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Autore: altrove con un filo di voce    21/04/2009    1 recensioni
Un racconto al buio
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Allora: una due tre quattro spanne, dall'angolo subito a destra dello spigolo stanto seduta con le spalle al muro. Avevo imparato a muovermi nell'oscurità della mia stanza come se non l'avessi mai guardata. Non conservavo nella testa immagini di quel luogo ma soltanto distanze più o meno precise, tre spanne da qui, quattro passi da là, conta fino a tre e c'è la tazza del water, striscia quattro palmi avanti e c'è la porta della cella, conta con le dita le scanalature del muro e c'è la fessura degli insetti. Al buio quel luogo era diventato un costellarsi di sensazioni tattili, dettagli che certamente non avrei notato se mi avessero lasciato la luce accesa o una fessura da cui guardare fuori. Quando c'era una fessura, una soltanto, c'era solo quella. Le giornate erano perse a guardare uno spicchio di luce gialla nei momenti di sole e una macchia opaca nelle giornate nuvolose. Da quella lunetta entravano rumori, odori, vibrazioni. Era impossibile sapere cosa c'era qui dentro e apprezzarlo fintanto che mi ricordavo che là fuori c'era ancora il mondo. Quando ottenni il buio iniziò la mia avventura, il mio rincorrere scritte incise da altri, cercarne il senso, percepirne l'inizio e la fine. Gi. O. Rno. Scandisco senza voce le parole che distinguo con le dita. Qualcuno parla della sua giornata o conta i giorni o racconta cosa gli era successo un giorno, tempo prima, anni prima della sua reclusione. Una volta, sulla parete accanto al cubo di cemento che fa da giaciglio, un uomo raccontava del perchè fosse finito li dentro. Le dita, le unghi hanno distinto il nome, la data, certi pensieri libidinosi e si erano fermate. Quando si erano fermate ho capito che li iniziava il perchè della sua permanenza qui. Quel perchè a me non interessa mai, non interesa perchè quello è un perchè del mondo, un motivo del perchè le persone fanno quello che fanno, uno spunto delle conseguenze delle azioni, del peso dei gesti e dello spessore delle vite. Se avessi voluto quello non avrei cercato l'ombra.
Il cibo mi arrivava la notte da un piccolo buco in un muro, una feritoia piccola. Sentivo che arrivava il cibo per lo stridio del piatto contro i mattoni ruvidi dell'imboccatura. Sentivo il raschio, non il rumore, per la verità. Con il pane avevo creato dei tappi per le orecchie, non volevo che altre persone disturbassero il mio riposo così come la mia veglia. Certi altri ospiti di quel luogo magari, persone che volessero manifestare il loro dissenso, prendere a pugni i muri o le sbarre. Mangiavo in silenzio e distrattamente, non serbavo curiosità per il sapore del cibo nè attesa per quel momento. Finito il piatto mi pulivo le mani nella maglia e poi spingevo il piatto nella fessura tra i mattoni. Mi premuravo di spingerlo fino dall'altra parte per evitare che mi venisse a mancare l'unica presa d'aria della cella. Si stava bene lì dentro. Nessuna entrata, nessuna uscita, nessun posto che raccontasse che c'era un fuori a parte quel filo di sostentamento necessario alla mia enorme pace.
La fine di questa pace arrivò un giorno in cui stavo leggendo gli spigoli di un mattone scalfito. Una vibrazione percorse la stanza e poi ancora un'altra. fino a che i mattoni che chiudevano la porta non furono rimossi. Le mie orecchie non erano use ai suoni dell'uomo. Mi sembravano soltanto dei versi ovattati, dei versi non dissimili da quelli del rivoltarsi delle budella. La luce era intensa, mi ci volle parecchio tempo per riabituarmici, i rumori erano lontani, nessuno intuì che le mie orecchie erano tappate e non desideravano in alcun modo essere stappate. Pensarono semplicemente che io avessi perso la ragione o l'abitudine agli altri umani. La mia calma ancora era intatta. I miei occhi erano chiusi e le mie orecchie tappate, le mie dita continuavano ad esplorare il mondo. Il mondo dell'uomo si presentava vario e pieno di fessure e rilievi affascinanti. Lungi da ogni parole non potevano addentarmi con le ragioni del mondo, al contrario di come pensavo. Nessuno potè leggermi o mosrarmi un giornale, raccontarmi che era successo in quel tempo incalcolabile. Nessuna età mi poteva essere attribuita, nessun invecchiamento, nessun abbruttimento, nessuna schiena curva, pelle marcia, denti rotti, volontà aliena.
Dopo questa deliziosa scoperta mi addormentai. Non c'era in me timore che quella mia pace, così lungamente cosituita potesse essermi strappata.
Non indugerò oltre nel mio raccontare, riferirò solo del risveglio in cui aprii gli occhi. Non pensavo nemmeno più di aprirli o di poterli aprire. Credevo ormai fosser abituati a restare chiusi ed invece ad ogni risveglio si aprivano. Questo mi fece intuire come forse cercassero la luce ad ogni mio risveglio, al di là di ogni mia speranza di serenità. Traditori dell'oblio cercavano ricordi, volevano colore, luce, erano affamati di ricordo. Furono loro a guidare le mani fino alle orecchie ed a stapparle. Sempre loro mi portarono a guidarmi davani ad uno specchio per rendere partecipe, la mia ombra codarda, che ero morta in quella cella e non cercavo ragioni dal mondo perchè nessuna sensata ragione aveva addotto il mondo per rinchiudermi a vita.

Nessuna forza maggiore, nessun vile governo,
solo il mio desiderio selvaggio di precludermi l'esterno.
  
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