Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: rossella0806    19/07/2016    2 recensioni
E' vero che la vita toglie sempre qualcosa per poi restituire con gli interessi?
E' quello che pensa Lara, una ragazza di ventitré anni, che studia Lingue a Milano ed è nata due volte.
Quattro anni prima, infatti, era stata rinvenuta esanime nella camera del convitto in cui si era trasferita dopo la fine delle superiori; l'incidente misterioso che l'ha vista coinvolta non è mai stato chiarito, costringendola a rimanere in coma per tre mesi.
Quando si sveglia, un giorno di fine aprile, non ricorda nulla, sa solo che deve riprendere in mano la sua vita e, per farlo, dovrà impiegare tutta la forza e la caparbietà che nemmeno lei sapeva di possedere.
La riabilitazione nel reparto di Neurochirurgia durerà un altro mese, ma alla fine ne uscirà vittoriosa e più determinata che mai, anche grazie all'aiuto del dottor Cavani, l'uomo a cui deve la sua stessa vita, e di cui si innamorerà perdutamente.
Ma la strada da percorrere è ancora lunga ed in salita.
Riuscirà Lara ad affrontarla?
P.S. Il titolo della storia è un omaggio al film (tratto dall'omonimo libro) di Boris Pasternak "Il dottor Zivago", un autentico capolavoro che vi consiglio di vedere!
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ho visto un posto che mi piace, si chiama Mondo
Dove vivo non c’è pace ma la vita è sempre intorno
Più mi guardo, più mi sbaglio, più mi accorgo che
dove finiscono le strade è proprio lì che nasce il giorno
Ma questo è il posto che mi piace, si chiama Mondo …
Sì, questo è il posto che mi piace …

(Cesare Cremonini, “Mondo”, 2010)


Il giorno in cui mi risvegliai, ormai quattro anni fa, lui fu la prima persona che vidi.
Ero sdraiata in un letto asettico, circondata da strani macchinari e pompe infusionali, con le braccia fasciate per nascondere gli aghi che, in quei mesi, mi avevano alimentata ed idratata.
Sbattei le palpebre più volte, perché non riuscivo a mettere a fuoco tutti i particolari che mi attorniavano: era come se avessi un velo di nylon che mi impedisse di guardare, che mi dividesse dai presenti, eclissandomi nel mio forzato obnubilamento.
Cercai di alzare la testa, facendo leva sui gomiti, ma dei dolori laceranti mi impedirono di realizzare il mio intento.
Era infatti come se avessi delle lance che puntassero ferocemente contro le tempie e la nuca, oltre ad una vaga nausea che mi permeava la bocca e la gola.
Pensavo che, di lì a poco, avrei vomitato, tanto che urlai di portarmi un catino, uno straccio, insomma qualcosa per non sporcarmi.
Ma la mia voce non voleva sentire ragione di uscire, era come se le mie corde vocali si fossero atrofizzate.
Mi ritrovai a boccheggiare alla stregua dei pesci, mentre le mie pupille riprendevano lentamente a mettere a fuoco.
“Eccola qui la nostra campionessa! Come ti senti, Lara? Sono il dottor Cavani, il neurochirurgo che ti ha seguito in questo periodo. Sei in ospedale, nel reparto di Terapia Intensiva, perché tre mesi fa hai avuto un piccolo incidente. Abbiamo dovuto indurti il coma farmacologico, in modo da non rischiare che il tuo sistema nervoso subisse delle ripercussioni. Adesso, però, la cosa più importante è avvertire la tua famiglia che ti sei risvegliata e che è andato tutto bene. È fuori che aspetta di entrare, al resto penseremo dopo, non preoccuparti”.
Mi sfiorò una guancia e mi fece l'occhiolino.
Tanto bastò perché quell'uomo sui trentacinque anni, la barba castana incredibilmente curata e gli occhi color ambra, mi apparisse come l'angelo salvatore: lo so che potrebbe sembrare melenso e, forse, addirittura esagerato, ma vi posso assicurare che, conciata com'ero in quel momento, lui incarnava davvero colui che mi aveva sottratto alla morte.
E poi, non bisogna dimenticare che, sebbene fossi stata estubata, ero ancora sotto l'effetto della morfina, che mi aiutava a non sentire troppo dolore -nonostante il ricordo delle recenti fitte alla testa fosse ancora ben vivido dentro di me-, custodendomi in quel guscio attutito che divide la realtà dalla fantasia.
Il mio eroe si abbassò su di me ed estrasse da una mano una piccola torcia: la accese senza preavviso, puntandomi contro la luce fastidiosa che emanava, muovendola di lato, in alto ed in basso e, infine, direttamente nelle iridi.
Le mie pupille reagirono malamente a quello stimolo, chiudendosi all'istante, ma questo doveva essere stato un buon segno, perché annuì soddisfatto.
Mormorò qualcosa alle due infermiere lì presenti e al collega anestesista, quindi uscì attraverso la porta automatica, le mani affondate nelle tasche del camice immacolato.
Mi sembrò di vedere un sorriso di trionfo e di dolcezza affiorare sul suo bel viso, simbolo che il suo lavoro era stato ricompensato dal mio risveglio, ma forse era stata solo una mera suggestione.
E fu in quel momento che, finalmente, pensai alle parole che mi aveva detto: ero stata in coma per tre mesi, avevo avuto un incidente – quale, di grazia? Perché io, per quanto mi sforzassi, davvero non riuscivo a ricordare cosa fosse accaduto- e mi trovavo allettata nel reparto di Terapia Intensiva.
Beh, forse l'ordine delle parole non era proprio lo stesso con cui lui si era espresso, ma il risultato non cambiava, un po’ come recitava la famosa proprietà commutativa dell’addizione, una delle poche regole matematiche che ancora ricordo.
Sdraiata, con le infermiere poco più mature di me che mi rivolgevano sinceri sorrisi in stile “Bentornata nel mondo dei vivi, cara”, cercai di portarmi una mano alla testa, questa volta con più calma.
Scelsi l’arto destro, quello meno riempito di tubicini e fili, e ciò che scoprii non fu affatto piacevole.
Dovevo essere un mostro, mi convinsi, perché avevo parte della testa coperta da una benda elastica, sotto cui si estendeva un impacco di garze che, venni a sapere poco tempo dopo, celava l'ingresso della mia derivazione ventricolare esterna, una sorta di ennesimo catetere con la funzione di drenaggio per rimuovere il liquor in eccesso nel mio cervello, e collegata ad una specie di colonna di plastica numerata per controllarne costantemente la quantità.
Sempre più tardi, mi venne spiegato che, nelle ore immediatamente successive al mio incidente - di cui, però, tutti si premuravano di non lasciarsi sfuggire nemmeno una sillaba-, avevo dovuto subire un intervento all'encefalo, per questo avevo i capelli cortissimi.
Chiesi uno specchio, ma ancora la mia voce faticava a farsi sentire, forse per colpa del sondino naso gastrico, l’ennesima diavoleria da cui ero stata colonizzata.
“Non avere fretta, Lara” si premurò di rassicurarmi una delle infermiere, alta, la chioma riccia e gli occhiali, avvicinandosi per controllare la sacca vescicale ai piedi del letto.
Ma certo che ho fretta! Avrei voluto risponderle, accidenti!
Come avrei potuto subire passivamente tutto ciò che mi stava accadendo? Avevo il diritto di sapere, di conoscere cosa mi fosse successo, eppure nessuno si premurava di spiegarmi nulla.
In quel momento, a risollevarmi dall’angoscia e dal senso di smarrimento che stavo cominciando a provare, entrarono i miei genitori e i miei fratelli, Giada e Matteo, l’entusiasmo fatto persona.
A pensarci bene, forse non si riversarono tutti in massa, perché lo spazio in cui mi trovavo non era per nulla agevole, a causa dei macchinari e delle due infermiere ancora presenti.
Quello che mi ricordo ancora molto bene, invece, fu l'abbraccio e le lacrime di mia madre, che mi strinse talmente forte da temere di perdere i sensi.
Non riesco a quantificare, invece,  per quanto tempo la mia famiglia poté fermarsi, probabilmente poco, perché poi caddi in un sonno profondo, dove le voci arrivavano ovattate, fino a scomparire del tutto.
Quando mi svegliai, lui era lì, e mi disse che avevo dormito quattro ore.
Era seduto sul bordo del mio letto, in fondo ai piedi, come se non volesse disturbare.
Aveva le mani intrecciate sulle ginocchia, e mi salutò con il solito sorriso caldo e suadente che avevo adocchiato prima.
“Come stai, Bella Addormentata?”
Deglutii qualche volta, sperando che la voce fosse ritornata.
“Bene … ma …. sono … stanca” riuscii a mormorare.
Avevo il respiro lievemente in affanno, sebbene mi accorsi di aver calato sul viso una sorta di maschera trasparente, con gli elastici che si congiungevano dietro il capo.
“Ti aiuta a respirare meglio” mi spiegò indicandola, intuendo i miei pensieri.
“Contiene del semplice ossigeno, che però permetterà ai tuoi polmoni di espandersi come facevano fino a pochi mesi fa”
Cercai di annuire, ma una fitta in prossimità della derivazione mi costrinse ad assumere un'espressione di sofferenza.
“Quel tubicino, invece, serve per non farti gonfiare la testa come un pallone! Te lo abbiamo messo dopo l'operazione a cui sei stata sottoposta”
Sorrise nuovamente e si alzò dal suo angolino, per venire a controllare la mia interessantissima fasciatura.
“Direi che va bene … se premo così, in questo modo, ti fa male?”
“No”
Sotto il suo tocco delicato e professionale, chiusi gli occhi, avvertendo per la prima volta quel profumo che tanto avrei amato.
“Questa la toglieremo tra qualche giorno, dopo che faremo la TAC di controllo: non devi preoccuparti, è un esame indolore e breve, che ci aiuterà a capire come sta il tuo cervello”
“Quanto … tempo … dovrò … rimanere … qui?”
Lui tornò al suo posto, in fondo al mio letto, ma questa volta rimase in piedi.
“Beh, a questa domanda non so ancora risponderti. Diciamo che una buona parte dipenderà dalla tua volontà di ripresa, che sono sicuro non mancherà, ma molto sarà determinato dall'esito degli esami strumentali a cui ti sottoporremo, per valutare le condizioni del tuo cervello. Ah, ovviamente dalla prossima settimana verrai trasferita in reparto, dove potrai iniziare le sedute riabilitative con la logopedista ed i fisioterapisti”
Cercai di annuire, immaginando il calvario che mi avrebbe aspettato.
“Che … giorno … è … oggi?”
“Mercoledì, precisamente le diciotto e trenta di mercoledì 20 aprile”
Nell'udire le sue parole, puntuali e tinte di una vaga sfumatura ironica, mi sembrò di essere un'extraterrestre proveniente da un pianeta lontanissimo, un pianeta in cui il tempo e le stagioni non esistevano.
O meglio, esistevano, ma erano profondamente dilatati e soggettivi.
“Adesso ti lascio riposare. Ciao, Lara, ci vediamo domani mattina”
Mi accarezzò una mano, anche se sarebbe meglio dire che me la sfiorò e, sorridendo mestamente, uscì attraverso la porta automatica.
Attesi che la sua ombra svanisse nel corridoio, quindi richiusi gli occhi, solo per qualche secondo.
Mi sentivo sfinita ed intontita: mi ricordo che cercavo di stringere le mani a pugno e di sollevare le gambe, ma i movimenti che ne seguivano risultavano incredibilmente rallentati.
Avevo sentito in un programma TV, qualche tempo prima, che le persone in coma perdono le capacità cognitive in virtù di quelle non cognitive: possono insomma continuare a sentire, a percepire delle presenze attorno a loro, così come la respirazione e la circolazione sono pressoché mantenute intatte, però non riescono ad interagire con l’ambiente che le circonda.
Io credo che dipenda molto dalle caratteristiche del singolo: ad esempio, per quanto riguarda la mia esperienza, non ho visto alcuna luce irraggiarmi prima del mio fatidico risveglio, sebbene posso azzardare di affermare che, forse, in quei tre mesi, mi era stato possibile per davvero distinguere rumori, suoni e voci, a cui ero comunque impossibilitata restituire un volto.
Scacciai quelle riflessioni troppo profonde per quei momenti delicati, concentrandomi sulla forza di volontà che avrei impiegato per riprendermi completamente, il più presto possibile.
Speranzosa e piena di iniziative, voltai il viso verso la parete alla mia destra, dove mi accorsi che si apriva un’ampia vetrata, le tapparelle abbassate a metà: lo so, appena atterrata dal mio nuovo Paese straniero, non vi avevo fatto caso, ma quello scorcio anonimo, composto dal cortile interno dell'ospedale e macchiato di qualche abete e aiuola in fiore, era la cosa più bella e più pura che avessi mai visto in tutta la mia vita.
Ciò che era accaduto prima, infatti, per me rappresentava ancora l'oblio.
Don’t give up, because you want to be heard. If silence keeps you, I ... I will break it for you.
Don’t give up, it’s just the hurt that you hide. When you’re lost inside, I ... I will be there to find you.
Già, neppure io mi sarei arresa, ma avrei lottato per riappropriarmi del passato che mi era stato tolto.



La canzone finale è di Josh Groban, “You Are Loved (Don’t Give Up)", 2006 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: rossella0806