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Autore: Maledetta    20/07/2016    1 recensioni
Chester Bennington ha diciassette anni ed è probabilmente il perdente più perdente degli Stati Uniti: i suoi genitori si sono lasciati quando era piccolo e da allora gliene sono successe di tutti i colori.
Si droga, si taglia ed è il bersaglio preferito dei bulli di mezza città. L'unico alleato che ha è probabilmente la musica: l'unica amica che non lo abbandonerà mai.
Mike Shinoda ha sedici anni e si è appena trasferito in Lincoln Street assieme alla sua famiglia. È un ragazzo piuttosto normale: simpatico, con la passione per il disegno e per la musica, forse solo un po' troppo emotivo.
Cosa succederebbe se Mike e Chester diventassero amici?
Cosa succederebbe se la loro amicizia diventasse qualcosa di più?
Genere: Introspettivo, Malinconico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Chester Bennington, Mike Shinoda, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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[Chester]

Chester aprì gli occhi quel tanto che bastava per farsi accecare.
Accecato dalla penombra lieve che regnava nella sua stanza.

Cristo, sto uno schifo.
Che cazzo di ora è? 
Quanto cazzo ho dormito?


Girò la testa sul cuscino.

Faceva male.
Tutto quanto.
Non c'era una sola cellula in tutto il suo fottuto corpo che non lo stesse uccidendo.

Le tempie pulsavano.

I muscoli si lamentavano.

Il petto chiedeva vendetta.
Bestemmiando come un vecchio italiano incazzato.

Merda.

La sveglia sul comodino segnava le tre di notte.

Fantastico.

Provò a tirarsi addosso le coperte.
Faceva un freddo fottuto in quella stanza maledetta.

O forse era lui a sentire un freddo fottuto.

Si era addormentato bagnato fino al midollo.
Con gli occhiali ancora addosso.
I vestiti ancora sporchi di fango.

Forse era lui a sentire un freddo fottuto.

Devo farmi una cazzo di doccia.
Calda.
Mi verrà una cazzo di polmonite.

Si tolse le coperte di dosso.
Scalciandole via in un moto di rabbia.
Contro quel tipo di freddo erano fottutamente inutili.

Sbuffò.
Si alzò a fatica. 
Una scarica di dolori lo attraversò dalla testa ai piedi.

Uscì a fatica dalla sua stanza.

Sono messo peggio di quello che credevo...
Possibile che non mi sia rimasto un solo fottuto muscolo tutto intero?


Si appoggiò al muro.
Cercando di riprendere fiato.

La porta del bagno.
Devo arrivare alla porta del bagno. 
Posso farcela.

Si trascinò fino al bagno.
Restando appoggiato al muro per non cadere.
Imprecando ogni due passi.
Mordendosi il labbro per non urlare.

Faceva male.
Tutto quanto.

Porca puttana.
Sono a pezzi.

Dalla sua camera al bagno erano tre metri.
Tre metri dalla sua camera.
Quei tre metri sembrarono durare una vita.
Quando arrivò si sentiva morire.

Possibile che sia messo così male?

Entrò nella stanza. 
Cominciò a spogliarsi.
Imprecando ogni volta che toccava uno dei punti in cui faceva male.
Stava per entrare in doccia quando guardò lo specchio.

Non doveva guardarlo.
Era una delle sue fottute maledette regole fondamentali.

Merda.

Su quel maledetto specchio gli sembrava di vedere un fottutissimo cadavere.

Chester non era alto, ma neppure basso.
Era magro.
Troppo magro.
Le ossa sporgevano da sotto la sua cazzo di pelle cadaverica.

Era un cimitero di lividi e cicatrici con un tatuaggio sulla spalla.

Cicatrici che non si potevano nascondere.
Che tutti vedevano.
Quello che tutti volevano vedere.
Vedere cosa cazzo ci fosse sotto non rientrava nelle priorità della gente.
Troppa fatica cercare di capire.

Non sarebbe bastato un giorno per contarle, quelle cicatrici del cazzo.
Il tempo non le avrebbe mai fatte guarire.

Non avrebbe mai potuto convincere tutti gli altri che quello che lui voleva mostrare (e quindi di sicuro non quei cazzo di segni sulla sua pelle) fosse la realtà.
Per questo lasciava perdere.
Li lasciava voltargli le spalle.
Lasciava che lo ignorassero.

Come sempre.

Smise di guardarsi le cicatrici.
Si guardò la faccia.
Aveva le occhiaie.
Gli occhi arrossati.
Sembrava un cazzo di drogato.

Sono un cazzo di drogato.

Rimase a guardarsi.

Non doveva guardarsi. 
Era una delle sue fottute maledette regole fondamentali.

Su quel maledetto specchio gli sembrava di vedere un fottutissimo idiota disperato.

Un po' di solitudine.
Un po' di indifferenza.
Urla che sarebbero rimaste dentro.
Forse era un po' insicuro.
Un  po' diffidente.
Perché la gente non capiva che lui faceva quello che poteva per non cadere.
Ma non riusciva a essere chiaro quando parlava,
Quando cercava di farsi capire.
Diceva quello che nessuno avrebbe voluto sentire.
Non che cambiasse qualcosa, comunque.
Non importava cosa cazzo facesse.
Non avrebbe mai potuto convincere qualcuno ad ascoltarlo almeno una dannatissima volta.
A sentire quello che aveva da dire.
Non che avesse qualcosa da dire, comunque.
Per questo lasciava perdere.
Guardava la gente voltargli le spalle.
Guardava la gente fingere che lui non esistesse.
Lasciava che lo ignorassero.
Anche se non voleva essere ignorato.
Anche se faceva male.

Come sempre.

Distolse lo sguardo imprecando.
Entrò nella doccia.
Si lasciò scivolare lungo la parete.

Rimase lì.
Rimase lì e basta.

Gli piacevano le docce. 
Gli ricordavano la pioggia.
In doccia non riusciva a pensare.
Proprio come quando pioveva.

L'acqua calda lo fece sentire un po' meglio.

Quasi quasi questa notte dormo qui.



[Mike]

-Mike? Mike ci sei?- 
Mike aprì di poco gli occhi senza la minima voglia di farlo, sentendo qualcuno urlare per strada. Chi cazzo era che urlava per strada a quell'ora?
-Hey! C'è nessuno in casa? Terra chiama Mike Shinoda, Mike Shinoda rispondi!- 
Si rigirò nel letto ficcando la testa sotto il cuscino. Non aveva decisamente voglia di alzarsi.
Il cellulare sul comodino prese a squillare facendolo sobbalzare fra le coperte. 
–Merda...- biascicò mettendosi seduto e prendendo fra le mani il telefono -Pronto?-
-Mike, si può sapere cosa diavolo stai aspettando a uscire?- 
Joe? Perché Joe lo chiamava nel cuore della notte? Cosa cavolo voleva? E soprattutto perché diavolo stava urlando come un cretino nel bel mezzo della strada? Perché era lui l'idiota che stava urlando in strada, sicuro come era sicuro che lui si chiamava Michael.
-Sono le sette e mezza: praticamente siamo nel cuore della notte. Perché dovrei uscire?- chiese con voce impastata -Che cosa diavolo vuoi da me? -
Mike era ancora mezzo addormentato e avrebbe pagato oro e diamanti per poter restare a letto. Non che fosse un tipo pigro, anzi, ma prima delle otto non si alzava praticamente mai, malgrado il piú delle volte, eccetto quella mattina, si svegliasse intorno alle sei: non si sentiva psicologicamente pronto ad affrontare la giornata, prima delle otto.
-Dobbiamo andare a scuola deficiente!- 
Allontanò un po' il telefono dall'orecchio, infastidito dall'urlare di Joe.
-Scuola?- chiese confuso.
-Sì Mike, a scuola. Hai presente quel posto orribilmente simile a un campo di concentramento che gli adulti usano per rovinare le menti di noi poveri ragazzi indifesi? Ecco, quello.-
Mike si stropicciò gli occhi.
-Scuola.- ripeté cercando di metabolizzare la cosa. 
Poi fece il collegamento.
-Gesù Cristo, la scuola!- esclamò sobbalzando -Non ti muovere da lì, sto arrivando.- raccomandò saltando giù dal letto e catapultandosi in bagno. 
Perché diavolo la sveglia non l'aveva svegliato? Mentre si lavava i denti decise che quell'ammasso immondo di chip e plastica gliel'avrebbe pagata, primo o poi.
Mentre saltellava in corridoio cercando di infilarsi le scarpe e chiedendosi dove si fosse cacciato il suo zaino passò davanti alla stanza di suo fratello Jason, che russava beatamente ignaro del fatto che per Mike fosse il primo giorno. Jason si era misteriosamente ritrovato con una febbre vertiginosa proprio la sera prima, quindi sarebbe rimasto lì a dormire. 
Piccolo bastardo... gli venne una voglia assurda di fare irruzione urlando come un idiota, ma poi si ricordò di essere in ritardo e ricominciò a rimbalzare da un piede all'altro verso la cucina alla disperata ricerca del suo maledetto zaino. 
Che senso aveva cercare lo zaino in cucina? Non lo sapeva nemmeno lui, ma aveva un ritardo mostruoso, la sua cartella era sparita e c'era un coreano che lo aspettava sotto casa pronto a sgozzarlo per il suddetto ritardo mostruoso: era disperato.
-Mike!- urlò Joe fuori dalla porta.
-Arrivo... merda...-
Era inciampato nello zaino. Nel bel mezzo del corridoio. Cosa cavolo ci faceva il suo zaino nel bel mezzo del corridoio? 
Scosse la testa e lo raccolse, cominciano a scavalcare gli scatoloni del trasloco ammucchiati davanti all'ingresso per uscire.
-Finalmente! Cominciavo a darti per morto.- 
Joe lo aspettava in fondo al vialetto con uno zaino ricoperto di graffiti colorati appoggiato vicino a lui sul marciapiede e una faccia che era praticamente una minaccia di morte sottintesa. Nemmeno troppo sottintesa, a dire il vero.
-Scusami Joe, non avevo sentito la sveglia.-
Mike odiava le sveglie: erano oggetti semplicemente immondi. Non si sarebbe stupito se gli avessero detto che era stato Satana in persona a inventarle.
-Sì, sì, certo. Ora muoviti scimmione o perderemo l'autobus.-
Mike si ritrovò ad osservare Joe che gli camminava davanti con aria sicura: lo conosceva da due settimane, cioè dal giorno stesso in cui era arrivato in quella città dopo il trasloco. Abitava nella casa di fronte alla sua, vedersi e fare amicizia era stato inevitabile.
Quando arrivarono alla fermata, lo scuolabus non era ancora arrivato.
Perché gli autobus dovevano sempre essere in ritardo? Colpa delle sveglie, probabilmente. Mike ci avrebbe scommeso, anche se per una volta il fatto che fosse in ritardo non era una brutta cosa: insomma, era meglio arrivare tardi per colpa dell'autobus che per aver dormito troppo...
Dovettero aspettare quasi un quarto d'ora, prima di riuscire a salire.
-Hey Joe! Ti ho tenuto il posto!- urlò un ragazzo con i capelli ricci e scuri da una delle ultime file. 
Mike si rese conto di conoscerlo: quel tipo lo aveva salutato con una mano mentre entravano in città, il giorno del trasloco.
-Grazie Brad, ma per oggi passo. Ho promesso a sua madre che avrei badato a lui.- disse Joe indicando Mike.
-Cosa scusa?- 
-Stavo solo scherzando, Mike. Vieni con me.-
Joe cominciò a farsi largo nella calca di adolescenti fuori controllo verso il fondo, dove per miracolo erano rimasti due posti liberi.
-Il posto vicino al finestrino è mio.-  avvisò lanciando lo zaino sul sedile prima di andare a sedersi.
Mike si accomodò al suo fianco e prese a guardarsi attorno. 
Gli piacevano gli autobus: si sentiva a suo agio in mezzo a quel marasma di suoi coetanei che ridevano, si lanciavano di tutto e di più o facevano finta di studiare. Più o meno tutti davano il proprio contributo a quel casino generale: chi ripetendo a voce alta, chi sparando battute senza senso a raffica, chi prendendo a cartellate il proprio vicino... eppure... c'era qualcosa che non andava.
Mike avrebbe giurato che ci fosse una specie di nota che stonava, in quella sinfonia di ormoni, noia e scaga per l'imminente compito in classe. Qualcosa che andava contro tutto quell'incredibile macello, ma cosa? Non riusciva a capire. 
Insomma, cosa o chi poteva mai essere? E come faceva qualcosa stonare in mezzo a un'apocalisse acustica simile?
Continuò a vagare con lo sguardo in giro per lo scuolabus, cercando quel qualcosa che stonava.
Passò un minuto, ne passarono due, poi cinque, ma non riusciva a vedere niente di strano. Sembrava tutto perfettamente normale e incasinato, come ogni scuolabus di questo mondo dovrebbe essere. C'era solo...
-Joe, quello chi è?- chiese indicando un ragazzo seduto un paio di file davanti a loro dalla parte opposta dell'autobus.
Era mingherlino, infilato in vestiti troppo grandi e troppo scuri, con un paio di occhiali con la montatura nera sul naso e un berretto di lana che gli copriva i capelli. Sedeva da solo, ascoltava la musica con le cuffie e aveva l'aria di uno a cui fosse appena crollato addosso il mondo.
-Quello è Chester Bennington.- disse Joe con un gesto noncurante -È...  diciamo che è un po' lo strambo del quartiere.-
-Lo strambo del quartiere?-
-Sì, sai: beve, si droga come un cavallo da corsa, famiglia distrutta, vita sociale zero, perennemente perso da qualche parte nel suo mondo...- 
Joe ne parlava come se niente fosse, come se fosse normale che un ragazzo che poteva avere al massimo diciassette anni avesse una vita del genere.
-Vive qui da una decina d'anni, ma non so praticamente niente di lui se non che deve avere un fratello e un paio di sorelle maggiori, ma non li ho nemmeno mai visti. Sta con il padre in fondo alla nostra strada, se vuoi più tardi ti faccio vedere la casa.-
Mike distolse lo sguardo, domandandosi perché avesse un'aria così distrutta: ok, il divorzio dei propri genitori non doveva essere proprio una passeggiata in un campo di fiori, ma non vedeva il motivo per cui uno avrebbe dovuto deprimersi a tal punto da sembrare un cadavere.
-Ma non ha proprio neanche un amico?-
-Non credo... ho sentito dire che ne aveva uno che si è suicidato, una volta, o qualcosa del genere, ma penso siano solo voci.-
Mike tornò a guardare quel ragazzo, Chester. Quel nome lo faceva pensare ai vecchietti isterici che nei film urlavano sempre ai ragazzini di stare lontani dal loro prato. Sorrise a quel pensiero, anche se non capì il perché.
-E perché?-
-Perché cosa?-
-Perché non ha amici?- 
Era sempre stato curioso, non poteva farci niente. 
-Ma dai, lo hai visto?-
-Sì, perché? Cos'ha che non va?-
Era sempre stato anche il tipo che non riusciva a vedere nulla di strano nelle persone. Per lui erano tutti normali: i gay come gli etero, i neri come i bianchi, le donne come gli uomini, i malati come i sani.
-Bo', niente credo, ma... andiamo, è uno sfigato! E poi te l'ho detto: è strano.- sbuffò Joe mettendosi a guardare fuori dal finestrino.
Mike non capiva. Cos'era che rendeva quel ragazzo strano? Cos'era che lo rendeva uno sfigato?
Non parlò per tutto il resto del viaggio: se ne stava buono buono a cercare di capire cos'avesse quel Chester di diverso da tutti gli altri a parte il nome insolito e l'espressione depressa. Che fosse proprio quella? Si chiese se lo avrebbe mai capito. E poi si chiese se magari Chester avrebbe potuto essere suo amico. 
Mike era fatto così: gli piacevano le persone, gli piaceva avere gente attorno, avere qualcuno di cui potersi fidare e poi era bravo a rapportarsi con gli altri, era bravo a capire e a piacere alla gente.
No, lui non gli avrebbe voltato le spalle. Lui non lo avrebbe ignorato.


[...]

Fu un primo giorno parecchio noioso. Era inizio ottobre, il 6 per la precisione, il che significava amicizie già strette e gruppi già formati.
Probabilità di successo nell'inserimento: 3%. Per fortuna che  aveva un talento per le relazioni umane.
Quando arrivò assieme a Joe alla fermata dello scuolabus, Mike era reduce da tre ore di letteratura inglese, una di matematica, una di educazione fisica e due di disegno tecnico. Aveva conosciuto un po' di gente, fra cui Brad Delson, ovvero il ragazzo riccio che l'aveva salutato il giorno in cui era arrivato in città, Rob Bourdon e Dave Farrel, soprannominato Phoenix. Joe li aveva definiti come tre dei suoi migliori amici.
Dopo che era sceso dall'autobus, quella mattina, non aveva più visto Chester fino a pranzo. Anche in mensa era da solo, completamente perso da qualche parte nella sua testa e perfettamente indifferente al vassoio di cibo posato sul tavolo davanti a lui, ma Mike non ci aveva badato molto, preso com'era dai suoi tentativi di socializzazione. 
Lì davanti alla fermata, però, non poté fare a meno di notarlo: se ne stava con la schiena appoggiata a un palo, la testa abbandonata all'indietro e gli occhi chiusi. Sarebbe quasi parso che dormisse, se non fosse stato per le dita che battevano il tempo della musica che ascoltava con le cuffie.
Mike si accorse di starlo fissando e distolse lo sguardo, cercando qualcos'altro su cui concentrarsi, eppure... quasi gli dispiaceva essere l'ennesima persona che lo ignorava, perché Chester aveva bisogno che qualcuno non lo ignorasse. Se lo sentiva.
Si era accorto che era quello che facevano tutti gli altri: per l'appunto lo ignoravano, facevano finta che non ci fosse.
In autobus, in mensa e ora persino lì alla fermata: la gente gli voltava le spalle, fingeva di non vederlo. Qualcuno ogni tanto lo urtava, ma mai una parola di scusa o una lamentela da parte sua. 
Chester da parte sua canto sembrava... vuoto. Mike l'avrebbe preso per una statua se non fosse stato per quell'aspetto stanco. 
Non riusciva bene a capire che impressione gli facesse: gli sembrava uno di quei ragazzi perfettamente chiusi in se stessi, indistruttibili e intoccabili, ma c'era qualcos'altro sotto. Era come se quello fosse solo ciò che lui si era abituato a mostrare. Come se si fosse abituato al fatto che la gente non cercasse mai di vedere oltre quella maschera imperturbabile e si fosse rassegnato a lasciare in vista solo quella, nascondendo alla meglio la persona che era in realtà. Mike si rese conto che gli sarebbe piaciuto conoscerla, quella persona.
Stava quasi per decidersi ad andare a parlargli, quando qualcosa spezzò la linea dei suoi pensieri.
-Hey Bennington, hai una sigaretta?- 
Il tipo che aveva parlato sembrava apparso dal nulla e si era andato a piantare proprio davanti a Chester. Ma diavolo, non si era accorto che aveva le cuffie? 
Mike si ritrovò a studiare il volto dell'altro ragazzo, cercando qualsiasi segnale che potesse indicare che si era accorto del nuovo arrivato, ma non c'era niente. Niente di niente: o non l'aveva notato, o aveva un ottimo autocontrollo.
-Sto parlando con te, coglione!- ringhiò il tizio dandogli uno spintone. Non era eccessivamente grosso, ma Chester era magro come uno stecco e quasi finì per terra.
Senza fare una piega si rimise al suo posto e riprese a ignorare l'altro, perfettamente immobile se non per le dita che continuavano a tamburellare sui jeans. Se continuava così le avrebbe prese entro tre minuti. Poco, ma sicuro.
-Porca miseria, hai questa fottuta sigaretta sì o no?- 
Per tutta risposta Chester si limitò a smettere di muovere le dita per mettere la mani in tasca. Quei jeans dovevano essere almeno due taglie più grandi...
-E che cazzo!-.
L'altro praticamente gli si buttò addosso. Chester aprì gli occhi di scatto e schivò la carica, mandando l'altro a sbattere contro il palo per poi fermarsi a una decina di passi da lui per togliersi le cuffie.
-Vieni qui brutto figlio di una troia!-.
Mike rimase a fissare incredulo Chester che si avvicinava all'altro, in piedi davanti al palo, e gli mostrava il medio con fare strafottente.
Ma cos'era, masochista?
L'altro si lanciò ancora in avanti con i pugni alzati, ma questa volta Chester non era preparato. In un nano secondo erano entrambi terra e il tizio lo stava riempendo di cazzotti mentre lui tentava inutilmente di difendersi menando colpi alla cieca.
Mike non si accorse nemmeno di essersi mosso, non si accorse di Joe che tentava di trattenerlo. Non gli erano mai piaciute le persone violente. 
Tirò per il colletto della giacca l'altro ragazzo finché non riuscì a staccarlo da Chester, poi lo spinse con tutto il proprio peso contro il palo, immobilizzandolo prima che potesse reagire.
-Cosa cavolo combini? Vuoi ammazzarlo?-
-Ma che cazzo vuoi tu? Stanne fuori.- sibilò l'altro. 
Mike si chiese cosa fare. Se lo mollava, quello si girava e lo conciava per le feste, sicuro come la morte. Non poteva nemmeno stare lì per sempre, però. 
A salvarlo fu l'arrivo dell'autobus. Se rischiava di perdere l'autobus, quel coglione non poteva pestarlo. Quando la maggior parte degli altri furono saliti, lo lasciò andare.
-Fanculo stronzo.- gli sentì dire mentre se ne andava.
Lo scuolabus ripartì sbuffando, lasciandolo lì assieme a Chester, che stava cercando di tirarsi su da terra.
-Tutto bene?- gli chiese avvicinandosi un po'.
Il ragazzo annuì sistemandosi gli occhiali sul naso. Aveva gli occhi dello stesso colore del caffè. Mike si avvicinò ancora, deciso ad aiutarlo ad alzarsi. L'altro accettò la sua mano e si tirò su borbottando un grazie.
-Forse è meglio se fai un salto in infermeria.-
-No, sto bene.-
-A me non sembra.- ribatté Mike accennando al modo in cui Chester si teneva lo stomaco.
-Sei un cazzo di medico?-
-No... volevo solo essere gentile. Mi chiamo Mike comunque, Mike Shinoda.-
-Be', Mike Shinoda... lascia stare.- disse Chester raddrizzando la schiena e cominciando a camminare barcollando un pochino -Con me non ne vale la pena.- aggiunse poco prima di sparire al di là della prima curva della strada.
Mike era rimasto a fissarlo basito. Cosa diavolo significava che non ne valeva la pena?
No. Lui non lo avrebbe ignorato.
Quando si decise a tornare a casa, per poco non pestò qualcosa che luccicava sul marciapiede. Un cellulare? Che cavolo ci faceva un cellulare lì? Se lo mise in tasca, deciso a portarlo in segreteria il giorno dopo. Probabilmente era o di Chester o dell'altro ragazzo, uno dei due doveva averlo perso durante la zuffa. Guardò il cielo sperando che non piovesse, poi fischiettando si incamminò verso casa.



ANGOLINO NERO PER UN'ANIMA NERA
*si affaccia timidamente* buon giorno... Ebbene sì, ce l'ho fatta a pubblicare anche il secondo capitolo. La canzone è piuttosto famosa (piuttosto tanto famosa), a differenza di Robot Boy, e spero di essere riuscita a inserirla al meglio. 
Spero vi sia piaciuto il POV di Mike. Io adoro scrivere le cose dal suo punto di vista perché è semplicemente troppo puccioso. Che ve ne pare della differenziazione tra i POV? 
Fatemi sapere cosa ne pensate!
Ci leggiamo la settimana prossima (se Dio vuole), nel frattempo...
Buon Mercoledì a tutti,

Cursed_Soldier
   
 
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