Il salotto d'oro zecchino
È raro al giorno d’oggi trovare qualcuno che si inserisca ancora bene in un salotto d’oro zecchino.
La carta da parati è spessa, ruvida e stantia, i mobili alti sono sottili e poco imponenti, parrebbero di scarso valore se non fosse per quella sottile patina d’oro che li ricopre a dar luce ad una stanza che sarebbe troppo scura se abbandonata alla pesantezza delle gonfie tende di velluto verde.
Entrando ti aspetteresti di trovare al suo interno una bambina dai boccoli d’oro, accoccolata per terra davanti al balcone che l’illumina misticamente mentre pettina i capelli ad una bambola di ceramica, mai bella quanto lei.
Agata non aveva mai avuto boccoli d’oro e decisamente non era più una bambina, seppure i pensieri e le esperienze degli anni non avevano ancora lasciato traccia alcuna sul suo volto, ancora dolce ed ingenuo, a volte veritiero, a volte ingannevole.
In quella primavera era diventata una dottoressa in legge, e aspettava di festeggiare l’evento nel salotto di casa della nonna. Lei era morta due anni prima, e aveva dato disposizioni che i mobili di quella stanza rimanessero ad Agata, «perché solo lei sa apprezzare le cose belle!», diceva.
Era vero, e l’aveva sempre saputo. Agata era una ragazza d’altri tempi. Seppur nata nel 1989 non si era mai rassegnata all’idea che le donne non andassero in giro sempre in gonna, e anche se aveva accondisceso ad ammettere che in qualche occasione i pantaloni risultassero comodi e persino eleganti, appena poteva non rinunciava a tirar fuori i tacchi e svolazzare sulle sue caviglie sottili, che più di una volta avevano fatto voltare teste in sua direzione.
Si era commossa Agata a leggere le ultime parole della nonna, ma non lo aveva dato a vedere. Era la terza volta che perdeva un parente, e aveva imparato ad elaborare il lutto e ad accettare la morte serenamente. Non le piaceva farsi consolare. A dirla tutta, era lei a non essere brava a consolare gli altri in circostanze del genere, ma siccome “non va fatto agli altri quello che non si vuole essere fatto a sé”, si era imposta di imparare ad affrontare il dolore da sola, come soli restavano quelli cui lei negava una parola d’affetto.
Agata era fatta così, istintivamente rigida e intransigente, prima di tutto con sé stessa. Fortuna che, di tanto in tanto, arrivasse puntuale qualcosa o qualcuno che suo malgrado riusciva a farle ritrovare il “fanciullino” sopito in lei, e le impedisse di diventare irrimediabilmente pesante e catastrofica.
A tredici anni aveva già un buon numero di letture classiche alle spalle, e ci fu chi la convinse a provare la magia di un romanzo fantasy; a sedici anni trasbordava bigottaggine da tutti i pori e predicava la castità fino al matrimonio, e non mancò chi riuscì a farla crollare con un solo abbraccio; a vent’anni credeva che si dovesse amare solo una volta e per tutta la vita, ma andando avanti arrivò anche chi riuscì a farle sciogliere quelle due parole che le strozzavano illegalmente in gola, in una stupidamente meravigliosa notte di passione clandestina.
Perché Agata era tormentata, divisa irrimediabilmente in due tra quello che doveva essere e quello che voleva essere. Che in fondo non sapeva nemmeno lei esattamente cosa fosse. E puntualmente i dubbi e le crisi mistiche l’assalivano, passava settimane, mesi a scavare dentro di sé alla ricerca delle cause primigenie del suo disagio, le trovava, le affrontava, e riemergeva, più forte, convinta di aver trovato finalmente una sua stabilità mentale. Fino alla crisi successiva, almeno.
Agata moriva e rinasceva ogni volta, come quel salotto d’oro zecchino che si sgretolava sotto l’indelicatezza del tocco della gente, e che periodicamente aveva bisogno di essere ritoccato, restaurato. Perché entrambi appartenevano ad un’altra epoca, belli ed austeri come erano tanto da mettere in soggezione gli sguardi; ma fragili allo stesso tempo, troppo per poter sopravvivere, da soli, tra persone che non hanno cura e non sanno apprezzare quanto di prezioso li circonda.