Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
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Autore: IrethTulcakelume    19/07/2016    2 recensioni
Park Jimin, 21 anni, testa sempre tra le nuvole – sì, se le nuvole hanno i capelli neri e tre anni in meno di lui.
Jeon Jungkook, 18 anni, mente brillante versata per lo studio, un po’ meno per gli affari di cuore.
Min Yoongi, 22 anni, passione per il basket, ma qualche problemino con i blackout.
Kim Namjoon, 29 anni, uno studio di psicologia tutto suo che spesso ospita un paziente in via in guarigione.
Kim Seokjin, 31 anni, cattedra universitaria di economia e un incorreggibile complesso del salvatore.
Kim Taehyung, 18 anni, tante foto, incubi abituali e un paio di conti in sospeso con il passato.
Jung Hoseok, 21 anni, una sorella fortunatamente ficcanaso e vigliaccheria a profusione.
Non si sentono i suoni se non c’è silenzio.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Park Jimin, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Angolo autrice:
Vi giuro che sto per uccidere qualcuno. E' la quarta volta che cerco di non fare qualche stronzata con questo maledettissimo editor. Questa è la volta buona. Pregate per me.








 
Things I should have done







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Hoseok si alzò dopo quella che gli sembrò un’eternità. Aveva le gambe tutte indolenzite, gli formicolavano in modo doloroso dopo le ore che aveva trascorso accasciato contro il tronco del salice piangente. La testa gli girava, probabilmente a causa di un calo di pressione, ma si costrinse ad abbandonare il giardinetto nonostante la sua andatura barcollante. Per non cadere, quando fu quasi in strada, dovette mantenersi con la mano alla staccionata che delimitava il parco giochi, e rimase lì fermo per qualche secondo, osservando con sguardo perso l’asfalto.
Cosa aveva creduto di fare? Ovvio che Taehyung non era venuto, perché avrebbe dovuto? Dopo tutto ciò che gli aveva detto, non c’era modo che tornasse da lui, anche solo per dargli modo di spiegare. Era quello il trattamento che si meritava, dopo tutto: doveva soffrire come lui stesso aveva fatto soffrire il ragazzo che, inutile nasconderlo, amava ancora – non aveva mai smesso di farlo, nonostante le parole che aveva pronunciato mesi prima.
Però gli mancava. Gli mancava talmente tanto che riusciva a stento a portare avanti le proprie giornate senza correre a cercarlo per dirgli che aveva un dannato bisogno di lui, ma ogni volta si tratteneva, ripetendosi che era meglio così per entrambi. Forse... forse se l’avesse fatto prima, allora sarebbe servito a qualcosa. Ormai era tardi. Perché però adesso il dolore si era fatto insopportabile? Lo sentiva onnipresente nell’aria intorno a lui, lo vedeva aleggiare intorno agli edifici, gli graffiava la pelle insieme al freddo notturno. Forse perché solo quel giorno, dopo mesi, aveva rivisto il suo viso, e vi aveva letto la stessa lancinante sofferenza che attanagliava anche lui. Dicono che il tempo guarisca le ferite, ma Hoseok non era d’accordo. Era più come se il tempo avesse il potere di illudere le persone di essere guarite, solo per poi mostrare loro la cruda realtà: non si può tornare indietro, ma andare avanti è altrettanto difficile.
Il ragazzo continuò a camminare verso la propria casa, che fortunatamente non distava troppo dal luogo in cui era – non era per niente sicuro che sarebbe riuscito a camminare ancora per molto. Rischiò più volte di inciampare, ma non gli interessava, cercava solo di svuotare la sua mente, credendo ingenuamente di poter rimuovere così parte di quella sensazione gelida che era scesa su di lui da quando si era svegliato.
Svoltò a destra, poi a sinistra, e giunse nella via in cui abitava con la sorella minore. I loro genitori, che vivevano ancora a Gwanju, la città in cui Hoseok era nato, avevano acconsentito a lasciare che i loro figli proseguissero gli studi nella capitale e inviavano loro regolarmente il necessario per vivere.
Il ragazzo si tastò le tasche della giacca cercandovi le chiavi, e quando le ebbe trovate le infilò nella toppa. Tre scatti a sinistra, e la porta di casa si spalancò davanti a lui, rivelandogli che, nonostante fosse notte inoltrata, c’erano ancora delle luci accese. Hoseok aggrottò la fronte: in genere sua sorella Jiwoo andava a letto abbastanza presto, e anche quando restava sveglia più a lungo del solito lo faceva per terminare qualche libro che l’aveva appassionata particolarmente, azione che non richiedeva certo il tenere accese le lampade del salotto e della cucina.
Fece un paio di passi oltre la soglia e si chiuse la porta dietro le spalle, cercando di fare meno rumore possibile. Magari stava dormendo e si era solo dimenticata di spegnere gli interruttori, dopo tutto la sbadataggine era una caratteristica di famiglia. Mentre si stava togliendo il giubbotto, però, la voce strascicata di Jiwoo raggiunse le sue orecchie.
- Hobi, sei tu?
- Sì, sono io – rispose, terminando l’azione che stava compiendo quando era stato interrotto. Andò verso l’attaccapanni e vi appese l’indumento, prendendo nuovamente la parola. – Perché sei ancora sveglia?
- Mi stai prendendo in giro?
In effetti la ragazza non aveva tutti i torti: non era certo lei a essere rimasta per ore fuori casa, tornando soltanto in quel momento. Anzi, probabilmente era rimasta sveglia di proposito, per controllare quando – o addirittura se – sarebbe tornato. Hoseok non rispose: sapeva che qualsiasi cosa avesse detto sarebbe risultata fuori luogo. Preferì invece raggiungere la sorella, che era seduta sul divano. Si sedette accanto a lei in silenzio, e notò che indossava già il pigiama: era quello che le aveva regalato lui l’anno prima per Natale.
- È inutile che ti chieda che cos’hai fatto fin’ora, vero?
Hoseok continuò a mantenere il silenzio, non avendo il coraggio di confermare le supposizioni di Jiwoo. Ultimamente non parlavano più molto spesso, e naturalmente lui non aveva fatto nulla per cercare di riavvicinare la sorella; era sempre stato un codardo, e quando aveva interrotto la relazione con Taehyung non aveva avuto il coraggio di parlarne con nessuno, neanche con lei, la persona che lo capiva meglio di chiunque altro. Non c’erano mai stati segreti tra loro, e forse il fatto che Hoseok avesse soltanto un anno in più rispetto a lei aveva alimentato la loro complicità. Qualunque fosse la ragione, erano sempre stati molto vicini, ma negli ultimi mesi qualcosa nel loro rapporto si era incrinato, e lui sapeva che era in gran parte colpa sua.
- Tu hai la minima idea di quanto io mi sia preoccupata oggi? – La voce di Jiwoo si spezzò leggermente. Hoseok spalancò gli occhi stupito: non aveva mai visto sua sorella piangere, era sempre stata lei quella forte, pur essendo la minore. Tuttavia non sollevò lo sguardo: non ne aveva il coraggio.
Sei ridicolo.
- Io... io ho avuto paura che ti fosse successo qualcosa di orribile, – proseguì tirando su con il naso – o che tu avessi fatto qualche cazzata, che ti fossi fatto del male da solo.
Non ho abbastanza palle per suicidarmi, non preoccuparti, pensò lui amaramente, forse per rassicurare anche se stesso sulla veridicità di quelle parole.
- Sono mesi che hai alzato un... una specie di muro tra noi. Credi che sia stupida? Ho capito che c’entra con Taehyung. Un giorno gironzolate tutti allegri per casa, quello dopo torni a casa con una faccia da morto vivente e dell’altro neanche l’ombra.
Ancora una volta, Hoseok fu costretto a tacere per non darle ragione: sapeva quello che aveva fatto, e pur pentendosene non riusciva a tornare indietro.
Avresti dovuto farlo prima, ora è tardi. È tardi.
In effetti, non aveva fatto granché per nascondere il suo stato d’animo, senza però dire nulla di esplicito a Jiwoo. Vigliaccheria? Probabilmente sì, ma non lo avrebbe mai detto ad alta voce: era troppo codardo anche per quello.
- Posso capirlo, so che è un periodo difficile questo – proseguì. – Anche io, quando Jongdae mi ha lasciata, ho impiegato parecchio tempo a parlarne con qualcuno, ma... ma non ti ho mai allontanato come stai facendo tu adesso con me, o almeno non tanto a lungo.
Se ne ricordava bene anche lui: si erano trasferiti da poco a Seoul, e quando Jiwoo frequentava il corso di cinese dell’università aveva conosciuto un ragazzo, Jongdae. Avevano iniziato a parlare, poi a uscire. Si erano messi insieme, ma la loro felicità era stata di breve durata: un giorno, dal nulla, il ragazzo aveva avvertito Jiwoo che di lì a poco sarebbe dovuto partire per la Cina per portare a compimento degli studi non meglio specificati con il suo amico Minseok, e nel giro di mezza giornata il mondo era crollato addosso alla studentessa. Jongdae le aveva detto che non potevano mantenere una relazione a distanza, e senza starci troppo a pensare l’aveva lasciata. Jiwoo aveva impiegato settimane per riprendersi, settimane in cui non era uscita neanche una volta di casa e aveva smesso di seguire tutti i corsi, passava le sue giornate nel letto a piangere sconsolata. All’inizio Hoseok aveva rispettato la sua volontà di non essere disturbata: in fondo ormai era una donna, sapeva badare a se stessa. Quando però aveva notato che non accennava a riprendersi, si era fatto forza e le aveva fatto tirare fuori tutta la delusione e la rabbia che aveva accumulato, e dopo essersi beccato non pochi insulti, era riuscito a farla ragionare, a farle capire che non poteva distruggere se stessa in quel modo per un ragazzo. Era l’ultimo ricordo che aveva di se stesso come un bravo fratello maggiore.
- Però... però davvero Hobi, come tu non mi hai permesso di crollare quella volta, io non posso farlo ora con te. Sei... sei il mio fratellone, farei di tutto per vederti stare meglio.
A quel punto la ragazza aveva iniziato a piangere, ma né lei né Hoseok aveva ancora cercato lo sguardo dell’altro.
- Ti ricordi cosa mi dicevi all’inizio, quando non volevo ascoltarti? “Quel ragazzo ti ha portato via il sorriso, non era quello giusto per te, basta piangerci su”. Be’, è quello che ti dico anche io: forse... forse Tae non era quello giusto. Non puoi rovinarti la vita per lui, devi voltare pagina.
La voce di Jiwoo si spense accompagnata dal rumore di un clacson che giungeva dalla strada, insieme alle urla dei relativi automobilisti. Si sentì ancora l’allontanarsi dei veicoli, poi il silenzio calò sul salotto di casa Jung. Hoseok non aveva distolto per un solo istante lo sguardo dal tavolino da caffè davanti al divano, eppure non riusciva a vederlo bene: la sua vista, così come il suo udito, erano come attutiti. Sentiva le parole della sorella, le comprendeva, eppure il senso generale del discorso continuava a sfuggirgli.
È tardi.
- E poi anche a me manca il tuo sorriso, Hobi.
Percepì un fruscio di fianco a sé, che intuì essere segno del fatto che Jiwoo si stesse alzando.
Tardi.
- Quando vorrai parlarmi, sappi che ci sarò, ma pensa bene a quello che ti ho detto: volta pagina, o continuerà solo a farti sempre più male.
La porta della camera di Jiwoo si aprì e si richiuse cigolando, e Hoseok si ritrovò solo in compagnia del suo caro, codardo, silenzio. Nelle orecchie, solo il rumore di tutte quelle cose che avrebbe voluto dire, di tutte quelle che avrebbe dovuto fare.
Ma tanto, ormai, era troppo tardi per tutto.
 
***


Quando il sole sorse sulla capitale sudcoreana Jimin era sveglio. Aveva ormai superato quel lasso di tempo che separa l’essere ancora sveglio e il già sveglio. No, non aveva chiuso occhio quella notte, ma come avrebbe potuto?
Era sdraiato sul letto, rannicchiato sotto il piumino. Sentiva la fronte calda – forse aveva la febbre, ma non aveva le forze di alzarsi dal suo rifugio e andare a prendere il termometro. E poi, non era troppo interessato alla sua salute, non in quel momento.
Tutta la notte. Aveva aspettato tutta la notte che Jungkook tornasse a casa, che tornasse da lui. Niente. All’inizio nutriva ancora qualche speranza che avesse avuto qualche contrattempo, che sarebbe arrivato presto, ma quando era passata la mezzanotte aveva smesso di ingannarsi da solo: era rimasto a casa di Taehyung.
Si era risparmiato la scenetta patetica della telefonata: probabilmente non gli avrebbe nemmeno risposto, e se anche l’avesse fatto gli avrebbe raccontato una balla, o peggio, la verità. Avrebbe potuto mandare un messaggio a Yoongi, ma era stanco di essere visto in quello stato pietoso dall’amico. Si sentiva patetico ogni secondo di più, eppure non riusciva a cambiare la sua situazione.
Non aveva abbassato la tapparella la sera prima. Non lo faceva mai: Jungkook diceva che gli dava fastidio non vedere il cielo, sia di sera che di mattina, e che gli piaceva svegliarsi con il sole negli occhi. Jimin, però, sapeva che mentiva, o che quantomeno non diceva tutta la verità: aveva da tempo intuito che nutriva un’infantile paura del buio. Paura che lo aveva spesso portato a cercare conforto tra le braccia del coinquilino. In genere pensare a questa sua caratteristica lo faceva sorridere, ma in quel momento aveva solo voglia di piangere, pensando a quanto fosse stupido a seguire la sua volontà, anche se era stato lasciato da solo in quel modo.
Si voltò sul fianco sinistro, ma si rese conto in ritardo – dandosi ancora una volta dell’idiota – che non era assolutamente una buona idea: adesso davanti ai suoi occhi, al posto del paesaggio urbano di Seoul, c’era il letto ancora intatto di Jungkook. Sbatté il pungo chiuso sul materasso, trattenendo un verso di frustrazione: qual era il suo problema? Perché faceva così male?
E te lo chiedi anche il perché? Allora ti sei veramente rincoglionito, Jimin, complimenti.
Proprio in quell’istante, il campanello prese a squillare. Poteva essere solo una persona a quell’ora, ma Jimin non aveva le forze né fisiche né mentali per aprirgli la porta.
Il campanello suonò una seconda volta, una terza, una quarta. Lui restò nel letto.
- Ehi, Jimin, tutto bene?
Non parlare. Ti prego, non dire un’altra parola.
Notando che nessuno rispondeva dall’interno della casa, Jungkook iniziò a bussare insistentemente, chiamando il maggiore alzando mano a mano il tono di voce. Ignorato per l’ennesima volta, il ragazzo prese le chiavi, e non appena fu entrato e si fu richiuso la porta dietro le spalle, si precipitò a cercare il coinquilino, riprendendo a urlare il suo nome.
Entrò nella camera da letto, e quando vide Jimin con la faccia riversa sul cuscino, la sua espressione mutò da confusa a preoccupata.
- Che succede Jimin? Stai male?
Corse da lui e si accovacciò vicino al letto. Jimin si irrigidì: era decisamente troppo vicino. Come poteva fingere di essere preoccupato? Non lo era sicuramente. Se avesse avuto un minimo di considerazione per lui si sarebbe degnato di avvertirlo che non sarebbe tornato a casa per la notte. Eppure la sua voce era così sincera, sarebbe stato estremamente facile per Jimin credergli, ma era una trappola. Non avrebbe ceduto, non quella volta.
Jungkook non capiva perché Jimin non gli stesse rispondendo: stava forse troppo male per parlare? Avvicinò una mano alla sua fronte per controllare se fosse caldo, ma avvenne un qualcosa a cui lui – e forse anche Jimin stesso – non era preparato.
La mano di Jungkook non giunse mai a destinazione.
- Non mi toccare.
Un silenzio di ghiaccio scese sulla stanza. I due restarono immobili, Jimin con lo sguardo rivolto al materasso, Jungkook all’amico.
Inutile negarlo: non se lo aspettava. In due anni non era mai successa una cosa del genere, e non sapeva come reagire. Avrebbe dovuto chiedergli cosa fosse successo? Pregarlo? Chiedergli scusa? Ma scusa per cosa, poi? Sì, non l’aveva avvisato che avrebbe passato la notte fuori casa, ma non credeva che avrebbe avuto una reazione del genere. O forse non era solo per quello?
Tutte quelle domande lo stavano mandando in confusione: niente era mai stato così difficile e complicato con lui, non doveva mai... risolvere situazioni strane o cose del genere.
Si sentì un tonfo, ma Jimin non si voltò, andando contro il suo istinto che gli stava urlando di controllare se il suo coinquilino si fosse fatto male. Come poteva preoccuparsi per lui anche in una situazione del genere?
Essere innamorati fa schifo, fa davvero schifo.
- Jimin... io non capisco.
No, tu non capisci mai niente, non l’hai mai fatto.
Anche se i pensieri di Jimin esprimevano tutta la sua delusione, anche se il suo cervello gli ordinava di restare immobile e di non guardare Jungkook negli occhi, il suo cuore continuava a dirgli il contrario, che diamine, quello – con tutti i suoi difetti – era il ragazzo di cui era innamorato, non poteva restare con le mani in mano così. Eppure, per la prima volta da quando ne aveva memoria, Jimin decise di dare ascolto al primo. Aveva sentito la voce dell’altro incrinarsi, ma non aveva fatto nulla: aveva continuato a fissare il materasso, i pugni stretti alle coperte.
Impassibile.
Indifferente.
Come non lo era mai stato.
- Parlami, ti prego, di’ qualcosa...
Non questa volta.
Non agire, restare fermo pur sapendo che il suo Kookie – Jungkook, si corresse mentalmente, stava soffrendo, per lui era peggio di una tortura. Era straziato dalla consapevolezza di ciò che stava facendo: lasciare che, per una volta, fosse l’altro a preoccuparsi. Sì, soffriva ad abbandonarlo a se stesso, ma era stanco di esserci sempre quando lui non c’era mai.
- Per favore, non mandarmi via anche tu... io-io ti voglio bene.
Io ti amo, vedi un po’ tu chi è messo peggio.
Jimin sospirò, poi si voltò verso il muro senza degnare Jungkook di uno sguardo, dandogli le spalle – e quella fu l’azione più faticosa che avesse fatto in quei minuti. Un’unica lacrima rigò il suo viso, ma cercò di non prestarvi troppa attenzione.
Chiuse gli occhi. Inutile specificare che non dormì comunque, anche se ne avrebbe avuto estremamente bisogno. E tuttavia, anche se era sveglio, non riuscì a sentire i mormorii di Jungkook, che si era rintanato nel suo letto dall’altra parte della stanza, ancora con i suoi vestiti addosso.
- Scusatemi, tutti e due... mi dispiace tanto, mi dispiace davvero tanto.
 
***


Kim Taehyung era sdraiato sul letto. Guardava assorto lo schermo del telefono, scorrendo i numeri in rubrica. In realtà, continuava a fare avanti e indietro tra due numeri, senza sapere bene quando avrebbe smesso, o se lo avrebbe mai fatto – non ricordava nemmeno quando avesse iniziato.
Di sicuro, però, dopo ciò che era accaduto la sera prima, si sarebbe assicurato di non aspettarsi mai più nulla di buono dalla vita.
Jungkook gli aveva mentito, nella maniera più infida possibile. Erano passate ore, e ancora non riusciva a capacitarsi di quello che era successo. Stavano parlando tranquillamente, dopo essersi scambiati qualche bacio – non erano andati oltre, non c’era fretta. Era ormai notte, di questo era sicuro: il cielo era scuro, le uniche luci erano quelle della luna, delle stelle e dei lampioni. Poi lui l’aveva chiamato V, e tutto era cambiato: solo Hoseok, Hobi, lo chiamava così, e se Jungkook conosceva quel soprannome doveva aver parlato con lui. All’inizio aveva tentato di negare, ma si vedeva lontano un miglio che stava mentendo, e Taehyung non era uno stupido. O meglio, lo era, ma non fino a quel punto.

- Che cosa ti ha detto?
- Niente, non mi ha detto niente Tae, niente!

Erano almeno cinque minuti che andavano avanti così: uno chiedendo, l’altro difendendosi, uno insistendo, l’altro continuando a fingere.
- Smettila Jungkook. – Il ragazzo dai capelli corvini deglutì: Taehyung non aveva mai usato quel tono duro con lui. – Dimmelo e basta, è inutile continuare con questa farsa.
- Però... tu non ti arrabbierai tanto con me, vero?

Taehyung non rispose. Jungkook si costrinse comunque a tirare fuori la verità: in fondo, prima o poi lo sarebbe venuto a sapere comunque.
- Mi... mi ha detto di dirti che voleva vederti in un posto, “il posto”, ha detto che avresti capito. – Si fermò un attimo; non aveva il coraggio di guardare l’altro negli occhi, ma si era reso conto che stava trattenendo il respiro. Probabilmente aveva fatto un errore più grande del previsto non dicendogli nulla. Sapeva che avrebbe dovuto muoversi a riferire ciò che gli aveva detto Hoseok, ma non gli venivano le parole – l’aveva fatta grossa, ma non aveva il coraggio di pagarne le conseguenze.
- Quando? Quando voleva parlarmi?

Jungkook chiuse gli occhi. – Questa sera.
Il ragazzo sbatté parecchie volte di seguito le palpebre, stupito. – Mi auguro per il tuo bene che tu stia scherzando.
Il silenzio di Jungkook, però, fece capire a Taehyung che no, quello non era semplicemente uno scherzo di pessimo gusto.
- E tu non mi hai detto niente. Non mi hai detto niente.

Forse aveva usato un tono troppo risentito, ma quello non era il momento giusto per fare attenzione anche ai sentimenti degli altri: già tenere a bada i propri stava risultando complicato, non poteva preoccuparsi anche di come si sentisse Jungkook. Dopo quello che gli aveva fatto, poi, quello era l’ultimo dei suoi propositi.
- Esci da casa mia. Adesso.
- A-aspetta, Tae...
- No. Vai via.

 
Un ennesimo sospiro uscì dalle labbra martoriate di Taehyung. Ricordare quella scena lo faceva stare male in modo indicibile.
Non si aspettava nulla del genere da Jungkook: l’aveva sempre visto come un ragazzo sincero, allegro, vivace; mai avrebbe immaginato che potesse essere un bugiardo. Forse poteva non avere intuito l’importanza che quell’incontro avrebbe avuto per lui, ma non avrebbe dovuto mentirgli in ogni caso.
A quello, poi, si sommava l’immagine semplicemente terrificante di Hoseok che lo aspettava. Quanto era rimasto nel loro parco giochi? Ore? Rabbrividiva al solo pensiero. No, probabilmente se n’era andato dopo neanche un’oretta, vedendo che non arrivava. Sarebbe stato un comportamento da Hoseok, in fondo. Forse, se Jungkook gli avesse detto subito di quell’incontro, non ci sarebbe neanche andato. O forse sì, e avrebbe ricevuto le risposte che non aveva il coraggio di cercare da mesi.
- Fanculo.
Stufo di restare in quello stato catalettico, si alzò dal letto e, preso il minimo indispensabile, uscì di casa. Era ancora mattina presto, il sole era sorto da poco, ma i bar erano già aperti. Fu proprio sentendo il profumo di croissant proveniente da uno di questi che si rese conto che, in effetti, non aveva ancora fatto colazione. Il suo stomaco, come a confermare ciò che gli stava comunicando il cervello, brontolò rumorosamente, tentando di spingerlo verso il cibo. Taehyung si lasciò guidare dai propri organi interni e si imbucò nel bar prescelto, dirigendosi immediatamente verso la vetrinetta dei croissant. La sua attenzione si riversò pressoché subito su uno di quelli di dimensioni mastodontiche, alla crema: lo prese, pagò, e si sedette a un tavolino vicino alla finestra per consumare il suo pasto.
Mentre masticava, si mise a guardare fuori. In realtà, non prestava una grande attenzione a ciò che avveniva attorno a lui: si limitava a percorrere con lo sguardo gli infissi di legno, a volte magari soffermandosi sugli aloni dei vetri, o sulle crepe.
Preferiva non pensare: sapeva che altrimenti avrebbe iniziato a dare di matto, si conosceva bene. Doveva semplicemente concentrarsi su altre cose, anche prive di importanza, purché esterne ai suoi problemi. Era così che era riuscito ad attenuare un minimo il dolore per la separazione da Hoseok, avrebbe sicuramente funzionato anche quella volta.
Ormai avrebbe dovuto essere abituato a ricevere solo porte in faccia, no?
- Ehm... scusa...
Taehyung sussultò: era talmente immerso nelle sue elucubrazioni – proprio quello che voleva evitare, Bravo Tae, ottimo lavoro – che la minima interruzione gli aveva fatto fare un piccolo salto sulla sedia. Si voltò verso la fonte di quella voce, e si trovò di fronte un ragazzo probabilmente poco più grande di lui, con i capelli neri a caschetto e un’espressione gentile, quasi materna.
- Potrei prendere una di queste? – chiese mettendo le mani curate sullo schienale di una delle tre sedie che circondavano il tavolo a cui era seduto Taehyung.
- Certo, certo – rispose lui educatamente, iniziando a balbettare, senza neanche sapere il perché.
- Grazie mille – disse l’altro, afferrando la sedia e portandola al tavolo di fianco, dove un altro ragazzo lo stava aspettando. Si accorse che, nonostante fossero entrambi seduti, il divario di altezza fra i due era palese. Non sapeva a cosa fosse dovuta questa sua constatazione lucida in quel momento, e non perse nemmeno tempo a chiederselo – sapeva di essere strano, e odiava porre dei limiti alla propria follia.
La sua attenzione fu inevitabilmente attirata dalla conversazione tra i due, che iniziò non appena il ragazzo dai capelli neri ebbe preso posto.
- Hai visto quel tipo a cui hai chiesto la sedia?
- Sì che l’ho visto, gli ho chiesto una sedia. Sai com’è, gli occhi, la vista...
- Okay, okay, ma... ti assomiglia un casino, sai?
- Davvero? Mh... forse.
- Dillo che ho ragione! Tra poco è il mio compleanno, un regalino potresti farmelo.
- Questo mai. Potrebbe anche essere che tu abbia perso la testa per me talmente tanto da vedere la mia faccia ovunque.
- Oh, smettila di fare il mestruato e baciami.
Ah. Piccioncini. Solo questa ci mancava.
Taehyung si chiese se sopra la sua testa ci fosse una sorta di nuvola nera che attirava disgrazie e sfortune di ogni genere. Con tutti i tavoli che quel bar conteneva, la coppietta felice doveva scegliere proprio quello di fianco al suo? Eppure credeva di avere scritto in faccia qualcosa come del tipo “Salve gente, io sono quello con problemi di cuore e il morale a pezzi, persone allegre statemi alla larga o ve ne pentirete per il resto delle vostre brevi e insignificanti vite”.
Però doveva ammettere che anche lui aveva notato una certa somiglianza tra sé e quel ragazzo. In fondo lo spilungone aveva ragione, anche se quello che aveva intuito essere il suo fidanzato non glielo aveva concesso. Erano davvero teneri, però.
Loro erano teneri e lui era solo come un cane.
Improvvisamente sentì il proprio stomaco chiudersi in una morsa d’acciaio. Non riusciva più a sopportare la vista dei due ragazzi davanti a sé, né del croissant che aveva tra le mani, né di qualsiasi altra cosa. Perfino respirare gli riusciva difficile, gli tremavano le mani, i denti mordevano senza tregua il labbro inferiore.
Infilando il secondo “fanculo” della mattinata, si alzò frettolosamente dal tavolo con un’espressione cupa in volto e gettò quel che restava della sua colazione nel primo cestino della spazzatura che incontrò per strada. Le mani affondate nelle tasche della giacca, iniziò a vagare per Seoul senza una meta precisa.
Davvero era bastata la vista di quella coppia per farlo scattare così bruscamente? Era diventato così tanto sensibile a tutto ciò che gli stava attorno? Perfino il meteo sembrava prendersi gioco di lui: svariati raggi di sole trapelavano dalle nuvole rade, scintilla di felicità in una giornata che per Taehyung era iniziata nel peggiore dei modi.
Non si rese conto di dove si stava dirigendo fino a quando il profilo di un’altalena rossa emerse dalle strade asfaltate della città. A quel punto, lanciò un urlo di frustrazione che gli procurò non poche occhiatacce da parte dei passanti – non che gliene importasse qualcosa – e, fatta una quanto mai rapida inversione a u, si lanciò correndo verso casa sua, sperando di trovare almeno lì un minimo di conforto, un rifugio.
Ma naturalmente non poteva sapere, così come Jungkook, Hoseok e, in parte, Jimin, ciò che sarebbe accaduto quella sera – o meglio, ciò che sarebbe iniziato.
 
***


Yoongi non era per niente comodo, ma se quello era il prezzo per stare a guardare, lo avrebbe pagato con piacere. Dopo tutto, era stato lui a ideare quel piano geniale, e sentiva un bisogno fisico di seguirne gli sviluppi da vicino, come un genitore che osservi il suo primogenito crescere e fare i primi passi.
Ecco, ciò che stava per accadere nello studio di Namjoon, ore 16:07, avrebbe rappresentato i primi passi del suo piano-primogenito, e per osservarli, da bravo papà qual era, si era appostato nell’armadio di mogano. Doveva stare immobile e, in caso di emergenza, mandare un messaggio a Seokjin, che sarebbe accorso nello studio con tè e biscotti appena sfornati.
“Che tipo di emergenza?” gli avevano chiesto i due con un’espressione stranita in viso.
“Un’emergenza, insomma, non avete mai visto dei film di spionaggio?” Né Namjoon né tanto meno Seokjin avevano avuto l’ardire necessario a replicare, e Yoongi non aveva sentito il bisogno di aggiungere altro.
In realtà, l’uomo che in cucina alternava rapide occhiate al forno e ai suoi amati cruciverba si stava ancora chiedendo che tipo di emergenza avrebbe dovuto risolvere e, soprattutto, come fosse stato possibile che un ragazzino poco più che ventenne – un suo alunno, che diamine! – gli avesse dato degli ordini. E lui l’aveva anche ascoltato. Rassegnatosi all’entusiasmo di Yoongi e del proprio fidanzato – a volte Namjoon sapeva comportarsi in una maniera che rasentava l’infantile – si era rintanato nel suo regno culinario, cellulare a portata di mano, ma con la suoneria al minimo, perché il loro ospite non avrebbe dovuto sospettare di essere tenuto d’occhio non da una sola persona, bensì da tre. O almeno, queste erano le disposizioni del capo supremo Min Yoongi.
Finalmente, giunse il momento tanto atteso: il citofono suonò. Namjoon accorse e disse al ragazzo di salire, così che potessero iniziare il loro incontro, poi tornò nello studio, dove raccomandò ancora a Yoongi di essere il più discreto possibile. Si sedette alla scrivania, e aspettò.
L’ospite atteso bussò esitante.
- Avanti!
La porta si aprì, e rivelò un metro e ottantacinque di ragazzo, che già dai primi passi si dimostrò essere estremamente goffo. Sempre quello stesso metro e ottantacinque, rischiando di inciampare nel tappeto – Yoongi si chiese come fosse umanamente possibile una cosa del genere – giunse incolume alla sedia dall’altra parte della scrivania rispetto a Namjoon. Lo psicologo sorrise, e dopo aver messo da parte i fogli sparsi si rivolse al suo interlocutore.
- Bene... sono contento che tu sia arrivato in orario, non me lo sarei mai aspettato da te. Dopo tutto, oggi non piove nemmeno.
Il ragazzo ridacchiò, stendendo a stento le gambe sotto la scrivania.
Che cosa c’entra adesso la pioggia?, si chiese Yoongi. Non si fece troppe domande, però: dopo tutto, ognuno ha il suo rapporto speciale con il proprio psicologo, e lui non aveva il diritto di interferire tra Namjoon e il suo paziente. Soprattutto perché quel particolare paziente avrebbe avuto un ruolo determinante nella riuscita del suo piano.
- Tanto oggi non è una seduta vera e propria, no?
- In effetti no. Perché pensi che ti abbia chiesto di venire?
- Ehm... non lo so. Hai detto solo che non era proprio una seduta, anzi, era più un... incontro tra amici. Mi viene in mente solo un’ipotesi, ma sarebbe un po’ assurda in realtà.
Dai, ci puoi arrivare, sono sicuro che il tuo quoziente intellettivo non sia poi così basso.
- Prova – disse incoraggiante Namjoon. Il ragazzo si mise più composto e appoggiò le mani sulle cosce, preparandosi a rispondere.
- L’unica cosa che riesco a immaginare è che... che c’entri con il mio compleanno.
Bingo.
Yoongi sorrise da dentro l’armadio: c’era una probabilità di riuscita abbastanza elevata, a questo punto. Aveva fatto bene a confidare in Namjoon: il soggetto da lui scelto non era per niente male, e aveva un minimo di cervello.
Bravo amico, ora hai il mio rispetto.
- Solo che... – il ragazzo si fermò per qualche istante, come se stesse cercando le parole, ma gli sfuggissero di mente. – Io non l’ho mai festeggiato. Sai che non sono un tipo da grandi feste, non... ecco...
Ehi amico, calma, non mandarmi tutto a rotoli.
Namjoon lo fermò con un gesto della mano, e il ragazzo frenò le sue farneticazioni con un sospiro. Per un attimo Yoongi si sentì in colpa ad assistere a quella conversazione: non era sicuro che fosse giusto ciò che stava per fare. Poi ripensò a tutte le volte in cui si era sentito impotente guardando Jimin disperarsi per il suo cuore in frantumi, a tutte le volte in cui si era dovuto rialzare tra le proprie macerie per tornare a rincorrere i propri sogni. Ripensò allo sguardo perso di Hoseok mentre abbandonava il seminterrato, per andare chissà dove ad aspettare il suo V.
Doveva farlo, per il bene dei suoi amici: non poteva abbandonarli a loro stessi, anche a costo di invadere un po’ la privacy di un paziente di Namjoon. E poi, come aveva detto anche lui, quella non era una vera seduta.
- Lo so, lo so, ma ci ho pensato attentamente. Tu non dovrai preoccuparti dell’organizzazione: ho già contattato il proprietario di un locale, è un bel posto, sono sicuro che ti piacerà.
- Quindi vuoi davvero organizzarmi una festa di compleanno?
- Sì, e voglio che sia perfetta – rispose raggiante Namjoon, e Yoongi non poté fare a meno di sorridere alla reazione del ragazzo: era così genuinamente felice, anche se si vedeva che provava parecchia ansia al pensiero. In quel momento, si sentì orgoglioso della sua idea: avrebbe reso felice non solo il suo migliore amico, ma anche colui che, inutile negarlo, stava usando per raggiungere il suo scopo.
- E affinché sia perfetta, ho bisogno dell’approvazione del festeggiato, no?
Mentre pronunciava quelle parole, iniziò a frugare tra quei fogli che aveva spostato quando era arrivato il suo paziente. Dopo alcuni secondi di ricerca, la sua mano emerse dal cumulo di carte con il foglio agognato, che subito dopo porse al ragazzo di fronte a lui.
- Ho parlato con alcuni informatori dei quali non farò i nomi, che mi hanno fatto una lista dei possibili invitati.
Yoongi rischiò seriamente di scoppiare a ridere quando vide la sua reazione a quella lista praticamente infinita di nomi: strabuzzò gli occhi in un modo che aveva visto solo nei migliori film comici, e iniziò ad alternare occhiate allucinate verso Namjoon e il foglio che aveva sotto il naso. Poi, però, si ricordò che era in un armadio e che aveva degli ordini ben precisi: restare lì dentro. Senza fare movimenti bruschi. Né ridere.
- Ma... ma sono tantissimi!
Il ragazzo iniziò a scorrere con lo sguardo l’elenco, ma dopo pochi secondi restituì il foglio allo psicologo.
- Davvero, non ce la posso fare a controllare se li conosco tutti... ah, se è stato quell’impiccione di Jongin giuro che gli faccio passare un brutto quarto d’ora!
Namjoon rise a quelle parole. – Ho la bocca cucita.
- Comunque... senti, gestiscitela tu sul piano degli invitati. Tanto a me basta che ci sia una persona, e tu lo sai.
Un sorriso da sognatore si dipinse sulle labbra del ragazzo, e Yoongi, che stupido non era assolutamente, trasse in pochi istanti le sue conclusioni: quel ragazzo era felicemente fidanzato con qualcuna-barra-qualcuno, ma a lui non interessava granché quel particolare, dopo tutto.
- Tranquillo, lui ci sarà – lo rassicurò Namjoon prima di mettere via il foglio.
Qualcuno.
Lo psicologo e il paziente iniziarono a discutere di dettagli più tecnici, come le decorazioni e il cibo, che a parere del secondo era la parte più importante della festa in assoluto, e Yoongi non sarebbe potuto essere più d’accordo con lui: insomma, è la torta che fa il compleanno, il resto è tutto relativo.
Il ragazzo nascosto nell’armadio prese cautamente il proprio cellulare e digitò un messaggio a Seokjin, in cui gli comunicava che poteva abbassare la guardia: ormai il piano era decollato.
Quando i due ebbero terminato e Namjoon ebbe accompagnato il ragazzo alla porta, Yoongi poté finalmente uscire dal suo nascondiglio. Si fiondò immediatamente su una delle poltrone all’interno dello studio: aveva le gambe a pezzi, non sapeva quanto a lungo ancora avrebbe potuto reggere. Non ebbe il tempo di congratularsi con lo psicologo, però, che Seokjin varcò la porta della stanza.
Immediatamente un odore paradisiaco invase le narici di tutti i presenti – ovvero Namjoon e Yoongi – e gli occhi presero a scintillare di gioia.
- Insomma, qualcuno dovrà pur mangiare questi biscotti. Ho già fatto anche il tè.
Non appena il vassoio ricolmo di biscotti fu posato sul tavolino da caffè, Namjoon raggiunse Seokjin con il suo solito sorriso, dicendogli: - Sei unico, amore.
Si abbassò su di lui per lasciare un bacio sulle sue labbra, ma improvvisamente un verso di disappunto lo interruppe. Yoongi, un biscotto già in viaggio all’interno del suo esofago e uno in mano, aveva qualcosa da ridire su ciò che stava avvenendo davanti ai suoi occhi.
- Vi prego, non davanti a me! Vi ho già beccati una volta e non voglio ripetere l’esperienza, grazie.
I due, dopo essersi guardati con lieve imbarazzo, non poterono fare a meno di ridere per l’assurdità della situazione: uno psicologo, un professore e uno studente che avevano intenzione di portare a termine un piano di quest’ultimo stavano per mangiare tè e biscotti, appena preparati dal professore, nello studio dello psicologo. Assomigliava in modo quasi grottesco all’inizio di una barzelletta, e forse per questo anche Yoongi scoppiò in una fragorosa risata.
 
Accertarsi che il Piano sia attuabile. Fatto.
Prossima mossa: consegnare gli inviti agli invitati.
Come?
Anche per quello, Yoongi aveva già un’idea e, ovviamente, i contatti necessari. Quante cose che si potevano ottenere in un paio di giorni di comportamento non antisociale! Nonostante i vantaggi di una simile vita, però, Yoongi si promise che non avrebbe ripetuto l’esperienza per i successivi quarant’anni.
Come minimo.







Angolo autrice (parte 2):
Ce la posso fare. Ad ogni modo: li avete riconosciuti? Se sì fatemelo sapere :) Come sempre, se avete tempo e voglia lasciatemi una recensione. Ci vediamo al prossimo capitolo!
Ireth
  
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