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Autore: suni    22/04/2009    4 recensioni
[...]È contento quando il suo turno finisce prima del previsto e uscendo dal quartier generale trova ancora il sole ad aspettarlo, in mezzo al cielo punteggiato di nuvole candide. E, ovviamente, è contento quando il suo turno non comincia nemmeno.
Sì. Shikamaru ama intensamente, appassionatamente il proprio giorno libero.
Non è forse questa, del resto, la vera saggezza?
[Storia vincitrice della seconda Minidisfida RFN di Criticoni.]
Genere: Generale, Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Shikamaru Nara
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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A dispetto di tutti quelli, e non sono pochi, che lo definiscono apatico e indifferente a quasi tutto quel che lo circonda, ci sono molte cose che rendono felice Shikamaru Nara

Storia che si è classificata prima alla seconda Minidisfida RFN di Criticoni, che trovate qui. Ai partecipanti è stato chiesto di rispettare due consegne: quella di scegliere uno dei colori proposti come ispirazione e quella di usare in modo significativo un personaggio sorteggiato.

 

Il mio personaggio era Shikamaru Nara, il colore che ho scelto è lo 04, Forest Green (verde bosco).

 

Ringrazio sentitamente sour, la mia paziente e Infallibile Beta, e Mela e Tya per aver letto e dato un parere.

Buona lettura

suni

 

 

 

 

 

_________________________________________

 

 

 

A dispetto di tutti quelli, e non sono pochi, che lo definiscono apatico e indifferente a quasi tutto quel che lo circonda, ci sono molte cose che rendono felice Shikamaru Nara. Ce ne sono anche altrettante, è vero, che lo deprimono: dover andare nell’ufficio della hime a mettere a punto il computo delle missioni restando in piedi accanto al suo scrittoio per quaranta minuti; essere spedito in missione fuori Konoha e dover partire la mattina presto, quando il sole è a malapena un alone chiaro e l’aria punge ancora; sentire sua madre che fa una delle solite lavate di capo a Shikaku e che poi, già che c’è, rimbrotta anche lui perché se la prende sempre troppo comoda; dover aspettare per ore le delegazioni delle altre nazioni alle porte del villaggio nelle occasioni ufficiali ed essere costretto a scorrazzarle qua e là sostenendo lunghe e vacue conversazioni pompose; e un’infinità di altre possibili seccature.

Ma ci sono cose che lo rendono semplicemente lieto. Magari lo dimostra raramente, mantenendo il suo fare svogliato, ma chi lo conosce bene, come Choji, scorge chiaramente la leggera luminosità del suo viso in determinate occasioni. Shikamaru si sente contento quando il piccolo Sarutobi, in grembo a Kurenai, tende le bracciotte paffute verso di lui con un sorriso sdentato, puntando con invidia la sua coda di capelli; quando Shikaku, sbuffando come un mantice, imbronciato, s’infila la giubba perché la mamma lo costringe ad andare a fare qualche commissione e borbotta che è una strega, ma poi allontanandosi le guarda il sedere. È contento che la guerra sia finita, che l’Akatsuki sia stata distrutta e che Konoha si stia rimettendo in piedi, ed è contento che Sasuke Uchiha abbia fatto ritorno al villaggio e sia stato più o meno riammesso, non per particolare affetto nei confronti del nukenin ma perché così tutto è tornato alla quieta normalità di sempre e persino Naruto si è dato una calmata. È contento quando il suo turno finisce prima del previsto e uscendo dal quartier generale trova ancora il sole ad aspettarlo, in mezzo al cielo punteggiato di nuvole candide. E, ovviamente, è contento quando il suo turno non comincia nemmeno.

Sì. Shikamaru ama intensamente, appassionatamente il proprio giorno libero.

Non è forse questa, del resto, la vera saggezza?

 

 

 

 

PERFECT DAY

 

 

 

Shikamaru si stiracchia tra le coperte, soddisfatto. Getta uno sguardo ancora un po’ appannato fuori dalla finestra, constatando la piacevole presenza di un benevolo sole splendente, non ancora così alto da rispecchiarsi direttamente nei suoi occhi assonnati, ferendoli, ma quanto basta per rischiarare l’aria e tutto il cielo, di un azzurro irreprensibile. Sbuffa con indolenza sfregando il lato del viso contro la federa del cuscino, soddisfatto dal suo risveglio ottimale: giorno libero, da che mondo è mondo, vuol dire non essere costretti a seccanti levatacce. Ma non svegliarsi in tempi che a sua madre paiano decorosi significa essere riportati alla vita da urla brusche e altamente traumatiche, capaci di lasciarlo sgradevolmente teso per tutta la mattinata.

Oggi, invece, ha aperto gli occhi nel momento migliore: è già giorno inoltrato, ma non troppo. Il che significa che prima di scendere a fare colazione può passare ancora cinque minuti a crogiolarsi nel letto, senza pensare a nulla e tantomeno a qualcosa che abbia vagamente a che vedere con la pianificazione della giornata che va ad iniziare.

Il segreto di un perfetto giorno libero, infatti, è non progettarlo in alcun modo. Bisogna lasciare che le ore si dipanino senza nessun indirizzamento, nemmeno vago, e cogliere minuto per minuto il profondo piacere che soltanto l’ozio casuale può fornire, con le sue mille, piccole sorprese inaspettate. Soltanto così la pura essenza del dolce far niente può essere assaporata fino in fondo.

Shikamaru si stiracchia languidamente ancora, e ancora, lasciandosi sfuggire a labbra serrate un mugugno sottile, appagato. Rotola sul fianco, socchiude gli occhi per qualche secondo nel prendere un lungo, rinfrancante respiro, e si tira a sedere con calma per non sottoporre il proprio fisico ad inutili stress. Piega il collo da un lato e dall’altro, distende le spalle e si alza dolcemente in piedi, infilando i piedi nelle pantofole da casa.

La prima cosa da fare, alzandosi, è una bella capatina in bagno. Non correndo alla disperata e lavandosi la faccia mentre lega i capelli, come succede quando deve correre dall’Hokage, ma prendendosi il tempo di fare serenamente tutto, ma proprio tutto quel che si può fare di mattina in bagno: solo allora Shikamaru può entrare nell’ordine di idee di scendere a fare colazione.

È a questo punto che gli si presenta la prima lieta sorpresa di questo giorno libero: sua madre non è in casa. È una notizia abbastanza positiva, perché lei tende a parlare con un tono di voce un po’ troppo alto anche al mattino, infischiandosene di quanto questo possa influire negativamente sul suo risveglio. La seconda lieta sorpresa è che gli ha lasciato la colazione, frugale ma consistente, apparecchiata sul tavolo. Shikamaru si sistema davanti al desco e fa piazza pulita: ma con calma. Beve lunghi sorsi di tè, intervallati da bei bocconi masticati accuratamente, senza fretta. Sorride leggermente, pregustando già quel che verrà.

Fuori la giornata è radiosa. Il tempo non potrebbe essergli più favorevole: c’è una brezza fresca che sembra accarezzare la pelle, quel sole che è caldo ma non troppo e qualche piccola, bianchissima nuvola che spezza appena la monotonia celeste. L’ideale per il suo passatempo preferito: guardare il cielo. Nessuno lo importuna lungo la via con chiacchiere pressanti o richieste scomode, c’è soltanto la signora Yamanaka che gli lancia un saluto dalla soglia del negozio e Shikamaru rallenta appena il passo per ricambiarlo con un cenno vago del braccio, prima di passare oltre.

Così può raggiungere serenamente il perimetro esterno di Konoha e poi addentrarsi tra le piante, scortato da un cinguettio argentino e variegato che, lui lo sa bene, è la più dolce melodia alle orecchie dell’ozioso. Si abbandona di schianto sul prato, nel bel mezzo della radura meno frequentata di tutti i dintorni del villaggio, ed espira entusiasta mentre le sue narici sono invase dal profumo fresco della terra, le mani, la nuca e le orecchie accarezzate da soffici steli d’erba. Sopra i suoi occhi, in alto, soltanto cielo e nuvole.

Non si può chiedere di meglio alla vita.

Resta allungato lì, quasi fondendosi in un tutt’uno col terreno, rimirando quell’immensità assoluta; esamina pigramente, senza scopo, quelle nuvolette dalle forme morbide. Il trucco sta nel non cercare di appioppare loro un’immagine, ma lasciare che sia essa a formarsi da sé. C’è una nuvola che, d’improvviso, somiglia chissà come a un grosso gatto acciambellato, figura che a Shikamaru sembra di buon auspicio. Un’altra tutt’a un tratto diventa la faccia di Sarutobi e Shikamaru non se ne rende nemmeno conto quando sprofonda in una sorta di torpore sonnolento, beato.

È soltanto quando un’eco d’esplosione lo riscuote repentina, facendogli sollevare le palpebre, che s’accorge d’essersi addormentato. Aggrotta vagamente la fronte, raggiunto da un altro breve boato, prima di rizzarsi a sedere con uno sbuffo. Il sole è visibilmente più alto di prima e le sue guance sono piacevolmente tiepide; deve aver dormito almeno un’ora. Chissà perché, la prima cosa che gli viene in mente è una partita a scacchi con Asuma di diversi anni prima: forse l’ha sognato. Sorride assorto, prima di sospirare ancora per una nuova eco.

“Ma chi è che scoccia…” borbotta, tirandosi pigramente in piedi.

S’incammina nella direzione da cui provengono le esplosioni senza fretta: sono brevi e intervallate da lunghe pause; non sembrano indicare una minaccia. Infatti, quando dopo un breve slalom tra le piante – uno scoiattolo gli schizza in mezzo ai piedi, saltellando su un tronco fino a sparire tra le fronde – sbuca in una seconda e poi in una terza radura, è la sagoma gialla e arancione di Naruto che gli si presenta agli occhi. Il jinchuuriki si sta allenando e le esplosioni che Shikamaru sentiva non erano altro che gli scoppi dei suoi jutsu tra gli alberi, contro le rocce.

Yo, Naruto,” esordisce, alzando la voce quel tanto che basta a farsi sentire e nulla più.

L’altro si volta di scatto, illuminandosi di un sorriso.

“Shikamaru!” esclama, col fiato corto. “’Tebayo! Che ci fai da queste parti?”

Lui lo guarda neutro, stringendosi nelle spalle. Niente, è la risposta. Dopo qualche secondo Naruto lo intuisce, perché ridacchia sornione.

“Tu ti alleni, mh?” commenta lui, indolente.

“Già,” conferma l’amico, passandosi una mano sulla nuca bionda. “Ti va di fare qualche colpo?”

Shikamaru scuote automaticamente la testa, ritroso. Caccia le mani in tasca e punta lo sguardo tra i rami, sfuggente.

“Magari sto qui a dare un’occhiata,” osserva, vago.

Naruto ride ancora, annuendo, prima di tornare di lena alla sua massacrante attività. S’impegna sempre con ogni energia, mettendoci tutto se stesso. Il risultato è mediamente devastante, a giudicare dallo stato in cui versa quella parte del bosco, ma Shikamaru è ben contento di dover sopportare qualche botto rumoroso e sedersi lì a lato della spianata a guardarlo allenarsi. Perché una delle cose più piacevoli che possano capitare a uno che non sta facendo niente è di rimanere a osservare senza muovere un dito qualcun altro che si danna di fatica. Tanto più se la fatica è totalmente volontaria: quando guarda i suoi compagni darsi da fare controvoglia, Shikamaru prova sempre una punta di maligna soddisfazione che, seppure piacevole di per sé, gli lascia nelle vene un leggero senso di colpa. Ma Naruto è ben contento di sfinirsi come un mulo e quindi lui può starsene lì a girarsi i pollici con la coscienza pulita, sgravata da ogni sentimento negativo.

Eccellente.

Per giunta Naruto sembra felice di avere compagnia. Ogni tanto si volta e gli lancia qualche mezza frase svagata o gli chiede cosa ne pensa delle sue tecniche. Shikamaru butta lì repliche concise e più esaustive possibile, sinceramente ammirato. Pensare che una volta Naruto era lo zimbello del villaggio, e adesso è una bestia.

Il sole è già quasi a picco e la fame comincia lontanamente a venire in avanscoperta, discreta, quando il suono improvviso di una voce altera e profonda alle sue spalle lo fa voltare.

“Nara.”

“Sas’ke,” risponde lui, per nulla sorpreso. Era sicuro che sarebbe arrivato, presto o tardi: quando c’è da menare le mani con Naruto, Sasuke è sempre il primo della fila. Il genio gli fa l’onore di rivolgergli un cenno del capo che, con uno slancio spontaneo di fantasia, Shikamaru interpreta come una domanda.

“In forma. Tu?” smozzica distrattamente.

Mh,” bofonchia Sasuke, annuendo brevemente.

Shikamaru lo osserva avvicinarsi all’amico senza salutarlo, quasi come se Naruto fosse invisibile. È il jinchuuriki a farsi avanti con un gran sorriso, allungando una mano per elargirgli un leggero spintone.

Yo, Sas’ke,” esclama allegramente.

Sasuke brontola qualcosa che, andando a intuito, ha a che fare con “dobe”. Poi sistema il coprifronte tra i capelli neri e raddrizza il fodero della katana sulle spalle, e Shikamaru decide che s’è fatta l’ora di andare. Finché si tratta solo di Naruto – o solo di Sasuke, ma la compagnia non sarebbe granché significativa – non si corrono grandi rischi, ma quei due insieme sono un potenziale cataclisma e rimanere a guardare il loro allenamento, ovvero il reciproco farsi a pezzi, comporterebbe un’altissima percentuale di possibilità che finiscano accidentalmente per ucciderlo.

“S’è fatta l’ora di pranzo, per me,” annuncia, alzandosi dalla sua improvvisata poltrona rocciosa. “Ci si vede in questi giorni,” continua, muovendo leggermente la mano in saluto.

“Oh, te ne vai?” chiede Naruto, distogliendo per qualche istante l’attenzione dalla preparazione di Sasuke ad un nuovo, probabile tentativo di omicidio. “Noi saremo qui per qualche ora, casomai non sapessi che fare,” lo informa, vivace.

“Lo terrò presente,” risponde lui, accennando un nuovo sorriso. “Sas’ke,” conclude sintetico, ottenendo di far storcere il naso a Sasuke con l’accompagnamento di un borbottio che, pur con tutto il suo acume, non gli riesce proprio d’interpretare. Di ritorno al villaggio il genio s’è fatto ancor più schivo – spocchioso, secondo alcuni – di quand’era partito.

La nuova sequela di esplosioni prende il via quando Shikamaru s’è già allontanato di qualche centinaio di metri, e questa volta si susseguono violentemente, a ritmo serrato. Non può fare a meno di complimentarsi con se stesso per la bella idea di levare le tende e avanza meditabondo tra le piante, perso in pigre fantasie senza scopo, fino a lasciarsi il bosco alle spalle e rientrare in Konoha. Vagabonda verso casa finché, a poche centinaia di metri dalla meta, intravede una sagoma ben nota e rassicurante.

“Shikamaru!” lo saluta Choji, sventolando un pacchetto di patatine. “Ti stavo venendo a cercare.”

Niente di strano: è ora di mangiare.

“Ciao, Choji,” risponde, dimesso.

Il suo amico si è fermato a lato della strada e lo guarda sorridendo, con la mano che fa su e giù tra il pacchetto e le labbra. Al suo braccio ciondola una busta che, con ogni probabilità, contiene il loro pranzo.

“Non avevi da fare per conto della hime, oggi?” chiede stancamente Shikamaru, poggiando un fianco contro il muretto accanto a sé.

Choji annuisce, deglutendo.

“Ho un paio d’ore per pranzo. Ci mettiamo sul tetto?” propone, e poi sorride soddisfatto. “Ho portato provviste,” specifica blando, perché tanto la precisazione non era necessaria.

Shikamaru fa un cenno d’assenso, incamminandosi accanto a lui. Una cosa bella di Choji è che non va mai di fretta, come lui. Camminano alla stessa velocità – cioè lentamente, prendendosi il tempo d’incatenare un passo dopo l’altro – e Shikamaru ritiene sia una cosa meno insignificante di quel che possa sembrare. Ino, per esempio, sembra sempre avere i piedi su un nido di formiche rosse giganti, e ogni volta che vanno da qualche parte insieme nel tempo libero si danno fastidio a vicenda, loro costringendola ad aspettarli ogni dieci metri, lei picchiettando le punte delle scarpe in terra spazientita.

Lui e Choji, invece, hanno proprio la stessa andatura.

“Hai visto che bel cielo, stamattina?” interloquisce placido il suo amico, sgranocchiando. “Prima mi sono messo dieci minuti alla finestra, mentre Genma-san non mi vedeva.”

“Ho visto sì,” conferma Shikamaru, issandosi oltre il bordo del tetto con movimenti contenuti. “Ero nella foresta. Ho anche incontrato Naruto che si allenava,” aggiunge distrattamente, accoccolandosi sulla panca sotto il gazebo.

Choji annuisce, impugnando il suo sacchetto per estrarne un paio di grossi cartocci profumati.

“Ho preso degli spiedini,” annuncia, passandogliene uno.

Shikamaru fa un cenno d’approvazione, poggiandoselo sulle ginocchia prima di iniziare a svolgerlo.

Mangiano in silenzio quasi assoluto, gustandosi ogni boccone. Poi Choji, fiero, tira fuori dalla sua magica busta un pacchettino di dolcetti che, se possibile, rendono il momento ancor più glorioso. Si allungano svogliati a guardare verso l’alto, mangiucchiando.

Ino è innamorata di Sai, mh?” osserva d’improvviso Choji, e Shikamaru sa che vuole tastare il terreno. Si stringe nelle spalle con noncuranza, perché davvero non gl’importa. Per qualche stupida ragione, nella sua mente balena velocissima l’immagine di due sfrontati occhi d’un verde caldo che, assurdamente, ricorda le querce intorno a Konoha.

“Buon per lei, no?” commenta distaccato. “Per lui non tanto,” aggiunge, ironico.

Choji gli lancia un’occhiata di sbieco e sorride, rasserenato.

La digestione è un altro momento delicato del giorno libero. Shikamaru l’assapora intorpidito, col sottofondo del respiro lento e altrettanto sonnolento di Choji. Il sole a quest’ora picchia forte, il tetto è caldo ed emana un tepore che sembra conciliare ancor più il sonno.

“Le hai ancora?” lo riscuote improvvisamente Choji, pacato.

Shikamaru gli getta un’occhiata tra la sorpresa e la rassegnazione, prima di infilare la mano nel taschino della giubba della divisa. Ne estrae un vecchio e inutilizzato pacchetto di sigarette scolorito, un po’ accartocciato, che apre con due dita prima di porgerglielo. Choji ne afferra una e se la porta alle labbra, mentre Shikamaru torna a guardare il cielo, pensoso.

“Prima l’ho sognato. Credo,” afferma, vago. Buffo, che anche a Choji sia venuto in mente il sensei proprio oggi.

Sente gli occhi dell’amico puntarsi su di lui, senza che gli faccia nessuna domanda o dica nulla per qualche secondo. Poi emette un respiro appena più profondo.

“Credi?”

Shikamaru agita leggermente la mano, rimettendo il pacchetto al suo posto.

“Mi sono svegliato pensando a una partita,” spiega, lento. “Era proprio un disastro, a scacchi.”

“Sei tu che sei impossibile da battere,” lo contraddice Choji, sicuro, ridacchiando sotto i baffi.

Shikamaru sbuffa condiscendente, fissando una nuvola che sembra una torre.

All’inizio è stato doloroso, ma col passare del tempo, dopo la guerra, Asuma è diventato pian piano un ricordo, che dà forza, e non una perdita, che prosciuga; uno di quei ricordi bellissimi, assoluti, per cui non si può soffrire perché sarebbe far loro torto.

Lo realizza coscientemente proprio in questo momento, rendendosi conto che anche questa è una cosa buona. Sorride tra sé, poi sbadiglia ancora.

“Non dovresti tornare al quartier generale, tu?” commenta noncurante. “E’ il mio giorno libero, non il tuo.”

“Hai ragione,” concorda Choji allegramente, alzandosi a sedere mentre spegne il mozzicone al suolo. Si tira in piedi con uno slancio di buona volontà. “Ci vediamo domani, Shikamaru. Non ti dirò di approfittare della giornata, perché so già che lo farai.”

“Buon pomeriggio,” risponde lui, con un cenno di saluto, prima che l’altro s’allontani silenzioso.

Ascolta il leggero scalpiccio dei suoi passi diventare silenzio e inspira a fondo, completamente rilassato. È appena a metà giornata e davanti a lui si disegna la prospettiva delle parecchie ore di dolce far niente che ancora lo separano dall’andare a dormire definitivamente. A quel pensiero Shikamaru riabbassa le palpebre sugli occhi, meditando sull’ipotesi di un sonnellino, ma lì sul tetto di cemento il caldo non perdona. La cosa migliore è passare a casa e farsi un bel bagno rinfrescante, sperando di non imbattersi in sua madre, prima di riprendere le sue edificanti e gradevolissime attività vacanziere.

Esita ancora per qualche minuto, rosolandosi nell’immobilità, finché una goccia di sudore non cola dalla sua tempia verso il suolo: è un segnale. Shikamaru si alza, ciondolante, torna dal tetto alla strada lasciandosi quasi cadere di gradino in gradino, di muretto in muretto, sfruttando l’inerzia per risparmiare energie.

Lungo la strada cammina mani in tasca, lo sguardo sui piedi e la testa fra le nuvole. Sta considerando che potrebbe portarsi uno spuntino, come qualche frutto fresco, da mangiucchiare nella vasca da bagno, quando la voce di suo padre lo riscuote.

“Shikamaru!”

Volta la testa di scatto: Shikaku, il vecchio furbastro, è accampato sotto un parasole chiaro davanti alla solita bettola, con un bicchiere davanti e un sorriso pacato nella sua direzione. Shikamaru sospira e scrolla appena la testa, deviando verso di lui.

“Se ti vede la mamma…” commenta saggiamente.

“Dov’è?” esclama Shikaku, lanciando intorno un’occhiata guardinga. Lui si stringe nelle spalle e il padre annuisce pazientemente, come a sottolineare che ciascuno ha la sua croce. Gli fa cenno di sedersi, bonario. “Da dove arrivi?” chiede vago.

Shikamaru si abbandona a sedere con svogliatezza, scrollando le spalle.

“Ho pranzato con Choji,” annuncia piatto.

“Non sarà facile digerire, con questo caldo…” commenta il padre grave. “Ehi, servi due dita di sakè al ragazzo,” aggiunge, voltando appena la testa indietro.

“Io non…” inizia Shikamaru, ritroso.

“Su, su, non ti metto mica sulla cattiva strada,” osserva suo padre, compreso. “Te lo meriti. Lavori duro, ed oggi è il tuo giorno libero,” osserva, mentre il suo fido barista deposita davanti a Shikamaru un bicchierino pieno di liquido trasparente con un sorriso d’intesa a Shikaku. “Sei fortunato ad essere tanto benvoluto dalla nostra Hokage, lo sai. Gente così se ne trova poca, anche se è una donna.”

Shikamaru annuisce senza fare commenti. Suo padre ha molta stima di Tsunade, e fa bene: l’Hokage ha un caratteraccio, ma è una donna fuori dal comune e un grande capo villaggio.

“E’ esigente, però,” osserva, giocherellando col bicchiere.

“E’ giusto,” commenta Shikaku, serio. “E poi tu non sei certo un pivello, è normale che si aspetti molto da te. Sei mio figlio, no?”

Shikamaru accenna un sorriso noncurante, mascherando il sottile piacere che si percepisce, al di là del tono quasi da satira, nelle schiette parole di sue padre. Dopotutto, insomma, è davvero dura digerire con questa calura e ultimamente ha lavorato molto: se lo può anche permettere, quel sakè.

“Già,” commenta, portandosi il bicchiere alle labbra. Manda giù un primo sorso: è dolce e amaro insieme, non gratta la gola e fa allargare i polmoni. “Comunque, le cose sono tranquille in questo periodo, niente rogne all’orizzonte.”

Shikaku annuisce ancora, prendendo un sorso a sua volta.

“E’ giusto. Non ci possono essere problemi sempre, e la quiete si alterna alla bufera. Così funziona il mondo,” aggiunge saggiamente.

“Per fortuna,” conclude Shikamaru, concorde.

Tacciono per qualche istante, meditabondi, con i volti adorni della medesima espressione assorta.

“Cos’hai fatto stamattina?” chiede Shikaku, riscuotendosi.

“Oh, niente di che,” risponde Shikamaru facendo spallucce. “Quattro passi nella foresta, cose così,” conclude, svuotando il suo sakè.

“Dormito?” domanda Shikaku ironico, smascherandolo.

“Quando ci vuole ci vuole,” risponde lui, distogliendo lo sguardo.

“Ben detto,” concede suo padre, soddisfatto.

Shikamaru arriccia il naso, reprimendo uno sbadiglio, e resta in silenzio accanto al genitore, condividendo la quiete cittadina. Per digerire starà anche digerendo, ma quel sakè l’ha intontito ancor più di quanto già non fosse. Sbatte le palpebre un paio di volte, con gli occhi che quasi s’incrociano e l’abbiocco che gli preme sulle spalle. Gli sembra quasi che il suo collo non possa più reggere la testa.

Non ha più bisogno di fare il bagno, decide. Andrà bene riuscire a trovare un posto fresco in cui raggiungere la posizione orizzontale e, per esperienza, sa che il più adatto di tutti è la boscaglia sulla riva del lago, dove la brezza è fresca e umida d’acqua. Assolutamente ideale, per un momento come questo.

“Vado a fare una passeggiata in riva al lago,” borbotta, alzandosi dalla sedia.

“Certo. Una passeggiata,” commenta Shikaku, saputo. Mica per niente è suo padre, del resto. “Ci vediamo a cena, figliolo.”

“Ciao, pa’,” risponde lui, allontanandosi con le mani in tasca.

Trascina i piedi verso il limitare di Konoha, verso le fronde di quegli alberi che gli sono tanto care e il luccichio riposante delle acque limpide del lago. Sbadiglia, deliziato dalla vista di una volpe che, disturbata dalla sua silenziosa comparsa nel sottobosco, scatta via guardinga sparendo tra i tronchi.

Sul declivio erboso che muore nel lago Shikamaru conserva la posizione eretta giusto per il tempo necessario a individuare il punto in cui l’angolazione del terreno è più favorevole al riposo. Si lascia crollare in ginocchio e poi si accascia dolcemente avanti, affondando il viso tra gli steli d’erba freschi con le braccia spalancate a terra e uno sbuffo compiaciuto che sgorga dalle sue labbra spontaneo. Si rotola voluttuosamente per riportare lo sguardo sul cielo e le nuvole, contornati dalle foglie e dai rami.

Questa è, indubbiamente, una giornata perfetta, come difficilmente potrebbero essercene di migliori. Ed è con questa certezza indissolubile che Shikamaru si addormenta, proprio mentre un piccolo stormo di rondoni sfila nel cielo sopra la sua testa, linee sinuose di nero che diffondono la loro musica di cinguettio.

 

 

“Nara, sempre a poltrire, mh? Potresti almeno evitare di russare.”

La voce è melodiosa, soave ed indubbiamente beffarda, e Shikamaru la conosce bene. Le sue palpebre si sollevano di loro iniziativa per trovare, in mezzo al verde delle piante, quello altrettanto vivo e luminoso degli occhi di Suna no Temari, fissi si di lui con malizia e scherno. Sbuffa automaticamente, condiscendente.

“Cosa ci fai tu qui?” borbotta, rassegnato, perdendosi suo malgrado in quelle iridi di foresta.

Temari sogghigna, trionfale.

“Ti do noia,” risponde, ironica.

E sebbene la cosa sia seccante, dimostri che il suo cervello non è poi così ineccepibile e non abbia nessunissimo senso, Shikamaru pensa che, incredibilmente, si era sbagliato: adesso sì, è davvero una giornata perfetta. E non può che migliorare ancora.

 

 

 

 

END

 

 

 

 

   
 
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