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Autore: EtErNaL_DrEaMEr    22/04/2009    4 recensioni
Prima classificata al contest "Le Nuvole" indetto Nikelaos 87.
Aveva paura.
Possibile che un vampiro ne provasse?
Non sapeva nemmeno questo, ma non trovava altro modo, altra parola con cui identificare ciò che sentiva.
L'unica cosa che aveva fatto, da quando era stato trasformato, era uccidere.
Solo quello.
E ora aveva paura di essere diventato un mostro.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alice Cullen, Jasper Hale
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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JA



I am falling... safely to the ground




Quel sangue.
Quel bambino.
Quelle mani...



Sotto la pioggia che cadeva incessantemente, le sue mani rosse rivolte verso l'alto sembravano l'unica nota di colore. Ma lui voleva solo che sparissero. Voleva solo che quelle macchie di sangue potessero sciogliersi e perdersi tra quelle gocce, facendogli dimenticare ciò che aveva fatto.
Invece, quelle immagini continuavano a perseguitarlo, impietose.

Si rivedeva qualche ora prima, solo e affamato.
Rivedeva il momento in cui il suo fiuto aveva individuato del sangue.
Rivedeva l'istante in cui aveva preso a correre velocissimo verso la sua preda, senza preoccuparsi di chi fosse.
E lo stupore, l'orrore, quando i suoi denti erano affondati su un collo, e i suoi occhi avevano visto il volto terrorizzato e spaesato di un... bambino.
Un essere umano di neanche otto anni, una creatura che ancora non sapeva nulla della vita, e aveva già incontrato la morte. E la morte era arrivata con lui, Jasper Withlock Hale.
Tutto quello che aveva visto, provato e fatto non era nulla in confronto agli occhi spalancati e impauriti di quel bambino.
L'aveva ucciso.
Aveva bevuto il suo sangue.
E poi era scappato, lasciando un piccolo corpo all'ombra di un vicolo, immerso nel silenzio.

Lui che, oltre a dover uccidere per sopravvivere, era costretto a rivivere negli altri quelle stesse sensazioni di sgomento. Le stesse che aveva provato lui di fronte a Maria, Nettie e Lucy, quella notte di tanti anni fa.
Nonostante il suo addestramento, nonostante l'essere un soldato l'avesse abituato ad assistere a scene di ogni genere, uccidere era comunque devastante, ma non conosceva altro modo per sopravvivere. Tutti i morti che aveva sulla coscienza, tutto quel sangue, tutte quelle vite spezzate... in qualche modo venivano giustificati dal suo istinto di sopravvivenza. Ma mai si era spinto così oltre. Mai tra le sue braccia aveva visto secondo dopo secondo la vita spegnersi negli occhi di un bambino.
Aveva provato di nuovo a resistere ai suoi istinti, a reprimere la sete, ma non ce l'aveva fatta, e i risultati erano stati ancor peggiori.
Non aveva provato pietà.
Non aveva provato ribrezzo per se stesso.
Non aveva provato a fermarsi.

E questa era stata solo la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

Era stanco di uccidere e la depressione che da anni lo perseguitava non accennava a lasciarlo; le emozioni che ogni giorno riecheggiavano amplificate in lui avevano ormai un effetto devastante.   
Non gli davano un attimo di tregua, non smettevano mai di farlo sentire come se la sua testa dovesse scoppiare da un momento all'altro. Temeva di non riuscire più a gestire se stesso e ciò che gli stava attorno.
Non sapeva più che cosa fare, dove andare.
Cosa ne sarebbe stato della sua vita?

La verità è che aveva paura.

Possibile che un vampiro ne provasse?
Non sapeva nemmeno questo, ma non trovava altro modo, altra parola con cui identificare ciò che sentiva.
L'unica cosa che aveva fatto, da quando era stato trasformato, era uccidere.
Solo quello.
E ora aveva paura di essere diventato un mostro.
Perché doveva esserci qualcosa di sbagliato in lui, qualcosa che non andava. Prima Maria, poi Peter e Charlotte... in nessuno di loro aveva trovato un punto di riferimento definitivo; con nessuno di loro la sua depressione aveva trovato fine.
Doveva esserci per forza qualcosa di sbagliato, e lui doveva assolutamente capire cos'era quel qualcosa e fermarlo. Altrimenti, ne sarebbe uscito completamente pazzo.
Ne era sicuro.

Smise di camminare di colpo, fermandosi quasi nel mezzo del marciapiede. Alzò la testa, puntando gli occhi scuri al cielo. Sbatté una sola volta le palpebre, lasciando che la pioggia gli bagnasse il volto, cercando una risposta in quei nuvoloni grigi che sovrastavano la città.
Poi, sconsolato, chiuse gli occhi, sospirò e riabbassò il capo, passando dal fissare il cielo a fissare il marciapiede sotto di lui.

Gli avevano detto che mettendo un piede davanti all'altro, camminando, era possibile arrivare ovunque.
A lui bastava arrivare. Non gli importava dove, non gli importava quando e di certo non gli importava perché: voleva solo giungere da qualche parte. Poter dire di essere arrivato dove doveva arrivare, avere la consapevolezza di essere finalmente a casa - se mai fosse esistito un posto da poter chiamare in quel modo.
Perché, ora come ora, non riconosceva più nulla di ciò che lo circondava: non c'era una strada, un edificio, un volto che gli fosse familiare; più si sforzava, e meno riusciva a trovare la sua, di strada.
Davanti a sé vedeva solo un percorso fatto di paura, l'unica sensazione che al momento riuscisse a riconoscere e distinguere fra le tante.

La pioggia che aumentava lo distolse dai suoi pensieri.
Si rese conto che stare lì, tra la gente che camminava, non sarebbe stata una buona idea. Attirare l'attenzione era l'ultima cosa di cui aveva bisogno.
Così riprese a camminare, cercando un posto chiuso in cui infilarsi. Trovò una bettola seminascosta e decise di entrarvi: era semideserta, c'erano poco meno di una decina di persone. Meglio così.
Quando mise piede nel locale, però, venne investito da un'ondata di emozioni piuttosto insolita. Anzi, la maggior parte di quello che sentiva erano sensazioni piuttosto ordinarie, perlomeno per un luogo del genere: noia, sfiducia, voglia di estraniarsi dalla realtà... sensazioni che sembravano riflettersi come su di uno specchio sui volti di coloro che sedevano ai tavoli del locale, chi con un bicchiere in mano, chi con lo sguardo spaesato fisso nel vuoto.Quello che l'aveva colpito più di tutto, invece, era stata un'emozione diversa.
Sembrava euforia.

Fece ancora qualche passo dentro al locale, senza abbassare il cappuccio nero che gli copriva il volto per la maggior parte.
Cercò con gli occhi la persona dalla quale proveniva quello strano stato d'animo, e vide una ragazzina balzare giù da uno sgabello vicino al bancone. La vide camminare verso di lui, senza capire che volesse fare.
C'era qualcosa in lei che la rendeva... diversa. Non sembrava affatto umana. Forse era per la pelle così pallida, o per quegli occhi dorati.
O forse era perché il suo cuore non batteva.

Nell'esatto istante in cui si rese conto che chi gli stava venendo incontro era della sua stessa specie, si mise sulla difensiva.
Cos'altro poteva volere, se non attaccarlo?

Eppure, più quella ragazza gli si faceva vicino, più sul suo volto andava dipingendosi un grande sorriso, e le sue emozioni continuavano ad amplificarsi, a sorprenderlo.
Euforia.
Felicità.
Speranza.
Chi mai poteva provare sentimenti del genere verso di... lui?

Quando gli fu di fronte, la vide inclinare di poco la testa verso sinistra, continuando a guardarlo con quegli occhi vispi.
Aprì la bocca, e il suono che ne uscì fu uno dei più belli che avesse mai sentito.



«Mi hai fatto aspettare parecchio.»


... Cosa voleva dire?
Aspettare?
Aspettare per cosa?

Chiunque lei fosse, qualunque cosa volesse non gli importava.
Non era disposto, dopo secoli, a lasciar perdere quelle meravigliose emozioni. E poi, si sa, i bravi gentiluomini del Sud non fanno mai aspettare una ragazza.
Chinò il capo, abbassando anche lo sguardo e sussurrando:

«Mi dispiace, signorina.»


Una volta che ebbe rialzato gli occhi, davanti a lui c'era una mano pallida ad attenderlo.
Quella era la sua strada, quella era la sua via.
La sua opportunità di cambiare.
Quella speranza che ormai aveva perso decenni prima, ora era lì, proprio di fronte a lui; non sarebbe più stato obbligato a camminare nel buio, da solo.

Che avesse avuto senso o meno, non gli importava davvero: l'unica cosa che doveva fare era afferrare quella mano e camminare insieme a lei.
Ovunque l'avesse portato.
Non sapeva come, ma era certo che, insieme a lei, non avrebbe più avuto paura.



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Hola, gente!
Dunque, questa one-shot è nata per il contest "Le Nuvole", indetto da Nikelaos87 sul forum di EFP, che prevedeva la creazione di storie su Twilight, prendendo ispirazione da versi di De André; in questo caso, la frase che ho scelto era:Dove cammina il mio destino c'è un filo di paura” (Canto del Servo Pastore). Contest che si è concluso più che bene, direi, visto che questa  storia è arrivata prima!... il che mi rende molto, ma mooolto contenta!!!XD

E, ora che  siete arrivati fin qui, intrepidi lettori............... una recensione me la lasciate, sì?!



P.S.: come credo averte già notato, le frasi in corsivo sono riprese da Twilight.



Spero vi sia piaciuto leggere questa storiella!
alla prossima,
Vale


  
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