio invidiabile, se mai ne ho posseduto. Trovo la codardia un'elegante forma espressiva dell'essere umano, un'interessante reazione perfettamente giustificabile, se non legittima, primo e non ultimo baluardo da sventolare onde mantenersi incolumi.

Fu così, che non appena il gatto bianco posò le sue soffici e mute zampe sui miei piedi, fuggii.

Così.

Non pensai, "fuggirò", ma lo feci, molto semplicemente, fu una sorta di immediata risposta data dalla mia mente. Ed io non pensai nemmeno lontanamente a contraddirla. Perché mai, dopo anni e anni di gabbie circensi e abili truffe, di maschere veneziane e piume, e lustrini, ed enormi, smisurate, sconfinate dosi di LILLA, avrei dovuto sussurarle docili rimproveri, dissuaderla dall'inviare l'impulso al corpo, e ricacciarla nello stanzino buio? No, sarebbe stato troppo coerente, troppo BIANCO, come la stanza, troppo assurdamente di routine!
Ovviamente. O forse no. Non saprei. Non era sicuramente ovvio, ma in un certo senso era ineluttabile, così banale, una ribellione dalla prigionia: che cliché visto e rivisto, che ribellione conformista!!
Eppure, lo pensai e lo feci. Non era premeditato, sicuramente appurato, ma non premeditato.
Sapevo che era l'ultima volta che il mio corpo vivo varcava la soglia di casa. E, non so come, ciò mi diede un'orribile sensazione di sconforto. In un modo o nell'altro, nulla mi avrebbe mai strappato alla ripetizione.

Ripetizione.

Una parola che introduce un'altra sala, un altro tuor guidato della mia mente.

Lo vogliamo percorrere? Vogliamo aprire la porta della stanza bianca, spiarvi all'interno e bearci dell'arredo, e oh che mobili raffinati, oh l'illuminazione è quella giusta, è difficile ormai oggi trovare un punto in cui il sole batta estate ed inverno, e oh, guarda, ha una piccole collezione di adorabili cherubini in porcellana? Lo vogliamo?

Certamente. Prego, prego, non spingete, per favore spegnete i cellulari e consegnate le macchine fotografiche alla reception. Da questa parte, state tranquilli se è buio ed il soffitto è così basso. è perfettamente normale. Perfettamente, perfettamente, perfettamente normale.

Ripetizione, ripetizione, ripetizione.
Alzarsi, la mattina. Infila la vestaglia verde. Non guardarti MAI allo specchio, non prima di aver raggiunto il bagno. Ignora lo specchio di fronte al letto, è orribile, è maligno, ti vuole succhiare l'anima. Corri, infilati le mani dentro il pigiama, è caldo e sa di sonno. Le calze infilate sopra il pigiama, sono larghe, cadono floscie. Il bagno, il bagno. Spalanca la porta, tira su la tavoletta, prova a pisciare. Cosa? Brucia? Fa male? E poi: perché? Hai forse bevuto o mangiato qualcosa la sera prima? No. Perché allora te ne stai li a fissare la tavoletta? Che ci dovresti schizzare? Niente. Ma provarci non costa nulla, no? Riabbassala, cazzo, fa pure schifo. Bravissimo. Allora, infilati la fascia, infila la retina. I capelli non si vedono più. Il sapone, il sapone, dov'è? Apri l'acqua. Ecco che comincia a scorrere lungo gli avambracci, si infila sotto il pigiama, cerca di aggrapparsi alle sue fibre acriliche, non ci riesce, stagna. Ok, il viso è pulito. E ora? Ora lo spazzolino. No, non quello dal manico largo, quello ti serve per vomitare. Prendi quello blu, quello sottile, è il tuo, e ci lavi solo i denti.
Strofina bene. Il giallo non se ne andrà comunque, lo sai, no? Ma, si, insomma, provare non costa nulla, vero? Giusto.
Presto, torna in camera. La matita nera. Passatela sugli occhi, dentro fuori e poi dentro fuori e fuori e dentro, fino a che non cola sugli zigomi, e occorre poi sfregarli con le salviette alle rose, e la pelle è già così irritata, e brucia, e ma chi se ne frega, spalma l'idratante.
I vestiti sono lì, sul letto, li hai preparati la sera prima, come tutte le volte. Sono freddi e puzzano di brina.
Tinta unita. Rigorosamente. I jeans sono stretti. Sono molto stretti. Tira su i boxer, più su, più su, fino a che solleticano le tue costole. Ora puoi infilare il maglioncino acrilico in tinta unita, nero. Infila il giacchetto, spruzzati borotalco sul petto come acqua su un cactus.
Corri fuori, il bus, il bus, il bus partirà senza di te, no, lo puoi sentire, è un camion, è solo un camion.
Quanti passi hai fatto? Venti? Novanta? Dieci? Torna a casa, vai a prendere il contapassi. Esci di nuovo.

In realtà, a cosa ti serve il bus? Devi contare, no? Cosa conti sopra ad un bus? Le fermate? Niente. Ma provarci non costa nulla, eh?
Chiudi gli occhi. Forse la bellissima verrà, stamattina. Forse Oro Nero ci sarà. Forse mi vedrà.
Ma non giunge. Non giunge. è reclusa, mia stella, mia vinta, colei che sbroglierà la matassa del mio aggrovigliato pensiero.

Oro Nero è giunta molto,tanto, troppo tempo fa. Quanto, anni, mesi? Non lo so. Non mi interessa. Dovrebbe interessarmi una noiosa invenzione umana, scandire i momenti vitali? Il baco nella mia mente alza il capo, fa si, si, certo ci vuole ordine, certo ci vuole metodo. No, mio sagace lombrico, non qui. Perché qui, qui resiede l'infinito negativo. Zitto, e ascolta.

La pelle sfumata di grigio, e d'un giallo notevole (GIALLO! GIALLO!GIALLO! AH AH!), i piccoli occhietti scuri cerchiati di viola (VIOLA LILLA LILLA VIOLA! CAPITE?), il nero ratto dei capelli. Tutto faceva presupporre ad un segno inviatomi dal destino. Il giallo, il giallo dell'oppressione, del forno acceso, delle banane, le banane, e dei pomeriggi di dolore, i pomeriggi in cui dalla finestra dell'ospedale potevi sentire le macchine durante le ferie estive, due macchine sole però, non di più. Quando le auto scorrevano cancellavano l'ambiente per un secondo, WOOOOSH, e portavano via anche la consapevolezza delle mille appendici crescenti dal tronco in giù. Non gridavo già quasi più.
Viola viola! Le ecchimosi violacee altro non erano che il LILLA concretizzatosi sulla mano del genitore, traspirante da ogni poro, e rigurgitato sul volto deturpato della figlia. Ed il nero. Ah, il nero. Il nero... l'oro nero... il mio fiume lento, viscido, paludoso...

Così minuscola...

Era una donna che la strattonava. Il corpicino rigido, immobile, il black gold che sventolava sulle sue spalle.
Gli occhi si stringevano, a mandorla, in una smorfia di muto odio. La donna le mollò un ceffone sul capino. La sua espressione non mutò, i suoi occhi rimasero asciutti, si chinò a terra e afferrò una foglia morta. Mentre la donna continuava ad inveire contro di lei, Amore sminuzzò la foglia in tante piccole parti, finché lo scheletro arboreo non affiorò. Poi, appallottolò il rimanente nel pugnetto e strinse con tutte le sue forze.
Era la Stanza Bianca. Oro Nero era chiusa nella Stanza Bianca. Ed io con lei. E lei con me. Due stanze simmetriche, identiche, stomaci di giganti per piccoli sarti quali noi eravamo.
Oro Nero fu percossa sul selciato da suo padre. Una mappa di segni rossi dipingeva il suo corpicino giallo attraverso il vestitino.

Giocava pesante, suo padre. Il poker dai cinesi era ogni giovedì sera. Notte dopo notte, nel mio letto, ascoltavo le incomprensibili conversazioni sotto la finestra, eccitate, deluse, arrabbiate, ogni emozione filtrata non attraverso il linguaggio ma tramite lo strumento più semplice, la voce.

Lei suonava, sugli scalini di casa. Ogni strepito dei giocatori era coperto dallo xilophono di Oro Nero.
"WAAAAHAHA! NU HI HAO!" plin. Plin plin. Ploon.
"NE KI KI? EHEEEEEEE" plin plon plin plen ding ding.
Era mio. Lo avevo scaraventato giù dalla Stanza Bianca, per colpirla, o forse non so, per salvarla. Era lì sotto. Mi ha visto. Mi ha fissato, o no, oh, non saprei, i suoi occhi erano così piccoli e scuri da poter benissimo essere scambiati per quelli di un ermellino impagliato.
Ma, così fu, perché fu così, ne sono convinto con ogni fibra del mio essere, che aprì la porta. Ed io la mia. Per un istante, per sempre, per lo xilophono che giaceva ai suoi piedi come una bomba inesplosa, spalancammo le porte.
Lo xilophono, vomitato fuori dalla mia Stanza Bianca, entrava nella sua. Fu come un patto di sangue, o qualcosa del genere.

La aspettai a lungo, fuori da casa sua. La aspettai ogni giorno dopo scuola. Volevo ancora riaprire le porte. Continuai ad aspettarla per molto, molto, molto tempo. Tutti i pomeriggi, sul selciato dove aveva raccolto la foglia d'acero.

Continuai ad aspettarla anche molto tempo dopo che la polizia se n'era andata, e aveva smesso di indagare oltre.
Però, se cercate bene, sotto la casa dei cinesi, proprio lì, dietro il muro, sotto al gancio di ferro, è rimasto un pò del suo black gold.
C'è l'odore del fiume nero. Mmm. Se volete sapere come la penso, fu qualche LILLA di troppo. Il GIALLO era troppo debole per respingere il suo attacco. è così. è morta soffocata dal LILLA, ve lo dico io.

E lo xilophono morì. Oh, me ne presi cura, e anche tanta! Cercai di riaccoglierlo nel suo luogo d'origine, ma c'era troppo di lei, troppo, troppo materiale dalla SUA Stanza Bianca per poter di nuovo entrare nella mia. Lo lasciai nella terra di nessuno.

La ripetizione mi travolse nuovamente.
  
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