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Autore: nettie    13/07/2016    0 recensioni
Il grande cartello rosso portava in stampatello grandi lettere in maiuscolo che recitavano “VENDESI”.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
- Questa storia fa parte della serie 'Storie brevi scritte in un lasso di tempo breve. '
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[ !!! racconto totalmente ispirato al brano "Vendo Casa" di Lucio Battisti !!! ]


VENDO CASA


“Il dolore va condiviso”, e lui lo sapeva. Lo sapeva e voleva provare a condividere il suo dolore con quello degli altri, per sentirsi meno solo o magari alleviare quel perpetuo senso di stanchezza e delusione. Lo sapeva e voleva provare, ma non riusciva mai. Era un dolore intimo, il suo, troppo intimo per essere sbandierato ai quattro venti, troppo particolare per essere messo in ridicolo davanti tutto il mondo… un mondo che di certo non avrebbe capito.

 

S’era lasciato andare, durante quegli ultimi mesi. Non lo si vedeva in giro da un bel po’ di tempo, in verità. Giù al bar, dove era solito andare, era più viva che mai la sua assenza, la sua voce, i suoi boccali di birra. Sul posto di lavoro non si presentava più: con che coraggio nessuno lo sa. “S’è licenziato”, si vociferava giù in borgata, fra una voce di corridoio e l’altra. Ogni tanto capitava di passare davanti casa sua per un motivo o per un altro,  e quest’ultima sembrava lo specchio delle sue condizioni così precarie. Da fuori non appariva bella come mesi prima. L’erba era alta, folta, il melo nel giardino non aveva proprio un bell’aspetto. E lui, dentro casa, con le tapparelle serrate e un gran dolore nel cuore. Ma chi l’avrebbe mai potuto sospettare?

 

La madre ogni tanto gli faceva visita: gli portava la spesa, andava a scambiare qualche parola, tentava di farlo uscire alla luce del sole. “Mio figlio sta passando un brutto periodo.”, diceva ogni qualvolta le venisse chiesto del tanto adorato figlio.  Lui, alla faccia di tutti, dentro la sua piccola casa ricostruiva con la mente ricordi e sensazioni: due labbra da baciare, una mano dalle lunghe dita affusolate per carezzarlo, due fianchi da stringere, due occhi nei quali perdersi per poi ritrovarsi. L’interno della casa era malmesso: mancava il tocco di una donna, proprio quella donna che nel bel mezzo di una relazione in fiore aveva deciso di andarsene in cerca d’altra fortuna. Dentro il piccolo edificio tutto era coperto da un sottile strato di polvere, come se quest’ultima volesse proteggere ricordi che andavano via sbiadendo col tempo. E il proprietario di casa, proprio come se la polvere avesse potuto proteggere sensazioni antiche, la faceva stagnare lì sentendosi al sicuro. In cucina c’erano pentole, piatti e posate sparsi ovunque: un po’ nel lavandino, sul tavolo, in un cassetto da chiudere o dimenticati ancora sui fornelli. Il pavimento non vedeva acqua e sapone da non si sa quanto tempo, ma a lui andava bene così: quel tipo di cose non le sapeva fare, e non voleva imparare. Il telefono fisso, che era su un tavolino all’ingresso, contava più di trenta chiamate perse e troppi messaggi in segreteria da ascoltare. Però raccontava anche lui di telefonate ad una preziosa donna che non ricevettero mai risposta, malgrado tutti gli inutili tentativi del padrone di casa. La porta d’ingresso narrava di amici e parenti che si presentavano un giorno sì e un giorno no dietro la sua soglia; amici e parenti che ogni volta venivano scacciati bruscamente con parole poco gentili. “Lasciatemi in pace!”, e la porta veniva sbattuta in faccia a quelle povere anime che offrivano solo un po’ di misero aiuto. Nella stanza da letto l’aria era carica di malinconia, le coperte sfatte e le lenzuola miseramente tirate da un lato, stropicciate e profumate di angoscia. Sul cuscino c’era ancora il segno una scia di pianto non totalmente asciutta; né la prima e neanche l’ultima. Ogni notte, lui si stendeva su quel letto malconcio e lasciava che le lacrime scorressero libere sul suo viso: percorrevano le guance fino ad inumidire la barba lunga e malcurata. Non sapeva da quanto tempo non la rasasse: la aveva lunga però, dopo tempo la aveva finalmente lunga proprio come sarebbe piaciuto a lei … ma lei non c’era. Quando quel pensiero gli balenava in mente ricordandogli l’assenza dell’amata, avrebbe preferito morire pur di patire quel dolore così fitto al centro del petto, ché lo lasciava senza fiato e senza lacrime in corpo. Tentava inutilmente di non farci caso: si rigirava più e più volte fra le coperte, le stringeva fra le mani fino a strapparne i fili, serrava i pugni e chiudeva gli occhi nella speranza di bloccare quel fiume in piena che era il suo pianto. Cercava ancora qualcosa che lo rimandasse a lei, ma di lei non era rimasto più niente. La rassegnazione tentava di prendergli la mano, ed ogni volta lui fuggiva sfoggiando una forza degna d’un leone. Ogni volta, però, era sempre un po’ più difficile correre via dalla realtà per rifugiarsi in quel mondo di sogni ed illusioni che lo ospitava, al riparo dalle insicurezze e dal dolore. In cuor suo sapeva che un giorno non avrebbe più potuto scappare via dalla vita di tutti i giorni: questa era già alla sua ricerca per prenderlo ed inghiottirlo. Tentare di sottrarsi al destino? Del tutto inutile.

 

L’amore uccide, eppure a molta gente questo pensiero rimane difficile da metabolizzare. Non ci pensano; nessuno ci pensa, “cogli l’attimo” e ti butti a capofitto in una relazione senza futuro. E’ come gettarsi in un burrone sperando d’atterrare su un morbido ed accogliente strato di lana e cotone. Come è mai possibile?

 

Lui, era uno di quelli che non lo aveva ancora capito. Gironzolava in quella casa isolata vestito solo di biancheria, poco importava il freddo che gli faceva accapponare la pelle: lui era alla ricerca della sua amata. Il mondo esterno, ormai, era un lontano ricordo che lo spaventava. Quando la madre andava ad invadere il suo piccolo castello di finte speranze e rimasugli di ricordi, lo costringeva ad abbandonare tutto quello che aveva costruito con la sua mente. Con la barba ancora lunga e gli occhi infossati, indossava un sorriso palesemente falso e varcava la soglia della porta d’ingresso: la stessa soglia che varcò anche lei più e più volte … l’ultima per non tornare mai più. Era difficile, era doloroso: pensava di non riuscirci. Era tornato bambino. Si bloccava ad un passo di troppo, e gli occhi gli si riempivano nuovamente di dolore. “Su, non lasciarti andare!”, lo incitava così la madre, ma non capiva né avrebbe mai potuto capire. Per le strade si sentiva un pesce fuor d’acqua, con tutta quella gente che scrutava i suoi occhi stanchi cercando di farsi affari non propri, gente che voleva guardare come un fastidioso gufo e gente che non apprezzava.

 

Iniziò il declino del declino: si sentiva bene solo nel suo pianto, in quel letto sconcio, dove immaginava la sua amata perduta dormire d’un dolce riposo. Immaginava tutto in ogni singolo dettaglio, e lo faceva così bene che a volte gli sembrava reale. Quando allungando la mano lo accoglieva il nulla, cadeva dalle nuvole e sbatteva violentemente la testa sul suolo terrestre. Non era piacevole. Immaginando, però, riusciva ad ingannare la depressione e tutta la malinconia che gli invadeva il petto; i polmoni; lo stomaco; tutto, fino a fargli venire una nausea insopportabile della quale non riusciva a liberarsi. Così la immaginava con i capelli lunghi che le cadevano sulle spalle, mossi boccoli color miele che per tanto tempo amò carezzare, i fianchi ed i seni generosi che solo pochi mesi prima s’era ritrovato fra le mani, quelle labbra rosee e gli occhi scuri nei quali si specchiava per vedere un uomo migliore di quel che era. Più il profumo che rimaneva di lei abbandonava le mura della casa, più forte lui la immaginava ancora lì in sua compagnia, e più forte il suo cuore doleva e si straziava, più lui lo ignorava continuando a pensare per sé.

 

Così giorni trascorrevano lenti ed immersi nel tedio: lui era passato sulla bocca di tutti, la sua improvvisa scomparsa aveva sfiorato le labbra dell’intero borgo, aveva insaporito le bocche di molti, ma la vita va avanti e così sono andati avanti anche coloro la quale lingua pronunciò il nome del martire d’amore.  

 

La gente si destò dalla solita monotonia solo quando apparve un insolito cartello appeso alla recinzione della casa con il melo da potare, proprio quella casa abitata da quel simpatico uomo, e si sospirava fra la folla: “chissà che fine ha fatto!”. Il grande cartello rosso portava in stampatello grandi lettere in maiuscolo che recitavano “VENDESI”. Fu un colpo al cuore per tutti, ma nessuno osò chiedersi niente. Nessuno osò chiedere niente alla madre del proprietario di casa, che con la sua gonna a fiori s’aggirava quasi ogni giorno fra le larghe strade del solito mercato di borgata. Nessuno chiese niente per timore - timore non si sa di cosa: timore d’un lutto, timore d’una brutta storia, timore di un qualcosa che per nessuna ragione al mondo doveva vedere la luce del sole né toccare le malevoli lingue dei passanti.

 

“VENDESI”.


Il cartello malvisto scomparve così come era arrivato, nel bel mezzo del nulla in una giornata monotona, e non si seppe più nulla dell’uomo che prima abitava quella casa. Il melo venne potato e curato, l’erba venne tagliata e venne dato un nuovo strato di vernice alle pareti esterne. Molto probabilmente, l’interno del piccolo villino venne rimesso a nuovo, pronto per accogliere forse una nascente famiglia - gente aspirante alla felicità. Insomma, roba che non faceva per il vecchio proprietario. L’uomo, il suo dolore e le sue lacrime abbandonarono la dimora del loro pianto, forse partendo verso mete lontane o spostandosi qualche casa più in là... e tutto il resto è storia.
   
 
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