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Autore: r_clarisse    16/07/2016    1 recensioni
Africa, 148.000 aC.
Due ragazzi innamorati, David e Steven, contemplano la bellezza del loro nuovo mondo dopo quattro anni di esodo nella Flotta Coloniale.
Il loro viaggio è terminato e ricominceranno da capo, a partire da quel momento, insieme.
David racconta in prima persona la loro storia, la loro vita insieme nelle Dodici Colonie e la corsa disperata per la sopravvivenza dopo la loro distruzione per mano dei Cyloni.
Non ha la pretesa di essere un grande racconto, ne un'opera di fantascienza, ma spero possa far trasparire in qualche modo quella che è la semplicità dell'amore che può unire due persone, attraverso lo spazio e il tempo.
"Eravamo finalmente a casa, la nostra nuova casa, e non dovevamo più scappare.
Certo, avremmo dovuto ricominciare da zero in un nuovo mondo, ma questo non mi spaventava; non mi spaventava la mancanza di cibo, il doverci arrangiare, il costruire tutto da capo.
Dopo quello che avevamo passato sarebbe stato sciocco preoccuparsi per il futuro.
Sapevo che ce l’avremmo fatta."
Genere: Drammatico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Quasi Tutti
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 9 - Correnti

9.1-“Baby sitter irresponsabili e venti prepotenti”
Questa mattina, mentre i bambini giocavano a rincorrersi nel prato vicino all’accampamento, la piccola Rory Mayfair mi si è avvicinata con un piccolo legnetto in mano; io me ne stavo seduto  in riva al fiume aspettando che Steven mi raggiungesse, ma chissà per quale motivo tardava.
Le ho dato il benvenuto sorridendole non appena dopo averla vista, e lei ha orgogliosamente esibito il suo legnetto bruciacchiato ondeggiandolo qua e là con la mano.
“Sai dove l’ho trovato, David?” Ha chiesto con aria imperiosa e tronfia.
“Dove?”
“Sotto l’alberone… quello che è stato colpito dal fulmine!” Ed ha sgranato gli occhi.
Un fulmine era caduto su quell’albero due settimane fa durante un forte temporale, spaventandoci tutti a morte con il suo tagliente boato.
“Ne sarai fiera, giusto?” Le ho chiesto io sorridendo di nuovo.
“Certo! Il mio papà ha rischiato la vita per spegnere il fuoco quel giorno!”
Tutti noi ci eravamo adoperati per spegnere l’incendio causato da quella scarica; fortunatamente, la pioggia ci aveva dato una bella mano.
Rory si è seduta accanto a me e mi ha poi guardato nuovamente con aria interrogativa.
“Tu hai mai rischiato la vita?” Mi ha chiesto con tutta l’ingenuità che una bambina di nove anni può avere.
“Certo… tutti quanti qui l’abbiamo rischiata, anche tu piccola.”
Nei quattro anni di esodo in cui i Cyloni ci avevano dato la caccia braccandoci tra le stelle, ogni singolo essere umano a bordo delle astronavi della flotta superstite aveva rischiato di morire.
“Forse così tante volte che non le conto più.”
“Oh…” Ha sgranato di nuovo gli occhi.
“Ma in verità…” Ho alzato lo sguardo e riportato alla memoria un fatto del mimo passato.
“Sai quando mi è capitato per la prima volta di rischiare di morire?” Lei ora mi guardava interessata, nonostante la morte non sia in genere un argomento di cui si parla ai bambini.
“No! Quando?”
“Beh…ricordo che quando avevo sei anni quando mi accadde per la prima volta, o quanto meno ci andai molto vicino” Ho iniziato il mio racconto.
Ovviamente non sapevo che poi avrei rischiato di morire centinaia di volte a causa del ritorno dei Cyloni, ma questo è un altro discorso.
Avevo solo sei anni e conducevo la mia vita in tutta tranquillità insieme a Jennifer nella nostra villetta circondata dalla staccionata bianca, ingrigita dallo smog, nel piccolo sobborgo Canceroniano di Eneris.
Accadde in un pomeriggio di primavera, attorno alle 14:05 se non sbaglio; per tutta la mattina c’era stato un sole abbagliante che sembrava spaccare le pietre, e io avevo giocato sulla veranda con le bolle di sapone, meravigliandomi della loro trasparenza e della loro consistenza solo apparente che svaniva al tocco.
Non appena dopo pranzo la situazione cambiò in modo tanto frenetico da non farcene rendere nemmeno conto –del resto, avevo solo sei anni, cosa potevo capirne allora del pericolo? -.
Jennifer era scappata di corsa in banca a lavorare, e mi aveva lasciato in compagnia di Mary, la figlia della signora Shoenfender, la vicina di casa, che mi curava tre pomeriggi a settimana –senza troppo impegno direi, dato che ero un angelo tranquillo, in genere- in cambio di cinque cubiti l’ora.
Avevamo pranzato noi due da soli con un omelette al prosciutto e al formaggio preparate da Jennifer qualche ora prima di uscire. Stavamo ancora mangiando quando Mary dovette alzarsi di corsa per chiudere la finestra della cucina perché il vento si era alzato improvvisamente a tal punto da farne sbattere le ante.
“Frak!...Cioè…accidenti!” Si corresse immediatamente guardandomi.
“Cosa significa Frak?” Chiesi innocentemente non sapendo si trattasse dell’imprecazione più diffusa sulle Dodici Colonie.
“Ehm significa…” Tentennò Mary riprendendo in mano la forchetta.
“Beh, non ha importanza.” Rise.
Feci spallucce e ripresi a mangiare; Mary si voltò verso le tende bianche della finestra, notando che la luce all’esterno andava progressivamente diminuendo, come se una nuvola piuttosto spessa avesse coperto il sole, ed era proprio così: il cielo diventò nero in pochi secondi e il vento incominciò a guadagnare potenza, tant’è che dalla mia sedia potevo vedere le fronde verdi degli alberi piegarsi e dimenarsi avanti e indietro come alghe marine immerse nell’acqua.
Mary mi spedì a lavarmi i denti, ma senza accompagnarmi; lei si sedette in modo poco composto ed accese la televisione, pensando di farmi guardare un cartone animato o simili.
Appena cinque minuti dopo aver acceso la tv, il cartone animato che stavamo vedendo –in cui un bambino fatto di foglie veniva bruciato da un altro fatto di legno, molto strano- venne interrotto da un’edizione straordinaria del notiziario pomeridiano, in cui una donna con i capelli ricci scuri e con un tailleur beige avvertiva che era stato diramato nella nostra zona un allarme tornado.
“Se non avete un rifugio o un riparo piazzatevi nel centro della casa!” diceva.
“Oh dei!” Esclamò Mary; udimmo le sirene risuonare all’esterno ed in quel momento la quindicenne bionda, colta dal panico dovuto alla minaccia appena annunciata, gridò con forza
“Presto! Usciamo di qui!” e si diresse verso la porta indicandomi di seguirla; fece per aprirla e nello stesso istante in cui poggiò la mano sulla maniglia la porta si spalancò sbattendo contro la parete, spinta dalla forza dell’aria che stava dietro. Foglie e legnetti iniziarono ad entrare in casa, mentre Mary corse fuori non rendendosi conto di avermi lasciato indietro.
Io ero attonito, ancora dietro la porta, piccolo e con aria interrogativa, e la vedevo sparire tra i cespugli del giardino animati dalle raffiche: non avrebbe avuto molto più senso scappare in cantina invece che uscire all’esterno nel mezzo di una tempesta? E dove pensava di andare quella? Ero piccolo e innocente, ma avevo ragionato in modo più logico di lei, di nove anni più grande di me.
“David sbrigati!!!!” La sentì gridare un’ultima volta, prima che il rumore assordante di quello che stava accadendo fuori sovrastasse tutto. Avrei scoperto appena un’ora dopo che Mary era fuggita in casa propria  scampando alla catastrofe, per fortuna,  senza farsi un graffio. Quello sarebbe stato l’ultimo pomeriggio in cui mi curava, logicamente.
Decisi di doverla seguire ovunque fosse andata e così, piccolo ed esploratore, uscì di casa e mi avventurai a fatica per il vialetto –dopo aver chiuso la porta, Jennifer non avrebbe gradito un salotto pieno di foglie!- mentre l’aria sembrava aver assunto la consistenza di un muro di gomma che lottava per spingermi a terra ad ogni passo.
Il mio caschetto di capelli castani scuri era spettinato dalla brezza ciclonica e stava in piedi come se fosse impregnato di gel; non avevo paura, anzi, era quasi divertente!
Non mi rendevo conto del rischio che stavo correndo in quegli istanti.
Una manciata di tegole si staccò dal tetto per cadere ad appena due passi dietro di me –inutile dire che se mi fossero cascate addosso mi avrebbero ucciso sul colpo- mentre dieci metri di fronte a me, vicino alla staccionata –oscillante- vedevo il mio vecchio triciclo giallo e blu rotolare a destra, verso la casa di Mary.
Alzai ora lo sguardo: il cielo sembrava sbuffare nelle gorgoglianti nubi nere e grigiastre che urlavano e si contorcevano sopra di noi, e i pochi uccelli in volo apparivano terribilmente disorientati.
Il rumore era adesso assordante e proveniva da sinistra, così mi voltai e vidi l’inquietante figura che stava causando quel trambusto: la nube scura e imbutiforme del tornado infuriava prepotente e minacciosa sullo sfondo del dipinto che stavo vivendo in quell’istante, circondata da detriti che fluttuavano in un moto vorticoso e venivano scagliati in diverse direzioni a terra.
In realtà, il tornado non era ancora entrato nella nostra città, ma essendo la nostra casa in quartiere periferico di Eneris –ed essendo quella una tempesta di dimensioni notevoli- riuscivo a vederlo quasi come se fosse vicino, e la sua potenza era chiaramente percepibile da dove mi trovavo. Nei giorni a venire avremmo saputo che quel tornado era stato visto fin dai tetti dei grattacieli della capitale, a trenta chilometri di distanza.
Ero pietrificato; non capivo se si stesse muovendo verso di me o se si stesse allontando (in realtà si stava davvero avvicinando pericolosamente) e rimasi immobile, incurante della precarietà della mia situazione e bloccato in quel punto del vialetto, in mezzo alle povere rose che si dimenavano disperate. Attorno a me, pezzi di legno, bidoni della spazzatura e altre cose rotolavano ovunque, mancandomi miracolosamente.
Udì lo stridio di quattro pneumatici contro l’asfalto.
DAVID!!!” Gridò Jennifer con una forza che non le avevo mai sentito prima in corpo; aveva preso la macchina ed era venuta a casa più velocemente che poteva non appena le sirene avevano iniziato a suonare. La vedevo correre verso di me, con la gonna come una bandiera al vento e i capelli proiettati verso sinistra; mi afferrò letteralmente e mi trascinò in casa, lasciando l’auto in strada in preda a se stessa e al tornado.
Sbattè la porta e corse dietro al divano per chiudere le imposte della finestra grande della sala.
“Dov’è Mary? Dov’è??” Mi chiese mentre si precipitava al piano di sopra per fare la medesima cosa alle finestre rivolte verso la tempesta, per evitare che il vento distruttivo entrasse e disastrasse tutto.
“Non lo so!” Risposi, mentre lei tornava correndo al pian terreno
“Oh, Frak sta arrivando!” Imprecò guardando dalla finestra del bagno prima di serrarla: lo vidi anch’io, ed ora mi sembrava davvero spaventoso, visto accanto alle piastrelle rosa a fiori della doccia; lo vidi travolgere la palazzina di cemento e acciaio grigio che stava a duecento metri da noi, la palazzina che guardavo ogni mattina mentre mi lavavo i denti.
Quella si sbriciolò letteralmente come fosse fatta di cartone e i suoi pezzi volarono nell’aria in tutte le direzioni.
“Presto va di sotto David! In cantina, corri!!!” Gridò lei spaventatissima. Ubbidì e mi buttai letteralmente giù per le scale di marmo bianco lucidate due giorni prima: la nostra cantina assomigliava ad un appartamento per com’era arredata e tenuta; articolata in diverse stanze, piena di lampade dalla luce famigliare ed accogliente, tappeti, divani, mensole con quadretti, tende rosate appese alle pareti… insomma nonostante non ci fossero spesso tempeste come quella, Jennifer voleva assicurarsi di avere un posto in cui stare se qualcosa fosse andato storto.
Ci sedemmo sul divanetto nell’angolo della lavanderia e rimanemmo in silenzio mentre il chiasso là fuori si faceva sempre più minaccioso.
“E’ qui fuori ormai…” Disse lei mentre io giocherellavo con un peluche di un orsetto bianco con il muso nero che avevo lasciato in cantina durante uno dei miei momenti di gioco.
Era così ospitale quel nostro seminterrato: Jennifer lo teneva in perfetto ordine –così come i due piani di sopra- ed avevo un mio personale angolo dei giochi con un tappeto e diversi pupazzi.
Un terribile rumore seguito da un esplosione e vari pezzi di oggetti che cadevano –e picchiavano contro le pareti di casa nostra- ci fece sobbalzare dai cuscini su cui poggiavamo e ci fece guardare verso il soffitto; cosa poteva essere stato? Probabilmente il tornado aveva scaraventato qualcosa di grosso e pesante vicino a noi.
“Spero che la casa resti in piedi, miei dei… oh miei dei…” Si tormentava Jennifer adesso che il pericolo sembrava più vicino.
Aveva fatto riverniciare le pareti esterne della casa giusto un mese prima, e ancor prima che il tornado si avvicinasse, il vento aveva staccato qualche tegola qua e là.
“Non è detto che ci travolga del resto…” disse deglutendo una delle pastiglie di ansiolitici che conservava nel bagno di sotto.
Ora, il rumore dei detriti contro i muri esterni pareva più forte.
“E’ qui sopra!” Mi prese per mano e mi portò dall’altro lato della stanza, accanto alla lavatrice e alla libreria dove teneva riposti i suoi documenti bancari.
Provavo un turbinio di emozioni –un turbinio è proprio il termine più azzeccato per quella situazione- ma non avvertivo una vera paura; fuori il tornado stava distruggendo il mondo ma io non avevo paura, pensavo a cosa avrei visto una volta uscito.
Sarebbe cambiato qualcosa? Sarebbe tornato il sole?
“Ascolta…” Mi disse alzando il dito “…si sta allontanando!”
Sbarrai gli occhi e cercai di ascoltare con più attenzione.
“Si… sta finendo!”
Attendemmo dieci minuti prima di avventurarci al piano di sopra: Jennifer salì le scale per prima, ricordo che stavo un metro dietro di lei che mi faceva cenno di camminare piano con la mano.
Notò con piacere o forse con stupore che nessuna finestra era stata rotta o danneggiata; nessun detrito era entrato in casa, le tende erano ancora al loro posto ed io scorgevo dietro di esse l’ombra di rami degli alberi sradicati appoggiati contro i vetri delle finestre.
“Resta dentro.” Mi disse mentre apriva la porta, scoprendo con orrore che il portico era arredato da un paio di pneumatici e da diversi pezzi della nostra staccionata.
“Oh dei!”
Non l’ascoltai ed uscì dalla porta; guardai in alto e vidi che il cielo era ancora grigio, ma il vento che fino a poco prima ruggiva imperioso era adesso una fresca brezza sibilante.
Il vialetto era coperto da un mucchio di assi di legno, tegole e persino dal cartello stradale che dava il benvenuto ad Eneris –che il tornado aveva strappato al suo alloggiamento a quasi seicento metri da noi-.
“Oh miei dei!! Oh miei dei no!!!!” Gridò Jennifer in un attimo di shock; mi avvicinai a lei e scoprì il motivo del suo sfogo: la carcassa di un auto treno rosso fiammante –adesso letteralmente in fiamme- si trovava su un cumulo di macerie di legno e cemento, ai piedi delle quali si intravedevano quelli che sembravano essere i resti di un tetto, di alcune pareti e di una staccionata simile alla nostra: era la casa della signora Kinderman, che “fortunatamente” non era in città quel giorno, ma a Lewdan, dalla sorella Nora.
“Oh dei… Anne! Anne!” Gridò Jennifer quasi in un impeto di disperazione rivolgendosi verso le macerie su cui l’autotreno poggiava comodamente; Mary Shoenfender emerse dall’ingresso della sua casa coperto di vegetazione sradicata dalla tempesta.
“Non è qui, signora! Non è in casa, mia madre le ha parlato stamattina!” Disse per rassicurare Jennifer che, dopo essersi riavvicinata a me, mi chiese come mai Mary non fosse a casa nostra quando era arrivato il tornado.
“Tu eri fuori in giardino David! Che diamine stavate facendo? E dov’era Mary?” Chiese inarcando il sopracciglio; il nostro quartiere era sotto sopra, due case erano state distrutte, ma lei inarcava ancora così bene il sopracciglio.
“Non lo so…” dissi
“E’ uscita urlando e l’ho seguita, poi sei arrivata tu e il tornado…”
Continuavo a guardarmi attorno; la nostra casa, se non fosse per il caos in giardino e qualche tegola volata via, era uscita praticamente illesa dal disastro, e grazie al cielo aggiungerei.
Sarebbe stata distrutta comunque quindici anni dopo, ma questa è un’altra storia.
Il vento aveva spinto la nostra auto contro la staccionata, parcheggiandola nel bel mezzo del prato, accanto all’alberello sotto il quale amavo giocare –e che era adesso storto-.
“Vieni David…torniamo dentro, non è sicuro rimanere fuori.”
Mi prese per mano e ci incamminammo per il nostro vialetto coperto di foglie e pezzi di staccionata bianca ingrigita dallo smog; intanto in cielo, cominciavo ad avvertire il ronzio dei motori delle navette di soccorso della protezione civile che atterravano nelle zone travolte dalla furia del tornado.

9.2 –“Reali e Condomini”
Aprì gli occhi e sul comodino accanto a me, al lato destro del letto, la sveglia digitale segnava le 5:47 del mattino; dalle spesse e lunghe tende azzurre della finestra penetrava un leggero accenno di luce. Steven dormiva profondamente a pancia in giù, abbracciato teneramente al suo cuscino; il suo corto ciuffo di capelli scuri era schiacciato sulla fronte, rilassata in una rilassata espressione e un mezzo sorriso, dovuto probabilmente ad un sogno piacevole che stava avendo.
Sorrisi e stetti per qualche istante fermo ad osservare la sua figura dormiente e mi domandai cosa potesse passargli per la mente in quel momento, se stesse sognando e se fosse felice; ah, sicuramente lo era, e l’aveva esternato più volte negli ultimi otto mesi, su Virgon.
Si, erano trascorsi ben otto mesi dal nostro trasferimento su quel pianeta; otto mesi da quando avevamo abbandonato le nostre famiglie e le nostre case per saltare nel vuoto –sebbene avessimo qualcuno ad aiutarci- ed avevamo cominciato la nostra nuova vita insieme.
Provavo un profondo senso di colpa che mi avvinghiava il cuore non di rado: non avevo tenuto fede alla mia promessa di tornare su Canceron prima della fine dell’estate a trovare Jennifer.
Gliel’avevo promesso, quasi giurato, prima di andarmene; avrei voluto farlo con tutto il cuore, ma nonostante l’aiuto del padre di Steven, non eravamo riusciti a risparmiare abbastanza cubiti per acquistare dei biglietti di andata e ritorno per il pianeta, e di conseguenza ci eravamo trovati costretti a rimandare. Del resto, io avevo iniziato un tirocinio retribuito in concomitanza al college, e certamente quell’entrata in più ci avrebbe permesso di risparmiare qualche soldo.
Jennifer non era rimasta delusa dal mio fallimento, mi aveva confortato anzi.
Mi atterrivano però le sue parole: continuai per diversi giorni ad assicurarle che il viaggio era solo rimandato, ma non annullato; ogni volta che aprivo il discorso, lei vagheggiava e cambiava argomento. Come se non volesse parlarne, come se sapesse.
E continuavo a ripensare a ciò che mi disse il giorno in cui partì per Virgon, quelle frasi che avevano scavato un solco nel mio cuore, ma che una strana forza a me sconosciuta mi aveva spinto ad ignorarne la gravità, quasi come se fossi mentalmente controllato.


“Non tornerai quest’estate, e nemmeno la prossima.
Non tornerai nemmeno la prossima primavera. Soprattutto la prossima primavera.
E sarà giusto così.”

A distanza di tutto quel tempo non riuscivo a spiegare a me stesso cosa potesse aver voluto dire; insomma, erano parole davvero drammatiche.
Eppure, io stesso non mi interrogavo più di tanto, come se qualcosa me lo impedisse e distogliesse la mia attenzione quando ci provavo.
Ora so.
Dopo aver contemplato la bellezza del mio compagno assorto dal sonno profondo, scostai la coperta e mi alzai, nonostante l’orario fosse davvero insolito e prematuro.
Versai del thè caldo nella mia tazza, indossai un maglione che avevo lasciato sul divano la sera prima, ed andai a sedermi sulla poltrona di vimini sul balcone, che ogni giorno ci offriva una vista che adoravo letteralmente.
Il cielo era attraversato da sfumature blu e rosa, e le primissime luci del sole cominciavano ad emergere a mo di spiraglio dalle montagne in lontanza, illuminando il globo biancastro della grande luna Hibernia che splendeva in alto a destra nell’empireo.
La fissavo, e potevo chiaramente distinguere ad occhio nudo la sua morfologia nonostante si trovasse fuori dalla nostra atmosfera; il grande fiume Erakle ne attraversava gran parte dell’emisfero occidentale, vantando la propria presenza nella classifica dei fiumi più grandi delle Dodici Colonie, nonostante si trovasse su un satellite.
Hibernia era stata per secoli la patria dei Celtans, una piccola nazione ribellatasi al governo monarchico di Virgon, stabilitasi sulla suaa fredda luna per ottenere l’indipendenza sociale ed economica; all’oggi, le tensioni tra i due governi erano totalmente terminate, e i Celtans si erano nuovamente uniformati alla società madre.
Di fronte a me, i grattacieli di Boskirk erano ancora illuminati dai neon e dalle varie centinaia di migliaia di lampade dietro le loro immense vetrate, e sembravano dei bellissimi pinnacoli di vetro e acciaio che si slanciavano in un cielo violaceo che si stava svegliando in quel momento.
Anche la nostra cittadina, Clairview, stava cominciando ad aprire gli occhi in quegli istanti, e il cinguettio degli uccellini mattinieri nel parco di fronte casa nostra cominciava a solleticarmi le orecchie.
“Ti sei svegliato presto, biondino.” Mi sorprese Steven sedendosi sulla poltrona accanto alla mia, ancora alla deriva nei fumi del sonno.
“Non riuscivo a riaddormentarmi” Confessai.
“E tu invece? Quando mi sono alzato quasi russavi!”
Si grattò la testa e sorrise prima di rispondermi.
“Ho allungato il braccio verso di te ma il letto era vuoto” Sorrise “Così mi sono svegliato anch’io”.
Sorrisi a mia volta, e una freschissima brezza ci investì, svegliandoci un pochino di più.
Mi accarezzai le cosce con le mani e guardai le mie gambe, storcendo il collo ed assumendo una smorfia un pochino sconfortata.
“Che c’è?” Chiese Steven dopo aver voltato a sua volta la testa nella direzione in cui guardavo io.
“Le mie gambe” risposi “Sono storte!” Grugnii.
“Ma che dici, sono perfette!” Cercò di confortarmi lui.
“No, guarda come poggia la caviglia destra quando sto in piedi!!”
Ho sempre pensato di avere un leggero valgismo alle gambe; certo, nulla di eccessivamente evidente, non è certo un pugno in un occhio, ma se si fa attenzione si riesce a notare.
La gamba sinistra sembra a posto, ma quella destra tende verso l’interno anziché essere dritta; mi sono informato quando avevo diciotto anni, ed è un difetto congenito che in genere i pediatri correggono nei bambini piccoli con delle manovre ortopediche; alla mia età era ormai tardi e per sistemarmi le gambe mi sarei dovuto sottoporre ad un’operazione a dir poco invasiva che, per un difetto così poco visibile, non credevo valesse la pena fare –dato che nessuno se n’è mai accorto-.
Agitavo il mio piede destro in aria sapendo che l’occhio di Steve non avrebbe mai colto il dettaglio che volevo vedesse; in fondo, non mi dispiaceva il fatto che non fosse evidente.
Lui rideva in quel suo solito modo che mi invogliava a sorridere, e il cielo continuava progressivamente a schiarirsi mentre il mondo si svegliava.
“Beh, visto che non dormiamo, vado a preparare qualcosa per colazione!” Esordì alzandosi dalla poltrona per entrare in cucina.
Lo seguì, mi sedetti ed accesi la televisione, incappando nel notiziario nazionale delle sei e dieci del mattino; il presentatore era circondato da diversi altri giornalisti presi con i loro rispettivi servizi.
“Jim McDonnell, in diretta dal Palazzo Reale di Boskirk; siamo qui in attesa dello scoccare delle 7:30, ora in cui, come ogni anno in questo giorno, il re Regulus IV e la regina Lyndra pronunceranno il discorso in nome della pace nelle Colonie…”
Il camera man inquadrò per diversi istanti il palazzo reale dando l’occasione ai telespettatori –e a me- di dare un’occhiata alla sua figura.
L’avevo già visto in fotografia, ma lo osservai meglio dallo schermo della televisione: le sue forme classicheggianti esprimevano regalità, così come le alte finestre rettangolari, e il grande timpano sulla facciata frontale. Le pareti erano verniciate di bianco e diverse piante rampicanti vi erano disseminate, ma la sera, delle speciali lampade al neon installate in vari punti del giardino attorno all’edificio, proiettavano su di esse una luce bluastra, tingendole di un finto azzurro luminoso, rendendo la casa reale distinguibile da mezzo chilometro di distanza.
 Non era poi così grande, e per essere la dimora del monarca di un pianeta si poteva dire quasi umile, seppur decorosa, umile così come lo era ora mai il potere della monarchia della quale era la sede: Virgon era l’ultimo pianeta nelle Colonie governato da una monarchia costituzionale, o nel quale se ne potesse semplicemente trovare una; gli altri mondi si erano adattati alla progressione dei tempi adottando forme di governo liberale, le quali si erano andate unificandosi sotto una repubblica federale dopo la guerra dei Cyloni.
Naturalmente anche Virgon rientrava nella Federazione delle Dodici Colonie di Kobol, e come tutte le altre colonie vantava un rappresentante all'interno del Consiglio dei Dodici, ma manteneva una facciata conservatrice e tradizionalista –che non va assolutamente confusa con chiusura mentale o arretratezza, dato il grado di progresso e benessere sul pianeta- che tuttavia era appunto una facciata; il potere dei regnanti delle ultime generazioni era stato sempre di più fagocitato dalla potenza del parlamento che li affiancava –se non, guidava- fino ad arrivare ai giorni nostri, in cui la famiglia reale di Rioga regnava in modo puramente rappresentativo e simbolico, come a voler ricordare al popolo l’antico splendore delle tradizioni, mentre l’assemblea legislativa amministrava realmente il pianeta.
Nonostante ciò, Regulus e Lyndra erano profondamente amati dai loro sudditi che li ritenevano senza ombra di dubbio il simbolo dell’orgoglio del proprio mondo: i giorni del loro rispettivi compleanni, a Junius e ad Ottobre, era festa nazionale su tutto il pianeta, ed era tradizione che la coppia reale passasse per le strade del centro di Boskirk affacciati dal tettuccio dell’automobile blindata, scortata dal suo convoglio; i cittadini si riversavano per le strade lanciando chicchi di riso e petali dei fiori di betulle, un’antica usanza risalente ai primi secoli della Colonizzazione.
Guardavo le immagini nel televisore distrattamente e riflettevo su come dovessero sentirsi i cittadini di Virgon in quei momenti; ero legalmente anche io un suddito della casa di Rioga, eppure non sentivo l’emozione che sembrava pervadere le membra di tutti attorno a noi, ma del resto ero sul pianeta solo da otto mesi, e avevo davanti a me tutta la vita per integrarmi nella nuova società, o almeno così pensavo sarebbe stato.
Le uova e il bacon sfrigolavano nella padella mentre Steve armeggiava sul piano cottura fischiettando; non era una cosa che faceva abitualmente, anzi a dire il vero ricordo di averglielo sentito fare pochissime volte, ma un buon cantante dovrà pur saper fischiare!
Io contrariamente a lui non ero minimamente capace di farlo: più volte avevo provato ad inumidirmi ed arricciare le labbra e soffiarci dentro, ma nulla vi fuoriusciva se non un silenzioso getto d’aria. Non che la cosa mi avvilisse, in realtà.
“Dovremmo fare qualcosa per la signora Hatcher, non trovi?” Chiese lui mentre si avvicinava al tavolo con la padella.
“Mmh?” Risposi distrattamente distogliendo lo sguardo dal notiziario, in cui un reporter descriveva la desolazione prodotta da un mega tornado che aveva appena raso al suolo una piccola città agricola, su Aerilon.
“La signora Hatcher, dovremmo ricambiare il favore.” Ripeté.
“Ah si! Certo, scusa sono ancora mezzo addormentato. E’ una cara donna.”
La signora Melanie Hatcher abitava dall’altro lato del pianerottolo, nell’appartamento accanto al nostro; nonostante ci trovassimo sul pianeta da molti mesi, avevamo tuttavia fatto la sua conoscenza solamente la settimana prima, poiché fino ad allora si trovava in “villeggiatura”, così come diceva lei, dalla sorella in un sobborgo nella periferia di Hadrian.
Un pomeriggio tornai da lavoro e lei era lì, di fronte alla nostra porta, ad osservare lo zerbino nuovo riportante la scritta welcome, chiedendosi chi si fosse stabilito nell’appartamento accanto al suo, che era stato sempre vuoto fino ad allora.
In realtà, i gestori del condominio inviano un’email a tutti i residenti ogni volta che accadde nella struttura qualcosa di importante, così come l’arrivo di un nuovo vicino, ma questo la signora Hatcher non l’aveva tenuto in considerazione, dato che non possedeva un computer da almeno vent’anni.
Ricordo il suo grande entusiasmo nello scoprire che –cito testualmente- “un bel giovanotto biondo e il suo amante fossero i suoi nuovi vicini di casa” e ricordo anche la mia risata leggermente forzata dettata dall’imbarazzo del momento.
“Non vedo l’ora di conoscere questo Steven, e sappi che siete invitati da me per un thè! Non si scampa!” Aveva detto quel pomeriggio mentre entravo in casa salutandola.Mi aveva fatto da subito una bella impressione, ed ero felice che un vicino appena conosciuto si mostrasse così ospitale nei nostri confronti.
“Potrei prepararle una torta, che dici?” Proposi facendo una simpatica e ridicola smorfia.
“Si, anche se ci inviterebbe … ci costringerebbe a venire da lei a mangiarla!” Rise lui.
“Eh beh, è una così cara signora! Glielo dobbiamo, no? Ha detto che sei affascinante.” Alzai le sopracciglia in un’espressione solenne. E poi risi.
“D’accordo ma non questa settimana, ho ancora un sacco di lavoro da portare a termine per il prossimo esame di canto!” Disse poco prima di iniziare a mangiare.
“Ma certo, non c’è problema.” Risposi per poi voltarmi nuovamente verso la tv, dove ancora si parlava del cataclisma meteorologico; le immagini mostravano ettari di grano e vegetazione sradicati dal suolo, in quella che, se vista da diverse decine di metri di altezza, sembrava essere una gigantesca cicatrice sul terreno.
“Il tornado” diceva un uomo con una benda in fronte intervistato dal reporter “aveva un diametro di quasi due chilometri, ha spazzato via tutto… non avevo mai visto una tempesta così!”; attorno a lui, soltanto detriti, macerie, pezzi di legno e lamiera, automobili rovesciate.
“Anch’io ho vissuto una cosa simile…” Dissi mantenendo il contatto visivo con la tv.
“Davvero?” Chiese Steven guardandomi.
“Si. Beh certo non era un tornado così grande, ma era comunque piuttosto spaventoso, ero un bambino. Ha distrutto due case nel mio quartiere.”
Steven annuì mentre masticava, mentre il servizio ci informava del numero delle vittime.
Quarantasette morti, quarantasette vite spezzate da una tempesta autunnale su un pianeta agricolo distante mezzo anno luce da noi.

Mentre mi preparavo ad uscire, mi sedetti ai piedi del letto per allacciarmi le scarpe, poi aprì la mia valigetta nera per controllare di avere quanto mi servisse per la lezione del giorno: il sussidiario di geografia, le schede da completare ed i disegni da colorare che avrei dato ai bambini alla fine della mattina.
Ma c’era anche un piccolo diario che avevo inserito nella valigetta senza motivo, così, per avere qualcosa di familiare sempre con me; era un quadernino che tenevo da un paio d’anni, nel quale avevo incollato fotografie, immagini, fotocopie, poesie, tutta roba a cui tenevo e che desideravo portarmi addietro.
La mia attenzione ricadde su un breve scritto che si trovava alla metà del diario, una sorta di poesia sentimentale ed intimista che mi aveva donato Jennifer prima che io partissi per la mia nuova vita; non l’aveva scritta lei, bensì una sua amica d’infanzia, Marissa Winchester, pochi mesi dopo la fine della guerra dei Cyloni, più di quarant’anni fa.
Marissa era più grande di Jennifer di due anni e viveva sulla sua stessa strada, nella villetta affianco alla sua. Era figlia di una buona famiglia, tuttavia negli ultimi mesi –al tempo- il padre aveva iniziato a cambiare; era sempre la stessa persona, tuttavia aveva adottato dei comportamenti meschini nei confronti del resto della famiglia, che incolpava per la sua felicità, ritenendo che la propria non fosse mai abbastanza.
Era sempre insoddisfatto, arrabbiato, deluso; eppure, lui e la famiglia erano sopravvissuti alla guerra dei Cyloni, la gratitudine sarebbe dovuto essere il sentimento primario nel suo cuore, e questo Marissa lo capiva; lei non riusciva a tollerare quel comportamento da parte del padre, e non potendolo esternare direttamente nei suoi confronti, lo fece nella poesia che sarebbe stata tramandata a me, sopravvivendo a quarant’anni di storia.

«Mi ami? –iniziava così-
Ti amo? Hai un cuore arido?
Hai mangiato bene stamattina?
Dove sei finito?
Non ti riconosco, o forse si, o forse no.
O forse la vita ti ha cambiato, o magari non ci calzi più come prima.
Ma magari poi passa, ma anche io passo.
Anche io passerò, non sarò sempre qui.
Ma cosa farai se io passassi?
Ma cosa dirai se io passassi?
Mi darai -di nuovo- la colpa?
Ma non hai sonno?
Ma non ti tiene sveglio, la coscienza?
Ma non ti chiedi se sbagli?
Ma se io passassi?
Cosa diresti?
Ma perchè usi quelle parole? Pensi che non capisca? Ma perchè non parli come mangi?
Pensi che non capisca?
Ma perchè credi che ti odiamo, ma perchè credi che te ne vogliamo?
O forse sono davvero cattiva? Forse sbaglio davvero, io?»


Così scriveva la piccola Marissa Winchester in un caldo pomeriggio su Virgon.
Quel foglietto arrivò fino a me, passando dalle sue mani, a quelle di Jennifer, per poi cadere nelle mie, per raccontarmi la storia di una figlia che non riusciva a capire l'egoismo del padre.
Probabilmente quell’uomo non era realmente cattivo, e non voleva male alla sua famiglia, ma era troppo pieno di se, troppo accecato dai suoi futili problemi per vedere che stava facendo del male  chi l’amava.
Non so perché Jennifer mi abbia regalato quel foglietto, e nemmeno riesco pienamente a comprendere come si sentisse Marissa; in fondo, io non ho mai conosciuto mio padre.

9.3 –“Girasoli e Lezioni di storia”
Guidavo la nostra auto elettrica grigio metallizzato verso la scuola dove lavoravo come stagista tre giorni a settimana, in quella che sembrava essere una bellissima mattina; il clima continuava ad essere mite per le prime ore della giornata, nonostante ci trovassimo in autunno inoltrato.
Verso sera invece, temperatura calava drasticamente, e per questo mi portavo dietro il giaccone e la sciarpa. Mi metteva sempre di buon umore uscire di casa e vedere la gente della cittadina camminare per strada, intenta a prodigarsi per portare avanti la propria vita nel  piccolo angolo dell’universo che l’accoglieva.
Erano già un paio di mesi che lavoravo, ed ero totalmente convinto che quella fosse realmente la mia strada; come già ho detto più volte, amavo i bambini e lavorare a stretto contatto con loro in ambito didattico mi faceva sentire incredibilmente vivo.
Mi ritenevo uno dei ragazzi più fortunati delle Dodici Colonie; avevo tutto quello che una persona semplice potesse desiderare per essere felice: stavo con la persona che amavo e che era indubbiamente la mia anima gemella, vivevo su un pianeta bellissimo in una casa mia e mi stavo specializzando in quella che sarebbe stata la mia professione, quella che mi avrebbe permesso di portare a casa il pane.
Anche per Steven le cose andavano decisamente a gonfie vele: frequentava la “Boskirk Royal School Of Art And Music”, una delle più prestigiose accademie artistiche del pianeta –e delle Colonie, tant’è che faceva concorrenza alla Grand Academy Of Art di Caprica- dove si recava quattro giorni a settimana per seguire corsi di canto, musical e recitazione.
La sua voce,  grandemente allenata già da prima, si stava evolvendo e trasformando sempre di più, colorandosi di tecniche e sfumature sempre più altolocate.
Grazie alla sua creatività, riusciva a trovare ispirazione in tutto e scriveva canzoni incredibilmente belle ed elaborate, con testi pieni zeppi di metafore di interpretazione decisamente non banale.
La mia preferita è sempre stata Sunflowers, un pezzo arrangiato alla chitarra acustica di due minuti e trenta secondi che lui aveva dedicato a me, paragonandomi appunto ad un girasole –mi imbarazza leggermente scrivere di questi dettagli così intimi, ma in fin dei conti se voglio raccontare la nostra storia devo farlo fino in fondo-  ; si potrebbe pensare che abbia scelto il girasole come metafora per parlare di me per via dei miei capelli –che al tempo erano- biondi, ma il motivo di questa sua scelta è in realtà tuttaltro, e la sua origine risale all’inizio della nostra relazione. Quella prima estate insieme, quando ancora vivevamo su Canceron, quando ancora non eravamo certi di cosa il futuro avrebbe avuto in serbo per noi; accadde che un pomeriggio, mentre ce ne stavamo seduti su una panchina nel parco di Lewdan a chiacchierare con una bibita fresca in mano, i nostri discorsi verterono sul tasso di povertà sul pianeta che abitavamo.
In realtà ero stato io, come sempre, ad iniziare il discorso, discorso che finiva inevitabilmente per fare innervosire il mio animo illuso e moralista.

“Non può essere Steven” Dicevo agitando la mia bibita al limone che per poco non rovesciai
“Capisco che ci siano ottantotto stati qui, su Canceron; è vero che siamo quasi sette miliardi e che nessun’altra colonia abbia così tanta gente… ma questo pianeta è pieno di risorse!
Abbiamo dei terreni tra i più fertili delle Colonie e il sotto suolo è zeppo di giacimenti di metalli e materiali di ogni tipo. Dovrebbe essere uno dei mondi più ricchi il nostro, e tecnicamente lo è, eppure le città di questo pianeta sono quelle con le baraccopoli più grandi e affollate! Le risorse che abbiamo dovrebbero essere sufficienti per tutti e non affamare milioni di persone perché poche centinaia possano andare in giro con automobili d’oro.”
Il mio fervore sull’argomento lo divertiva in qualche modo, ma allo stesso tempo diede alla sua mente creativa l’ispirazione per la sua arte. Dopo pochi istanti di silenzio se ne uscì con un’affermazione che non dimenticherò mai:
“Sei un’anima Eliotropica”
Al che, risposi aggrottando leggermente le sopracciglia in un’espressione interrogativa; che voleva dire? Faceva quasi ridere.
“Sei un po’ come un girasole, in un certo senso. Ti giri verso il sole, verso la luce. Stai sempre dalla parte della vita.”
Rise.
“So che sembra un po’ una frase da film e faccia ridere, ma lo penso davvero!”
Effettivamente mi viene ancora da ridere adesso pensando a quella sua strana espressione, ma non è certamente da tutti un’associazione come quella.
Lasciai la macchina nel parcheggio della Jean Evans Elementary School –della quale credo di aver già spiegato l’origine- e mi avviai verso la mia classe; da quasi un mese lavoravo in una terza elementare a fianco dell’insegnante di storia, che alle volte lasciava che gestissi la lezione autonomamente; alla fine dell’anno sarei stato valutato sulla base dei suoi giudizi, e il risultato ottenuto sarebbe rientrato nel mio libretto valutativo universitario.
Amavo quella scuola; nonostante ci fossero delle regole particolarmente importanti, come il dover portare le uniformi, i bambini sembravano allegri e sereni, e questo metteva di buon umore gli insegnanti, tra cui me.
Entrai nella terza porta a sinistra del corridoio est al secondo piano: le tre grandi finestre sulla parete di sinistra donavano all’aula una forte luminosità, che rendeva superfluo l’uso dei lampadari, che accendevamo soltanto nelle giornate molto nuvolose.
Due lavagne nere di forma quadrangolare occupavano il muro accanto alla porta d’ingresso e alla cattedra, mentre una cassettiera lunga quattro metri e mezzo occupava il fondo dell’aula, che i bambini consideravano affettuosamente la zona di gioco, e che era arredato con poltroncine, tavolini ed un paio di tappeti colorati, sui quali in genere avremmo trovato delle ceste contenenti i giocattoli.
Sopra la cassettiera, giacevano dodici planisferi che rappresentavano i globi dei nostri dodici mondi, con dettagli morfologici, antropici e geografici; i dodici pianeti che orbitavano nei quattro sistemi solari che noi conoscevamo come le Dodici Colonie di Kobol, che per duemila anni l’umanità aveva chiamato casa.
Sulla stessa parete, era appesa la cartina mondiale di Virgon, così che i bambini potessero avere sia una visione dettagliata della geografia del loro pianeta che una visione d’insieme di com’erano fatte le altre Colonie.
“Buongiorno, David!” Mi salutò la signorina Bolen mentre spostava dalla cattedra una pila di libri di storia e geografia.
I suoi capelli lunghi e lisci tinti di rosso mogano erano illuminati da una serie di chiarissime meches bionde che donavano alla sua chioma uno strano contrasto: non era molto comune vedere dei capelli tinti di rosso e di biondo, ma consideravo quel mix di colori più che piacevole.
Il suo viso ovale e leggermente spigoloso esprimeva grazia e gratitudine verso la vita: Emily era stata assunta come insegnante contro ogni aspettativa di un padre arcigno e arido che non le aveva mai detto che le voleva bene; aver realizzato il suo sogno l’aveva riempita di amore e l’aveva resa una ragazza forte e decisa, ma incredibilmente dolce. Era amata dai suoi alunni che vedevano in lei una sorta di madre, nonostante fosse molto giovane e per alcuni versi ancora inesperta; è stato un vero onore per me lavorare con lei, per il poco tempo che abbiamo avuto a disposizione.
“Credo di aver riletto il copione una ventina di volte questa settimana, Emily, impazzirò!”
Esclamai mentre attraversavo frettolosamente l’aula per dirigermi verso i mappamondi, vicino ai quali stavano dei sussidiari di cui avevo bisogno per la lezione.
“Non preoccuparti” Rispose dalla cattedra, intenta a preparare i fogli.
“E’ una lezione semplicissima, andrai alla grande, e poi io sono qui di fianco a te, cosa credi?” E ridacchiò teneramente.
Emily mi aveva assegnato il compito di spiegare ai bambini la storia della scoperta delle Dodici Colonie, argomento che tecnicamente avrebbero dovuto trattare già dalla prima elementare, ma per una serie di disguidi con le precedenti insegnanti, era stato rimandato di due anni.
Come lei stessa aveva detto, era una lezione molto semplice, sia perché a grandi linee tutti, bambini compresi, conoscessero la storia della nostra civiltà, e perché sarebbe stato un lavoro interattivo ed interessante; nonostante ciò, ero inspiegabilmente preoccupato da quel mio compito e nei giorni precedenti ripetei a me stesso –e al povero Steven- il discorso che avrei dovuto fare, o che credevo avrei fatto per introdurre l’argomento.
Ovviamente sul momento finì per cambiare ogni parola.
Una volta che terminato l’appello, fu Emily ad introdurmi.
“Ragazzi, oggi David ci parlerà di una cosa molto interessante, perciò vi consiglio di ascoltare quanto ha da dirci!” e detto questo, mi sorrise facendomi cenno di agire.
“Dunque ragazzi… beh…” Tutti mi fissavano con aspettando che cominciassi ad esporre la merce sul bancone. Esitai, ma mi decisi a parlare. Erano solo bambini in fondo.
“Allora, sapete di cosa parleremo oggi?” Chiesi mentre mi appoggiavo alla cattedra; Emily mi guardava sorridendo da dietro di essa. Le teste ondeggianti in un timido “no” dei bambini risposero alla mia domanda, spingendomi a svelare i miei piani.
“Bene beh… oggi parleremo della scoperta delle Dodici Colonie, interessante vero?” E vidi diversi visi accendersi in espressioni di curioso interesse.
Iniziai a camminare tra i loro banchi colorati, tenendo le braccia conserte nel mio maglioncino color panna.
“Vorrei iniziare la spiegazione citando una frase delle Sacre Pergamene, sapete cosa sono, vero?”
La piccola Abigail Horner alzò la mano e le sopracciglia per il desiderio di rispondere.
“Abigail?” Le diedi il via libera per la parola.
“E’ il libro sacro degli Dei!” Rispose con la sua chiara vocina.
“Precisamente, Abigail, le Sacre Pergamene sono un insieme di libri sui quali si basano molti dei culti religiosi conosciuti… ma ora questo non ci interessa. Vi ho parlato delle Pergamene per un altro motivo.” Tutti erano assorti ad ascoltarmi, mentre l’aula risplendeva sempre di più per via della luce bluastra che entrava dalle finestre.
“Sapete quanto tempo fa sono state scritte?” Chiesi, retoricamente ovvio, perché nessuno rispose.
“Beh, tolti alcuni dei libri più antichi, come le profezie di Pythia che sembrano risalire a più di 3600 anni fa, i libri posti all’inizio delle Pergamene sono stati scritti diverso tempo dopo, circa 2000 anni fa.” Un leggero “wo” sembrava pervadere le loro facce.
“Una data molto importante… sapete perché?”
Ancora una volta le loro testoline colorate ondeggiavano in un timido “no”.
“Ebbene, secondo i più affidabili studi archeologici, i primi coloni sarebbero giunti qui sulle Dodici Colonie proprio duemila anni fa! Le Pergamene iniziano proprio con questa frase, ascoltatela attentamente: <>
Adesso si trovavano davvero catturati da quello che dicevo, in parte per il mio tono di voce volutamente misterioso, un po’ perché quello che dicevo richiedeva concentrazione.
“Sapete cosa significa? Dovete sapere che noi esseri umani non siamo nati su questi dodici pianeti… cioè, noi si, noi e le nostre famiglie, e i loro nonni e le centinaia di generazioni prima di noi… ma i nostri antenati più lontani, i primi esseri umani viventi, non sono nati qui!”
“E dove?” Chiese Randy Honeycutt senza alzare la mano.
“Su Kobol!” Risposi.
“Il grande Kobol, il pianeta d’origine di tutti noi, la culla ancestrale dell’umanità.
 Antiche leggende scritte nelle pergamene narrano che su quel pianeta lussureggiante gli esseri umani stessero fisicamente a fianco degli Dei, con quali condividevano la vita di tutti i giorni… ovviamente questa è solo una leggenda. Quello che sappiamo per certo è che su Kobol esistevano dodici tribù, o nazioni, i cui nomi erano gli stessi delle costellazioni dello Zodiaco. Conoscete i loro nomi?” E nessuno rispose, come se avessi interrogato un morto.
“Andiamo, ma certo che li conoscete, solo non lo sapete!” E mi misi ad enumerarli.
Aries. Aquarius. Cancer. Capricorn. Gemini. Leo. Libra. Pisces. Sagittarius. Scorpius. Taurus. Virgo. Non vi dicono niente?” Chiesi.
“Si…” Provò a formulare un’ipotesi Abigail.
“Sembrano i nomi delle Colonie…ma sono un po’ diversi…”
“Esatto Abigail, sono i nomi antichi delle Dodici Colonie di Kobol! Gli storici non sono certi del perché ma quasi tutti sono concordi su una teoria: circa duemila anni fa, in seguito ad un conflitto… sapete cos’è un conflitto vero?” Volli accertarmi di non adoperare parole troppo grandi per loro, che mi accontentarono con un sentito si.
“Bene, dopo un conflitto che… a dire il vero non siamo sicuri del perché ci sia stato, ma dopo ciò le dodici tribù lasciarono Kobol a bordo di grandi galeoni stellari… ovvero a bordo di grandi astronavi. Le scritture dicono che, in preda alla disperazione per l’esodo dell’umanità, la dea Atena si sia tolta la vita gettandosi da una montagna.”
“L’ha fatto davvero?” Domandò Alicia Hobby con aria preoccupata.
“Non lo so… questo dice la leggenda! E dice inoltre che durante l’esodo nello spazio, gli dei avrebbero mostrato ai nostri avi la strada per un nuovo mondo dove potessero ricominciare da capo… e così trovarono un piccolo ammasso stellare formato da quattro sistemi solari, nei  quali orbitavano diverse decine di corpi celesti, tra cui, dodici pianeti abitabili.” Adesso i bambini incominciavano a comprendere quello che stavo dicendo. Era noto a tutti loro il fatto di vivere in una società interplanetaria.
“Quindi…” Osò Kimberly Pattymore
“Loro hanno trovato i nostri pianeti?”
“Precisamente, Kimberly! Le dodici tribù trovarono quelli che oggi sono i nostri mondi, ed ognuna di esse ne scelse uno su cui stabilirsi: i pianeti su cui viviamo presero il nome delle tribù che li avevano colonizzati. La tribù del Capricorno di stabilì su quello che oggi conosciamo come Caprica, la nostra odierna capitale e centro della società delle Colonie.
La tribù dei Gemelli su Gemenon, il pianeta che condivide la stessa orbita di Caprica; la tribù dei Pesci su Picon; la tribù della Bilancià colonizzò Libran,  quella del Cancro prese Canceron, sul quale tra l’altro sono nato e cresciuto…  la tribù della Vergine mise piede su Virgon, sul quale ci troviamo noi ora, e così via! I dodici mondi abitabili vennero colonizzati, diventando appunto le Dodici Colonie di Kobol su cui viviamo oggi… ovviamente è stato molto tempo fa, sono passati duemila anni e la nostra società si è evoluta da allora, ma è importante che tutti conosciamo quali sono le nostre origini.”
Molti di loro sorridevano, chiaramente elettrizzati da un racconto così interessante come quello delle origini dell’umanità e dell’odierna civiltà… o almeno, odierna per quei giorni.
Ne loro ne io avremmo mai immaginato cosa sarebbe accaduto da lì a pochi mesi.
Emily si alzò e venne ad appoggiarsi alla cattedra accanto a me; sembrava davvero soddisfatta di come avevo introdotto l’argomento, ed io ne ero felice.
“Molto bene ragazzi!” Disse accennando un sorriso.
“Avete qualche domanda da fare su quanto ci ha appena raccontato David?” E non appena terminata la frase l’aula sembrò gremirsi di mani alzate.
“Patrick?” Disse indicando il bambino seduto al primo banco di fronte a noi; lui si alzò in un battito di ciglia e quasi con il fiatone ci pose un quesito che sembrava attanagliarlo.
“Ma… come fecero le tribù a scegliere il pianeta giusto per loro?” E in effetti non era affatto una domanda sciocca.
“Beh” Provai a rispondere “Il mito vuole che siano stati gli Dei a guidare le tribù verso questi pianeti, quindi è ragionevole pensare che abbiano anche suggerito ad ogni tribù quale pianeta scegliere! Bisogna inoltre dire che un sistema solare quadruplo come quello in cui viviamo e pieno zeppo di pianeti abitabili è qualcosa di rarissimo nell’universo! Le probabilità di trovare un solo pianeta che possa ospitare la vita, la fuori, sono scarse… figuratevi dodici mondi vicini! Per questo molti pensano che ci sia davvero del miracoloso nella nostra storia..”
“David..” Chiese nuovamente Patrick.
“Quindi tutti gli esseri umani lasciarono Kobol? Non è rimasto nessuno ?” Disse ponendo un tono quasi sinistro su quel “là”.
“Beh… è probabile che qualcuno sia rimasto per un breve periodo dopo l’esodo, altrimenti non avremmo avuto un resoconto, seppur mitologico, tanto dettagliato… ma c’è una cosa che non vi ho detto, perché questa è pura leggenda. Non credo che sia reale e nessuna comunità storica o scientifica l’ha mai considerata reale.”
“A cosa ti riferisci?” Chiese Emily con tono interrogativo, anche se in realtà sapeva benissimo dove volevo andare a parare.
“Beh, il mito vorrebbe che, oltre alle dodici tribù di cui vi ho parlato, ne esistesse una tredicesima, che lasciò Kobol diverso tempo prima delle altre… sempre secondo le Pergamene, questa tredicesima tribù lasciò il mondo d’origine per colonizzare un pianeta orbitante attorno ad una stella lontanissima, un pianeta disabitato chiamato Terra… ma come vi dicevo, è solo una leggenda.”
Intendevo davvero quello che dicevo; non tutti erano a conoscenza di quel passo delle scritture, soprattutto perché ritenuto poco importante rispetto agli altri miti e dottrine presenti nelle Pergamene. Io non lo ignoravo ,come Emily, perché in quanto futuro insegnante dovevo conoscere alla perfezione i nostri testi sacri, ancora ritenuti alla base della nostra società, sebbene si professasse quasi sempre laica.
Consciamente, credevo davvero che la storia della tredicesima tribù e della Terra fosse solo una leggenda, eppure, ogni volta che lo pensavo, sentivo dentro di me una strana voce sussurrarmi che mi sbagliassi.
Gli eventi dei mesi successivi mi avrebbero portato a capirne il perché.



9.4 –“Foglie rosse e Strane presenze”
Uscito da scuola in ormai pieno pomeriggio, mi incamminai verso il parco di fronte all’edificio, accomodando le mie mani nelle tasche del mio lungo cappotto; il freddo vento autunnale soffiava tra le fronde bluastre degli alberi, le cui foglie avrebbero cominciato molto presto a tingersi di rosso, come ogni foglia fa durante la stagione che precede l’inverno, prima di avvizzire e cadere morente al suolo.
E’ davvero suggestivo vedere delle foglie passare dal blu al rosso: la prima parte a cambiare colore sono le venature, che da dal loro verde scuro naturale scivolano non molto lentamente verso un arancione opaco, che poi diventa rosso marroncino; solo successivamente il resto della foglia prende quel colore, e fino a quel momento è possibile osservare foglie bluastre con venature rossicce. Questo è uno degli aspetti che mi mancano di più degli autunni su Virgon; i colori erano proprio la chiave per interpretare l’anima di quel pianeta, colori impossibili da trovare altrove nelle Dodici Colonie –e da quanto avrei scoperto, in nessun altro mondo nello spazio.
I lampioni illuminavano con un fioco bagliore i marciapiedi trafficati da gente vestita alla moda e di tutto punto; su qualunque lato della strada voltassi lo sguardo, vedevo negozi di abbigliamento d’alta moda, boutique e atelier, nonostante ci trovassimo in un piccolo centro.
Virgon era il pianeta della moda per un motivo, ovviamente.
E da dietro gli alberi bluastri del parco che cominciavano ad arrossire, vedevo in lontananza le cime illuminate dei grattacieli della capitale svettare sbrilluccicanti nel cielo quasi scuro del pre tramonto, contornati dal movimento delle astronavi che lo attraversavano ad alta quota, come in tutte le grandi città delle Colonie.
E il vento soffiava oltre che nelle fronde bluastre degli alberi che stavano per arrossire anche nel ciuffo di capelli biondissimi  ma dalle radici scure che copriva parte della mia fronte per adagiarsi sul sopracciglio sinistro; e le luci fioche dei lampioni che illuminavano dolcemente le strade attraversate da silenziose auto elettriche, rendevano il caschetto di capelli biondi che occupava la mia testa di un colore quasi bianco.
Amavo il contrasto tra i miei capelli chiarissimi e quelli scurissimi di Steven, agli antipodi, come noi due del resto, ma complementari. Vedevo quel contrasto e quella complementarietà cromatica e psicologica nella fotografia appoggiata sulla cassettiera in camera nostra, e in quella accanto al vaso rosa, in sala, nella quale stavamo abbracciati.
Steven mi veniva in contro dall’altro lato della strada, reggendo due grosse buste di carta contenenti altre buste e delle scatole di cartone; in una di quelle scatole alloggiava un nuovo microfono, affidatogli dalla sua insegnante del corso di canto moderno, con il quale avrebbe potuto registrare comodamente da casa alcuni dei suoi pezzi acustici, con il  solo bisogno di un computer portatile come sala studio. Un gentile omaggio di un insegnante che aveva visto in lui del potenziale.
La sua sciarpa rossa era sempre attorno al suo collo e pendeva dalla spalla destra, e quel cappotto nero che amavo continuava ad arrivargli poco più in alto delle ginocchia.
“Hei, ciao straniero!” Dissi abbracciandolo, prima di imboccare insieme il marciapiede alla nostra destra.
“Oggi è stato strano” Disse “Ero al corso di musical e ascoltavo il professore parlare dell’importanza del padroneggiare la respirazione diaframmatica non solo durante la performance, ma la mia testa andava altrove…” Parlava con uno strano tono di voce, quasi come se fosse preoccupato da qualcosa.
“E dove andava?” Chiesi.
“Ti ricordi quando mi parlasti dei tuoi continui sogni… quelli delle esplosioni nucleari dappertutto?” Disse riferendomi ad una serie di incubi che avevo continuato a partorire praticamente tutte le notti durante i primi mesi su Virgon; sognavo sempre delle colossali esplosioni atomiche distruggere ogni cosa, forse tutto quanto, senza alcun motivo apparente.
“Oh, si ricordo certo. Cosa c’entra?”
“Non so, sul mio blocco per gli appunti … ho continuato a disegnare morbosamente dei funghi atomici laddove avrei dovuto annotare quello che diceva il professore. Il bello è che non me ne sono reso conto finchè non è suonata la campanella. Te lo farò vedere quando arriviamo a casa…”
Camminavamo a braccetto verso l’automobile, il mio braccio sinistro stava sotto il suo destro, e la mia mano destra appoggiata sugli stessi; ancora qualche settimana ed avrei ricominciato a portare i guanti.
Eccoli lì, il ragazzo con il ciuffetto scuro e il ragazzo dal caschetto biondo perla; insieme, sul marciapiede, eccoli camminare verso la loro auto, verso il loro futuro.
Anche le forme dei nostri corpi e dei nostri cappotti sembravano esprimere armonia, insieme.
Qualcosa alla mia destra, catturò la mia attenzione.
Una cosa davvero strana alla vista che mi fece rimanere perplesso.
“Hey Steve ma…guarda…” Dissi stranito mentre indicavo la panchina sulla piazzola in fondo alla strada, dove sembravano essere seduti un uomo e una donna, ma non un uomo e una donna qualunque: erano loro.
Loro, quella coppia che avevo visto in sogno, mesi prima, durante il viaggio verso Virgon.
Quella donna inquietante, dai capelli biondissimi, quasi bianchi, che avevo sognato così tante volte… ed erano là, seduti su una panchina, in mezzo alla gente, alla luce del sole che tramontava!
Li vedevo ed ero certo che fossero loro, nonostante fossero a più di cinquanta metri di distanza; e nonostante quei cinquanta metri di distanza ero assolutamente sicuro che mi stessero guardando, sorridendo.
Ma erano reali? Erano davvero là? Li fissavo attonito, incredulo di quanto stesse avvenendo, se stava avvenendo davvero.
Era assurdo anche il modo in cui erano vestiti: lui con una camicia leggera, lei con un completo rosso totalmente scollato che lasciava scoperte tutte le spalle; eravamo in pieno autunno e ci saranno stati sei gradi.
 In quell’istante udì una voce dentro di me, guardai quell’uomo, la voce nella mia mente disse “Mi chiamo Leoben, andrà tutto bene.”
“Leoben” Dissi a me stesso.
“David ma cosa succede?” Chiese Steve tirandomi per il braccio, non capendo perché mi fossi bloccato per strada.
“Io… io non…” La panchina era vuota, loro non c’erano, ma io ero certo di averli visti.
Diamine, erano là! O forse stavo impazzendo?
Continuai a non capire quanto avevo appena visto per tutto il percorso verso casa, ma non appena vi misi piede, il pensiero a riguardo abbandonò la mia mente, come se nulla fosse mai avvenuto.
Steve non fece domande, io non ricordai nulla, sebbene dentro il mio cuore sentissi, per chissà quale motivo, che qualcosa di molto grande stava prendendo forma attorno a noi.
Pochi mesi dopo, tutte le Colonie avrebbero visto il concretizzarsi di quel qualcosa, ma solo pochi fortunati avrebbero potuto raccontarlo, un giorno, ai loro figli.

Continua…
   
 
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