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Autore: blacksmoon    20/07/2016    0 recensioni
L'odore di salsedine e il sole cocente di metà luglio.
La morte, l'impotenza davanti ad essa.
L'amicizia e l'amore, vie di fuga, di salvezza.
Un ragazzo troppo buono dai ricci scuri, una ragazza troppo bella dagli occhi tristi e un biondo che profumava di casa.
E poi c'era lei, e un addio struggente.
Genere: Angst, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era una situazione maledettamente schifosa e lei ne era del tutto cosciente, o almeno così credeva. Processare informazioni le riusciva piuttosto difficile in quel momento. Tutto si era azzerato nella sua mente, i suoni le giungevano ovattati alle orecchie e ogni pensiero sembrava ricoperto e offuscato da uno strato liquido e appiccicoso. Aveva camminato fino al suo appartmento, fatto i bagagli in tutta fretta e trasportato le valigie nel parcheggio semivuoto del residence. Si era mossa in modo meccanico, concentrandosi solo sulle sue mani intente a piegare vestiti e chiudere borse, cercando di alleggerire quel vuoto così pesante che le era esploso nel petto.

Aveva chiamato un tassì e comunicato l'indirizzo con voce spenta ed incerta, poi aveva buttato distrattamente il cellulare nella borsa, fissando le palme che circondavano il parcheggio rovente e inalando piano quell'aria impregnata di salsedine che ormai le era diventata tanto famigliare.
Si sentiva debole, come una bambola di pezza che veniva sballotata qua e là, impotente, incapace di prendere decisioni. Davanti alla morte non ci sono decisioni da prendere, non più, e questo lei lo sapeva bene, così come sapeva che era giusto tornare in quel posto che un tempo aveva chiamato casa, tornare dalla sua famiglia distrutta e mutilata. Non aveva versato neanche una lacrima, nemmeno una. Non poteva permettersi il lusso di piangere, pensò, mentre aspettava quel maledetto tassì sotto il sole cocente, segretamente sperando di non vederlo mai arrivare.

Poi giunsero come al rallentatore, tre biciclette che entravano a rotta di collo nel parcheggio assolato, fiondandosi verso di lei. Non potè fare a meno di sentire il suo cuore alleggerirsi per un istante. Non ci aveva nemmeno sperato, di poter avere il tempo di salutare i ragazzi che ora stavano malamente abbandonando i loro veicoli, zaini e quant'altro per terra per correre verso di lei e fermarsi un attimo prima di abbracciarla. La guardavano come se temessero che si potesse frantumare da un momento all'altro, come se fosse un'antica statua di porcellana da maneggiare con cura.

-Non c'era bisogno che veniste così di fretta per me- Si sforzò di sorridere, e per qualche assurdo motivo non le riuscì così difficile.
-Cosa cazzo stai dicendo? Stai partendo, Dio santo. Per quanto mi riguarda ci abbiamo messo fin troppo ad arrivare- Parlò il ragazzo dai riccioli scuri, con il fiatone per la corsa e il viso imperlato di sudore.
​-
Non puoi andartene. Cioè, so che devi farlo. Lo so che è giusto, ma non puoi...Oddio- Provò a spiegarsi l'unica ragazza del gruppo, tentando di assimilare le informazioni che si accumulavano sempre più veloci nella sua mente. Aveva le lacrime agli occhi e il volto stanco, elementi che si abbinavano poco al suo grazioso vestitino da spiaggia e ai fiori che portava tra i capelli scuri.

L'altro ragazzo semplicemente la fissava, con gli occhi verdi e tristi. Voleva dire qualcosa, ma quando ci provava, dalla sua bocca uscivano soltanto piccoli sospiri. Dopo cinque minuti passati in silenzio, si passò la mano tra i capelli biondi per riuscire finalmente a sputare fuori poche parole.
-Tu come stai?- Le chiese con un sorriso stanco.
-Bene- Rispose automaticamente. Non si era mai fermata a pensare ad una risposta diversa dal consueto "bene", nemmeno una volta, e nonostante sapesse quanto in quel momento suonasse falso, quasi ridicolo, non era riuscita ad evitare di rispondere così.
Sto bene.

-Oh, per favore, lo sai anche tu che non è possibile- Sbottò il moro, palesemente sull'orlo di una crisi di nervi.

-Andiamo a sederci un attimo da qualche parte, vi prego- Disse la ragazza, che a passo spedito si diresse verso le vecchie sedie intorno al cortile del residence, per poi prendere posto sulla sedia più a destra, come era abituata a fare, mentre il riccio le sedeva di fronte.
Lei invece si sedette sul divanetto dai cuscini scoloriti insieme al ragazzo con gli occhi chiari.
Erano seduti lì come se fosse un pomeriggio qualunque, ai loro soliti posti, intorno a quel tavolino da giardino tutto rovinato. Ma l'aria che respiravano sembrava essere pesante, impregnata di sale e caldo afoso. Stavano parlando ora, come se niente fosse, e lei riusciva addirittura a sorridere in modo spontaneo. Ma si vedeva lontano un miglio che non era come sempre, che ognuno di loro aveva un macigno sul petto che gli mozzava il respiro e gli impediva di ridere troppo forte.
Cercavano di scherzare, di non stare a piangere su qualcosa che era inevitabile accadesse. Stavano costruendo il loro spazio isolato da tutto il resto, dove c'erano momenti per condividere il dolore e altri per tenerlo chiuso fuori, all'esterno di quei quattro posti attorno al vecchio tavolino. Se riuscivano a tener fuori quel sentimento opprimente, finchè erano insieme, sarebbero stati bene.

Ma il dolore è parte inevitabile delle situazioni maledettamente schifose, e nonostante nessuno fosse pronto a lasciarlo entrare, un tassì bianco aveva appena parcheggiato davanti al residence.
Era quello il momento in cui non bastavano più gli scherzi, le parole o i sorrisi. Lei non aveva mai amato gli abbracci o le dimostrazioni di affetto che implicavano contatto fisico o sdolcinatezze. Eppure, mentre si stringeva al petto dell'amica e affondava il visto tra i suoi lunghi capelli profumati, seppe che avrebbe potuto restare così per sempre, mentre ciò che davvero avrebbe odiato sarebbe stato lasciare quel posto, lasciare loro.
Abbracciò il ragazzo con i capeli scuri, e sentiva le sue lacrime bagnarle la spalla sinistra. L'amico prese le sue valigie e la aiutò a caricarle sul tassì.

Lei non aveva pianto.

Ora doveva andare, doveva solo lasciarsi dietro lui. Doveva abbracciarlo velocemente come aveva fatto con gli altri due amici ed andarsene. Si avvicinò e vide i famigliari occhi verdi fissarla con uno sguardo triste, e poi le sue braccia che la strigevano. Nascose il volto nell'incavo del suo collo, ispirando l'odore di bevande al cocco, marijuana e crema solare che ormai attribuiva a lui, ad un posto sicuro, a casa. Sapeva che quell'abbraccio stava durando troppo e che il tassista si stava innervosendo. Sapeva di doverlo lasciare, ma sentiva le sue braccia stringerla più forte ogni volta che si allontanava. Sapeva che non la amava e che non lo avrebbe mai fatto, o almeno non come lei amava lui. Sapeva che ormai non aveva più importanza. Sapeva.

Appena lo lasciò, appena interruppe il contatto tra i loro corpi, il contatto con la sua palle, sentì tutto il dolore che fino a quel momento aveva tentato di evitare riversarsi su di lei e schiacciarla, lasciandola senza fiato, senza forze.
I suoi pensieri erano d'un tratto lucidi, e i suoni non erano più ovattati, e il dolore insopportabile.
Si voltò e si decise ad aprire la portiera di quel dannato tassì e a salirvi sopra. Il tassista, esasperato dalla lentezza della ragazza, partì veloce, mentre lei guardava gli amici al di là del finestrino sporco.

E seppe che quello era un addio.

Una lacrima solitaria le solcò le guance, prima di guardare per l'ultima volta quegli occhi verdi arrossati dal pianto che ancora la fissavano.

 

 

  
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