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Autore: arsea    22/07/2016    4 recensioni
Post Apocalypse e possibili spoiler!
Charles ed Erik non sono così lontani come è stato in passato, ma l'ennesimo tradimento è troppo vicino per poter essere cancellato. Charles non può permettersi più di perdonare, anche se è certo che il ci sarà presto un'altra occasione per farlo. Non può permettersi di credere alle parole di Erik. Non può più permettersi di credere in Erik e basta.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Dottor Henry 'Hank' McCoy/Bestia, Erik Lehnsherr/Magneto, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Boston, un anno dopo la chiusura della Scuola per Giovani Dotati
 
Si era sforzato di tener duro mentre le stanze si svuotavano e la disperazione piano piano mangiucchiava ogni suono, ogni colore, consumando prima l’ambiente e poi i suoi stessi, pochi, abitanti, ma adesso guardava quella lettera e tutto ciò che riusciva a pensare era che non aveva alcun senso resistere se l’unico risultato possibile era cadere di nuovo.
In completo nero sotto la pioggia gelida, ascoltava le parole del prete con un orecchio soltanto, troppo accecato dal pianto convulso della donna a pochi metri di distanza, la madre, e cercava con tutte le sue forze di non soccombere al dolore che lo circondava e che andava a sommarsi al proprio.
La bara di Sean era di mogano scuro, legno lucido di un paio di tonalità più fosche dei capelli rossicci che aveva avuto il suo giovane studente, e non riusciva a concentrarsi su molto altro mentre il funerale proseguiva intorno a lui.
Qualcuno si domandava chi fosse, i genitori lo avevano visto solo una volta del resto, ma i più erano troppo preoccupati a piangere o a fingere di farlo per preoccuparsi davvero.
Lui non riusciva più nemmeno a fare quello, stringeva solo la lettera e restava immobile.
Sean era a Westchester quando era giunta la chiamata al fronte e nessuno se ne era stupito poi molto dopo la partenza di Alex qualche settimana prima.
Aveva cercato di impedirlo, di proteggerli, ma le sue conoscenze non erano bastate, nemmeno il suo denaro, ed era stato costretto a vedere anche lui uscire dal portone con il capo chino e spaventato, senza nemmeno la possibilità di seguirlo con la mente nel posto lontano in cui sarebbe andato.
Lo aveva seguito con Cerebro, aveva fatto lo stesso anche con Alex, ma ben presto Hank glielo aveva proibito. Si faceva coinvolgere troppo, la maggior parte delle volte diveniva solo il modo di condire i suoi incubi e rendere insopportabile la sua veglia.
Aveva comunque saputo prima di chiunque altro che era morto.
Prima della lettera che lo annunciava e che adesso stringeva in mano, prima che i genitori lo invitassero alla cerimonia.
Il funerale durò meno di quanto aveva pensato, ben presto si ritrovò a gettare una manciata di terra bagnata su ciò che restava di Banshee, lo stesso ragazzo che era stato con lui a Cuba, coraggioso e impavido abbastanza da lottare contro Shaw, eppure nessuno dei presenti lì ne sapeva nulla.
Attese finché tutti non furono andati, attese finché gli addetti non riempirono la fossa e posizionarono la lapide, attese come un’ombra silenziosa finché non rimase solo e il sole impallidito dall’inverno non rimase a galleggiare che come un disco appannato alla fine del suo percorso.
La pioggia non aveva smesso di scendere nemmeno per un momento, inzuppandogli i vestiti e le scarpe, facendo appiattire i capelli che ormai gli sfioravano le spalle e gocciolando dagli occhiali scuri che gli nascondevano il volto.
Era contento di essere venuto da solo. Avere Hank affianco non gli avrebbe permesso di lasciarsi andare allo sconforto che covava e che ormai lo divorava dall’interno come un cancro.
Hank sapeva troppo di quel sentimento perché riuscisse a nasconderglielo.
Rimase lì finché le sue gambe non cominciarono a farsi pensanti, il siero era vicino a perdere il suo effetto, quindi prese la piccola dose che l’amico gli aveva consegnato prima di andare e se la iniettò, lì fermo davanti alla tomba di Sean, chiedendosi se il giovane sarebbe stato contento di vederlo di nuovo in piedi.
Era solo il primo mese che provava quella cura miracolosa, aveva pensato come Hank che riavere le gambe lo avrebbe aiutato ad uscire dal gorgo nero in cui stava cadendo, ma già dopo la prima settimana la gioia di poter camminare ancora era stata soffocata di nuovo dall’oscurità della solitudine e del silenzio, anzi, quella felicità aveva creato la paura devastante di perderla un’altra volta.
Tornare alla sedia a rotelle adesso sarebbe stato come morire per lui.
Si incamminò verso l’auto a noleggio senza dire nulla a quella tomba fredda, se mai aveva avuto un dio a cui rivolgersi per certo non doveva essere in vena di ascoltarlo visto l’accanimento con cui lo tormentava, quindi donò il suo silenzio a Sean, l’unica cosa che gli era rimasta davvero.
Non avrebbe dovuto faticare per toccare persino la costa con il suo potere, anche a quella distanza, ma il siero soffocava le sue percezioni e le inibiva, lasciandogli quel poco che bastava a leggere le menti più vicine per potersi difendere in caso di pericolo e allo stesso modo camminare senza niente più che un leggero fastidio alla base della schiena.
Un equilibrio fragile e perfetto.
Non che il suo potere gli servisse a poi molto.
Non aveva impedito alla guerra di bussare alla sua porta, non aveva protetto i suoi ragazzi, non aveva fermato Raven o Erik dall’abbandonarlo.
L’unica cosa che la sua telepatia era capace di fare era rendere ogni ferita più profonda e indelebile, ogni dolore più consapevole, lasciandolo ogni singola volta boccheggiante e circondato da persone convintissime che avesse ogni cosa sotto controllo.
Come poteva essere diversamente del resto?
Lui leggeva la mente, era un genio, doveva avere tutto sotto controllo, non aveva certo bisogno d’aiuto!
Chi poteva aiutare Charles Xavier?
Sentiva dolore al petto, come un bruciore asfissiante, la sensazione spiacevole di star soffocando senza alcuna possibilità di scampo.
Eppure aveva lottato. Dio se aveva lottato!
Non meritava forse un po’ di pace? Un rifugio almeno, qualcosa cui aggrapparsi.
Non gli restava più nulla.
Si fermò di fronte al primo negozio di liquori che incontrò.
Non scese. Rimase fermo al suo posto, stringendo il volante e costringendosi a richiamare bene alla mente l’immagine di Sharon, di sua madre, abbandonata sul divano come il relitto di donna che era nonostante gioielli e abiti firmati, e l’inconfondibile aroma dello sherry che impregnava la stanza.
Le sue mani tremavano mentre si ripeteva che non avrebbe mai permesso a se stesso di cadere tanto, non avrebbe bevuto nemmeno un bicchiere in quello stato, non avrebbe ceduto a quel facile sollievo.
Girò di nuovo la chiave, mise in moto e tornò in carreggiata, spingendo profondi respiri fuori dai denti.
Non era caduto nemmeno quando aveva perso le gambe, giusto?
Cos’era il dolore di adesso rispetto a quello che aveva già provato?
Si fermò di nuovo, una stazione di servizio questa volta, e si diresse a passo di marcia fino al bancone del piccolo negozietto, afferrando due pacchetti di sigarette senza filtro e un accendino, ignorando ostentatamente le occhiate della cassiera e di un altro cliente ai suoi vestiti zuppi e alla barba di tre giorni.
Accese la prima appena fuori, una lunga e liberatoria boccata che scese ad infiammargli l’esofago e i polmoni, ma era di gran lunga migliore quello al resto che lo tormentava.
Era un pessimo vizio che aveva iniziato al college, quando aveva pensato fosse l’unico modo per dimenticare ansia appiccicosa come colla e frustrazione carnivora, e fortunatamente lo aveva abbandonato prima che diventasse un problema vero e proprio, ma mentre il sapore acre gli impregnava la lingua provò lo stesso sollievo di un tempo.
Guidò senza meta per un po’, scivolando per le strade come il fantasma che si sentiva di essere, e quando nel primo pacchetto non rimasero che due sigarette si ritrovò di fronte all’albergo dove Hank aveva prenotato la sua stanza per la notte, senza comunque aver deciso davvero di raggiungerlo.
Lasciò l’auto al parcheggiatore e si appoggiò di traverso ad una delle colonne dell’entrata per finire di fumare, continuando così a fissare da una parte la pioggia incessante appena fuori dal suo riparo e dall’altra godendo della luce della hall illuminata.
Il concierge ogni tanto gli lanciava qualche occhiata furtiva, lo credeva il rampollo annoiato di qualche facoltoso ospite, e del resto quel suo aspetto trascurato strideva con il completo di sartoria e l’orologio che portava al polso, perciò mentre si toglieva gli occhiali e si massaggiava stancamente le palpebre quel giudizio superficiale lo fece sorridere nonostante tutto << Charles? >> per un momento quando sentì quel richiamo sperò che fosse Raven.
Di poche cose aveva bisogno più che di sua sorella, ma quando si voltò i pensieri dell’uomo di fronte a lui non appartenevano a lei << Sei proprio tu! Charles Xavier! >> si spinse sul volto il suo sorriso di circostanza, ormai sempre più difficile da ostentare man mano che il tempo passava, sempre più pesante della sua inutilità, ma l’imponente uomo che aveva davanti sembrò apprezzarlo << Il professor Saman Devine se non ricordo male. È un piacere rivederti >> si strinsero la mano e Charles si sforzò di nascondere quanto poco avesse voglia di parlare in quel momento.
Soprattutto dopo aver sperato per l’ennesima volta di trovare Raven in un estraneo.
Doveva smettere di cercarla intorno a sé o ci avrebbe rimesso il senno << Ti ho visto mentre passavo nella hall, ma non ti ho davvero riconosciuto finché non ti sei tolto gli occhiali >> indossava anche lui un completo, più formale di quello che gli aveva visto indosso ormai quasi due anni prima, ma il suo corpo lo vestiva bene, dando ancora più imponenza ad un’altezza e un modo di porsi che già senza alcun aiuto incutevano rispetto << Ti trovo bene >> disse non senza una certa sorpresa, stringendo la mano tesa simulando più sicurezza di quella che provava.
Non c’era da stupirsi che gli attenti occhi verdi lo stessero scandagliando dalla testa ai piedi, ricordava ancora come l’avevano fatto in passato, e ugualmente non si stupì nemmeno di come la sua cordialità si trasformò in preoccupazione << Sei qui da solo? >> domandò cauto, prima di qualsiasi altra cosa.
Avrebbe potuto stupirsi delle sue gambe ad esempio. Tutti si stupivano delle sue gambe.
Tre anni in sedia a rotelle e quelle maledette ruote erano diventate parte della sua personalità, come se vi fosse nato sopra.
Invece Saman non sembrava stupito che fosse in piedi << Sì >> disse solo, lasciando cadere il mozzicone e schiacciandolo con il tacco << Posso offrirti un drink? >> chiese l’altro, sciogliendosi il cravattino con gesti frettolosi e Charles si trattenne a stento dal ridacchiare, racimolando un po’ del vecchio se stesso per rispondere visto che non aveva alcuna intenzione di raccogliere la pietà di un semisconosciuto << Mi dispiace, ma sono stanco e preferirei tornare nella mia stanza. Mi ha fatto piacere vederti >> si incamminò allora, offrendo un sorriso pallido come saluto prima di superarlo, ma aveva fatto a malapena un passo quando la stretta di quelle mani fin troppo grandi lo fermarono prendendolo per un braccio << Che cosa è successo? >> chiese senza mezzi termini, come se avesse qualche diritto di fare una domanda del genere, come se potesse capirlo, come se volesse farlo.
Si liberò con uno strattone, fulminandolo con lo sguardo, ma prima che potesse proseguire Saman gli sbarrò la strada << Lasciami passare >> sibilò il telepate << Non voglio infastidirti. Permettimi solo di accompagnarti. Hai un aspetto terribile >> << Non mi conosci abbastanza per potermi dire una cosa del genere >> lo freddò, quindi sostenne quegli occhi verdi per qualche secondo ancora mentre cercavano di farlo desistere, ma alla fine si limitò a fare un passo di lato per lasciargli libero il passaggio << Buonasera >> azzannò Charles a quel punto, proseguendo per la sua strada senza voltarsi indietro.

*** 
“Non toccarmi!”
“È inutile continuare ad urlare! Nessuno ti può aiutare!”
“Aiuto!”
“Perché a me? Cosa ho fatto? Cosa ho fatto?”
“Stai lontano da me!”
“NO!”
L’urlo si propagò violento dalla sua mente, divorando il suo respiro e prorompendo dalla sua bocca con tale impeto da assordare lui stesso.
Aprì gli occhi sul soffitto buio di quella stanza sconosciuta, in tale stato di shock che per un lungo minuto non riuscì a scindere se stesso dalle migliaia di altre coscienze che lo stavano attraversando, le sue mura erano in frantumi, e anche quando Charles tornò Charles la sensazione di soffocamento non si attenuò di molto, le menti altrui continuavano a schiacciare la sua ad intervalli improvvisi, lasciandolo tremante ed inerme in mezzo al letto bagnato del suo sudore freddo.
Il siero.
Il maledetto siero.
Si aggrappò a quel pensiero per riprendere le fila di se stesso, tutto ciò che era si ridusse allo sforzo di trascinare il suo corpo fino alla siringa ricolma di liquido dorato.
Afferrarla nella stretta convulsa delle sue dita fu un sollievo che aveva l’amaro sapore della disperazione, tremava come una foglia mentre se lo iniettava, e per i successivi due minuti il suo corpo rimase ancora intrappolato nella morsa soffocante del dolore e dell’angoscia, poi il silenzio tornò misericordioso, accolse con consolazione immensa la fastidiosa sensazione del suo potere che si appannava come consumato da un virus, e infine si ritrovò a fissare di nuovo il soffitto di tenebra, il respiro affannato e i capelli che aderivano al suo viso a causa del sudore e delle lacrime di sofferenza propria e aliena.
Si rannicchiò su se stesso quando tornò a sentirsi le gambe, si voltò su un fianco e si ritrovò a singhiozzare come un bambino mentre la paura continuava a ristagnare densa e vischiosa dentro di lui.
Le notti come quella erano sempre più frequenti ultimamente.
Aveva chiesto ad Hank se non gli fosse possibile prendere una dose più sostanziosa prima di andare a letto, ma lo scienziato lo aveva invitato alla cautela perché c’era il rischio che la sua telepatia si spegnesse del tutto.
Quale perdita sarebbe stata!
Imprecò coloritamente alla stanza buia, nauseato da se stesso e dalla propria debolezza, e decise in quel momento che non poteva permettersi di crogiolarsi nello sconforto.
Si tirò su ignorando il proprio tremore e il battito furioso del suo cuore sincronizzato con l’emicrania che gli stava fiorendo sulle tempie, trascinandosi infine nel bagno e poi nella doccia.
Si lavò con l’acqua fredda, per svegliarsi e per dare vigore al corpo rattrappito dallo shock, insistendo con irritazione sotto il getto gelido finché non si ritrovò a battere i denti, quindi usò il rasoio per tornare a riconoscersi allo specchio, e senza nemmeno dare un’occhiata all’orologio cominciò a vestirsi, con meticolosa precisione come un tempo, uscendo infine portandosi dietro solo il portafogli e le tre sigarette che erano rimaste nel pacchetto.
La hall era deserta se si escludeva la luce accesa del guardiano notturno, i tavoli e le poltrone solitamente illuminati e riscaldati dalla presenza di persone e chiacchiericcio conviviale erano sostituiti adesso da un silenzio e un’oscurità quasi spettrali << Charles >> sentirsi chiamare di nuovo da quella voce lo fece trasalire di sorpresa e sconcerto insieme, facendolo voltare sulla difensiva << Cristo santo, Devine... mi stai pedinando? >> il professore di Yale ridacchiò della sua espressione, si avvicinò con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni a coste, sicuro di sé come gli era sempre sembrato, solo con un lampo di vago divertimento nello sguardo << Solo un caso, Charles, te lo posso assicurare. Senza contare che non avrebbe alcun senso mentirti >> continuò, indicandosi la testa con un gesto distratto.
Charles lo scrutò << Come può essere un caso ritrovarsi nella hall a quest’ora? >> << Il caso è che la tua stanza si trovi di fianco alla mia >> fu la risposta, gli occhi verdi si abbassarono finalmente in un po’ di sana indecisione, il che permise a Charles di non sentirsi pietoso come era nel proseguire: << Mi hai sentito, certo >> disse asciutto << Mi dispiace averti svegliato >> << Non è per questo che sono qui >> Charles gli rivolse l’occhiata più gelida che riuscì a mettere insieme, quella che Erik catalogava come “inglese viziato di buona famiglia”, ma esattamente come per quest’ultimo anche Saman non si lasciò intimidire, limitandosi a sostenerlo senza dire una parola.
Prese invece la giacca che teneva ripiegata sul braccio e la indossò << Vieni con me >> disse solo, prendendolo per mano con semplicità disarmante, come fosse un gesto del tutto naturale, furono così morbide quelle dita troppo grandi tra le sue che Charles non riuscì a trovare la forza per respingerlo.
Troppa fermezza per lui, troppo vigore che premeva contro le sue mura fragili come carta.
Si ritrovò su una grossa Chevrolet nera, sedili sportivi che non avrebbe attribuito ad un professore di Storia e volante rivestito in pelle di camoscio rossa, un tocco squisitamente esagerato su quell’uomo che sembrava il controllo personificato.
Non parlarono mentre Saman guidava, l’autoradio cullò il loro silenzio con un mormorio di sottofondo che aiutò Charles a calmare il suo animo agitato, per questo quando il motore si spense, riportando per un attimo una quiete assoluta, riuscì quasi ad ingannarsi di stare bene di nuovo.
Guardò fuori dal finestrino e vide il mare.
L’oceano si distendeva calmo e piatto a poca distanza, contornato dalla città e dal porto mastodontico di Boston sullo sfondo. Il cielo cominciava a tingersi di un tenue chiarore all’orizzonte, ma era ancora la notte a predominare << Qui intorno non c’è nessuno per chilometri a quest’ora >> disse Saman, palesando infine il motivo per cui si era spinto fin lì, e Charles era troppo preso a crogiolarsi in quella premura per premurarsi di spiegargli che era del tutto inutile << Grazie >> disse invece, accettando il dono per ciò che era, senza aggiungere altro.
Aprì la portiera e uscì fuori, accogliendo la brezza pungente che lo sferzò in viso, colma di salsedine e di qualcosa di intrinsecamente pulito che non avrebbe saputo definire meglio.
Non vedeva il mare da quel giorno.
Guardò la sottile striscia di costa che si apriva davanti a loro, niente più che una lingua di sabbia granulosa e grigia, ma il paragone fu comunque istintivo, anche se non era una giornata di sole splendente e non c’era alcun mare cristallino e nessun mondo da salvare e nessun Charles pieno di sogni.
Quel Charles era morto allora << Va meglio? >> chiese Saman, affiancandolo con cautela, come fosse un animale selvatico a cui è difficile approcciarsi.
Era sempre stato così?
Dio, avrebbe dato la sua mano destra per tornare a vedere il mondo attraverso gli occhi di quei giorni << Sì >> << Non devi rispondermi per forza. Era una domanda sciocca, perdonami >> << No, affatto. Sei tu che devi perdonarmi. Non sono al mio meglio in questi giorni... >> l’altro attese in silenzio, quel magnifico silenzio che la maggior parte delle persone sottovalutano.
Lo guardò, finalmente lo guardò davvero, permettendo ai suoi occhi di scivolare sulla sua figura pacata e rilassata, come se gli concedesse tutto il tempo del mondo per parlare, come se non desiderasse essere in nessun altro luogo in quel momento, come se non avesse niente altro di meglio da fare che raccogliere un estraneo nella hall di un albergo e fare quaranta minuti di auto per portarlo nel luogo più muto di menti che avesse a disposizione.
Saman non aveva bisogno delle sue parole, non gliele chiedeva, si limitava a trasmettergli che, se avesse voluto condividerle, lui era lì per ascoltarle << Un mio studente è morto >> si ritrovò a dire, la voce bassa e roca perché non gli uscì diversamente.
Non gli rivolse parole di circostanza, nessuna ipocrita frase di cordoglio, solo attenzione e occhi verdi che lo guardavano come se non vi fosse nient’altro di altrettanto interessante nell’intero mondo.
Charles fece qualche passo avanti verso la spiaggia, per fuggire a quello sguardo per lo più, ma averlo piantato nella schiena non migliorò di molto la situazione << Non ho potuto fare niente per impedirlo >> continuò e ben presto si ritrovò a vomitare fuori tutto il suo dolore, tutta la sua disperazione, l’angoscia che aveva covato in quei mesi, la paura, il siero, la scuola, Raven, Erik, e tutto il maledettissimo fottutissimo mondo in cui era costretto a vivere e che lo stava travolgendo.
Pianse ad un certo punto, urlò, imprecò come quando era un ragazzino, raccontò senza un ordine preciso, no, senza un ordine affatto, quel che non poteva essere condiviso con le parole si trasformò in immagini e sensazioni che trasmise direttamente alla mente dell’altro, lì seduto sul quella sabbia che sapeva di vecchio e di nuovo insieme, la sua voce trasformata in un fiume in piena che nemmeno sapeva di star trattenendo.
Arrivare alla fine lo lasciò stremato, ansimante come dopo una giornata di esercizio fisico, con le mani strette a pugno nel suo grembo e la sensazione devastante di avere il petto squarciato e sanguinante.
Si sentiva nudo, vulnerabile come non gli accadeva da molto tempo, esposto come non mai << Charles >> era la prima parola che Saman pronunciava da ore, lì seduto davanti a lui come una statua paziente e benevola << S-sì? >> lo vide sporgersi verso di lui con lentezza, cautela, continuando a tenerlo immobile con quegli occhi di ghiaccio verde, come fossero gli spilli per una farfalla.
Superò il suo spazio personale con la stessa naturalezza con cui aveva preso la sua mano nella hall, gli tolse i capelli dal volto con un dito delicatissimo, portando una ciocca dietro l’orecchio, e la sua pelle era febbricitante contro quella gelida dell’inglese << Io sono qui >> gli disse, con un sorriso che sapeva di conforto e comprensione, e non esistevano parole più appropriate in quel momento << Non sei solo. Io sono qui >> ripeté ancora, e Charles gli credé, aveva bisogno di farlo, lo fece perché non farlo significava cadere senza più ritorno.
Si specchiò nelle iridi di smeraldo e cedette almeno a quello, almeno per quel bisogno poteva scegliere la via facile, una speranza facile, non desiderava nient’altro che la solidità da montagna di Saman cui appoggiarsi.
Solo un poco. Un minuto appena. Il tempo di riprendere fiato.

*** 
Le sue giornate si erano trasformate in un gigantesco esercizio di resistenza.
Ogni giorno si svegliava alle otto in punto, si vestiva come l’uomo che doveva essere e scendeva a preparare il caffè per sé e per Hank, leggendo qualcosa mentre faceva colazione.
Due volte a settimana correva per un paio d’ore nell’immenso parco della villa, riabituando pian piano il suo corpo rattrappito, mentre gli altri giorni si limitava a passeggiare con un libro in mano.
A volte si costringeva a scendere in città con la macchina, si sedeva ad un caffè o andava in biblioteca, ma le persone cominciavano a metterlo a disagio sempre più spesso, come aveva temuto il suo potere non si lasciava ingannare dai suoi sforzi e il suo malessere attirava quello altrui come una calamita, perciò alla fine si era arreso ad appartarsi nel suo studio a fingere di avere qualcosa da fare fino all’ora di cena.
Era Hank ad occuparsi di quest’ultima, per il pranzo risolvevano velocemente con qualche panino, ma Charles si rendeva conto anche da solo che mangiava come un automa, senza affatto assaporare quel che si portava alla bocca.
Dopodiché si congedavano, raramente Hank riusciva a trattenerlo per una chiacchierata serale, e Charles prendeva un paio di pillole per addormentarsi senza pensieri.
Questo schema funzionava per gran parte delle sue giornate, abbastanza stabilmente per lo più, ma ogni tanto alzarsi dal letto era più difficile, il sole alla finestra insopportabile, e tutto ciò che voleva era starsene in camera a soffocare pateticamente il proprio pianto contro il cuscino.
Quella era una di quest’ultime giornate: ventidue novembre 1965, secondo anniversario della morte di J.F. Kennedy.
Non aveva bisogno di leggere il giornale per esser certo di chi sarebbe stata la foto che avrebbe affiancato quella del Presidente nell’edizione del mattino, anche dalla sua stanza riusciva a sentire il notiziario al piano di sotto che rievocava per la centesima volta come due anni prima il terrorista Erik Lehnsherr avesse assassinato l’uomo più amato d’America.
Erik.
Perché aveva fatto una cosa simile? Perché Kennedy? Che cosa ne aveva guadagnato se non disprezzo e fine della propria libertà?
Gli ritornarono alla mente le sue parole, la guerra che lui vedeva inevitabile senza rendersi conto che sarebbe stato l'unico a causarla davvero, pensò a come lo aveva pregato di seguirlo nella sua follia, e come altre volte Charles si chiese cosa sarebbe successo se lo avesse fatto.
Allora aveva pensato che lasciarlo andare fosse la scelta giusta, l'unica scelta possibile, ma se lo avesse seguito, se avesse seguito Raven, se avesse ingoiato un po' dei suoi maledetti ideali e sogni, forse adesso non si sarebbe trovato in quella situazione.
Forse Erik non sarebbe stato dove era, seppellito vivo in un carcere creato apposta per lui, forse ogni cosa sarebbe andata per il meglio.
Provava rabbia per quei pensieri, odio persino, odio verso se stesso e verso Erik che lo costringeva a quell'autocommiserazione distruttiva.
Sarebbe stato tutto più semplice se Erik avesse usato il suo dannato cervello, se Erik si fosse fidato di lui, se avesse avuto fede nelle sue parole.
Forse aveva cercato di controllare anche lui senza rendersene conto? Oppure semplicemente Charles Xavier era insopportabile per chiunque e condannato per questo all'eterna solitudine?
Eppure nessuno lo aveva capito come Erik, di questo era certo, o almeno lo era stato, nessuno era riuscito a vederlo per davvero.
Quella di Erik era stata l’unica mente a cui aveva avuto sempre accesso. Non gli aveva mai impedito di sentire i suoi pensieri, mai aveva avuto paura del suo potere, mai aveva temuto che le sue azioni fossero controllate o guidate, a differenza della stessa Raven.
In realtà aveva capito che sarebbe finito tutto sin da quando aveva indossato l’elmetto di Shaw.
Non è che non mi fidi di te, Charles
Come aveva osato dire una cosa simile?
Imprecò contro il cuscino, sentendosi un vero idiota a soffrire ancora per una cosa simile, ma il tradimento che aveva provato allora, e che aveva pensato di aver superato e dimenticato, adesso bruciava nel suo petto come una ferita aperta.
E poi la morte di Shaw. Oh Dio...
Non aveva avuto alcuno scrupolo quel maledetto. Sapeva perfettamente che si trovava dentro Shaw, lo stava trattenendo del resto, eppure non aveva esitato a conficcare quella moneta nel suo cranio, non si era affatto preoccupato per lui, anche se Charles aveva pensato di impazzire per il dolore.
Eppure ancora non lo aveva odiato, no, nemmeno per quello, aveva anzi capito il suo odio e la sua sete di vendetta, o almeno aveva cercato di farlo, trascinandosi fuori nonostante tutto, ma a lui non era bastato.
Nemmeno uccidere il dannato presidente era bastato.
Ad Erik niente sarebbe bastato.
Era questo a far male sopra ogni altra cosa: l’idea di aver fallito, fallito miseramente, il sapere di averlo perso per sempre, di non essere riuscito a salvarlo da se stesso.
Era insopportabile.
C’era anche solo una cosa che fosse riuscito a non mandare in pezzi?
La sua vita gli scivolava tra le mani senza che potesse fare alcunché per trattenerla << Mio Dio, mio Dio aiutami >> ansimò, la preghiera disperata di un ateo, ma cosa gli era rimasto se non quello?
Quella consapevolezza lo nauseò.
Era disgustato da se stesso ad un livello che rasentava l’umana sopportazione, per la prima volta si chiese seriamente se non fosse meglio piantarsi una pallottola in fronte e lasciar davvero perdere tutto.
Aveva sempre avuto fede nella tenacia della vita umana, nel miglioramento, ma come poteva migliorare se non sopportava nemmeno il suono del suo respiro?
Sarebbe stato semplice.
Non aveva nemmeno bisogno di andare davvero nel suo studio a prendere la pistola, poteva semplicemente allungarsi verso l’astuccio di sonniferi e riempirsi la bocca di pillole prima di mandarle giù in pochi sorsi.
Visualizzò molto bene i propri gesti, si sollevò a sedere con pesantezza e prese il piccolo contenitore, arrivando anche a svitarne il tappo.
Aveva passato da un pezzo il tempo in cui credeva che la sua esistenza avesse una qualche importanza, non era più così stupido da pensare che il mondo potesse cambiare grazie a lui, era insignificante proprio come chiunque altro, potere o non potere, solo non era abbastanza forte per poterlo accettare, questa era la verità.
Mosse il palmo in una piccola conca e vi rovesciò sopra abbastanza pillole da riempirlo, dodici in tutto, quindi si allungò verso la bottiglia vicino al letto, trovandola però vuota.
Valutò se non mandarle giù senza acqua prima che il coraggio gli venisse meno, ma su di lui era sceso un torpore pesante come un manto, il mortifero intontimento che precede solo di un passo la follia, e con la stessa alienazione si alzò prima in piedi e poi si diresse al piano di sotto, in pigiama e con i sonniferi ancora in mano, cieco a qualsiasi cosa lo circondasse.
Doveva solo prendere un bicchier d’acqua. Un bicchier d’acqua e tutto sarebbe finito << Charles? >> la voce di Hank lo fece trasalire così violentemente che tutte le pillole caddero a terra in un tinchettio confuso contro il parquet della cucina.
Fu peggio di uno schiaffo.
Le vide per terra, vide la propria mano e il proprio corpo ad un passo dal superare il punto di non ritorno, e raggelò << Charles, che sta succedendo? >> domandò Hank ancora, sospetto e gelida paura che animavano ugualmente la sua voce.
Quando si fermò di fronte a lui non ci fu bisogno di parole, sapevano entrambi cosa era appena successo, e se anche avesse avuto qualche dubbio bastava guardare il volto sconvolto del telepate per dissiparli tutti << Mi dispiace >> si ritrovò a dire Charles, improvvisamente molto consapevole di quanto assurdo e patetico dovesse sembrare, così debole da scegliere il suicidio perché incapace di rialzarsi da solo.
Si vergognò di se stesso, avvampò come non gli accadeva da tempo sotto lo sguardo incredulo dell’unico amico che gli era rimasto, perciò fece l’unica cosa che giudicò avere un minimo di senso: se ne andò.
Afferrò le chiavi della macchina mentre andava alla porta, facendo appena in tempo a infilarsi i mocassini abbandonati vicino all’uscio da chissà quanto prima di uscire << Charles! >> lo chiamò Hank, lo seguì per fermarlo, ma l’inglese lo distrasse con un trucco psichico, una cosa da nulla visto che con tutto il siero che aveva nel sangue non poteva permettersi di più, e si infilò nella sua Ford prima che potesse fermarlo.
Uscì nella strada principale e scelse una direzione a caso, non importava la meta purché potesse allontanarsi dal folle se stesso che era stato sul punto di uccidersi.
Cosa gli era saltato in mente?!
Si passò nervosamente la mano sul volto, morsicando un’imprecazione, e poi rilasciandola invece nel solitario abitacolo visto che non aveva alcun senso trattenersi. Aveva dismesso da un pezzo le vesti da educatore del resto, se mai lo era stato.
Man mano che si avvicinava alla civiltà, allontanandosi dalla ricca e solitaria campagna di Westchester, i pensieri e le voci si fecero più insistenti, del tutto incuranti dello stato in cui versava, e ben presto lo sforzo di allontanarle combattendo il siero gli causò una fortissima emicrania.
Imprecò ancora, batté il pugno sul volante e inveì di nuovo, allungandosi infine verso la scorta che teneva nel vano del cruscotto.
Accostò per iniettarsi una dose extra, chetando del tutto il suo potere, ma la paura insidiosa che di solito lo pervadeva all’idea, la sensazione terrificante di essere nudo e vulnerabile come se qualcuno gli avesse strappato via la pelle di dosso non lo aggredì, anzi, provò sollievo e nel rimettersi in carreggiata cercò di non incolparsi anche di quello.
Si fermò per mettere il pieno, comprare un pacchetto di sigarette e una bottiglia di birra.
Fu tentato da un bourbon scadente che ammiccava in un angolo, per un momento si lasciò carezzare dall’idea di bere fino a dimenticare persino il suo nome, ma riuscì a resistere.
Odiava la birra.
Berla era un modo per punirsi, per ricordare il lato peggiore dell’alcol, ma si costrinse a farlo lo stesso, proprio come l’americano che Oxford e suo padre avevano cercato fino all’ultimo di evitare che diventasse.
Era solo l’ultima di una lunga lista di persone deluse da lui dopotutto.
Ben presto la villa era un ricordo lontano, lei e il patetico Charles con la mano piena di pillole, anche se continuava a sentire la sua infida presenza alle sue spalle, come un fantasma che lo perseguitava.
Doveva reagire, maledizione!
Come aveva potuto fare una cosa simile? Come aveva osato?!
Un ruggito di furia proruppe dalle sue labbra a quel pensiero, rabbia e vergogna per aver ceduto, lui, la personificazione della speranza e della volontà di vivere! Che avrebbero detto i suoi studenti di lui?
Che avrebbero detto coloro a cui la vita era stata strappata?!
Un altro mutante schiacciato dalla propria diversità, questo sarebbe stato!
Urlò e pianse in quell’abitacolo, batté i pugni con ferocia inaudita e che non gli apparteneva, che non avrebbe dovuto appartenergli almeno, ma in qualche modo covava anche tutto quello dentro di sé.
Quando il sole tramontò non si fermò.
Fece il pieno una seconda volta e quando superò il confine dello stato si rese conto di avere una meta.
Non vi pensava troppo, era appena arrivato alla risoluzione che la sua patetica esistenza avrebbe avuto un senso se solo si fosse dato il tempo di trovarlo, perciò si concentrava solo sulla guida, sul movimento ritmico dei tergicristalli contro la pioggia e il suono indistinto della radio impostata da un pezzo su un canale che trasmetteva solo carice elettrostatiche.
L’alba non lo sfiorò, era troppo nuvoloso per poter distinguere davvero qualcosa del sole di novembre, ma sapere che era un altro giorno in qualche modo lo ristorò, anche se non smise di sentirsi l’assurdo rottame che era.
Spense il motore che era pomeriggio inoltrato, fissando gli alberi d’acero ormai quasi del tutto spogli che ornavano la via, e finalmente si chiese cosa lo avesse portato lì.
Non c’era una risposta, nessuna che potesse accettare da se stesso almeno, quindi si limitò ad accendersi un’altra sigaretta, cieco anche alle mani ormai livide per il freddo visto che non aveva nemmeno acceso il riscaldamento, e uscì fuori.
Camminò senza guardare niente e nessuno, anche se indossava solo un paio di pantaloni del pigiama e una maglietta di cotone contro il clima impietoso di New Heaven, senza fermarsi finché non si ritrovò davanti alla porta in legno scuro.
Prese un’altra boccata amara, bussò due volte e attese di essere ricevuto come la persona che era stato educato ad essere << Charles >> fece Saman Devine, senza sorpresa, come se lo stesse aspettando.
Gli occhi verdi percorsero la sua figura dalla testa ai piedi, analizzarono ogni suo particolare, e niente in lui si scompose o anche solo si mostrò a disagio per quella visita improvvisa, si limitò a prendere il lungo cappotto che teneva appeso vicino alla porta, glielo avvolse sulle spalle e si fece da parte << Vieni dentro >> lo invitò.

*** 
Saman non viveva in uno degli alloggi per i docenti all’interno del campus, anche se ne avrebbe avuto ogni diritto, preferiva invece salire in auto e compiere ogni giorno dieci chilometri per raggiungere una piccola villetta a schiera appena fuori dall’area universitaria.
Si trovava in un quartiere tranquillo, tante casette coloniali una accanto all’altra, con giardini contornati da siepi più o meno alte, un piccolo caffè che faceva anche da tavola calda e un’ampia strada a due corsie con marciapiedi dove la sedia di Charles non avrebbe trovato difficoltà.
Pensava a questo mentre seguiva l’uomo, si concentrava su queste piccole cose per non pensare al fatto che aveva attraversato quasi due stati per venire a bussare alla porta di un uomo che conosceva appena, senza contare che non aveva la più pallida idea del perché l’avesse fatto. E per peggiorare il tutto il suo potere era ancora anestetizzato dal siero e non sapeva cosa pensasse di lui.
Il salotto dove lo fece accomodare non fu niente che non si sarebbe aspettato, ordinato e pulito, un divano di velluto verde e due tavolini da fumo in castagno, con un tappeto dall’aspetto sudamericano, anche se non avrebbe saputo dire quale fosse esattamente la sua terra d’origine.
In un angolo c’era un orologio a torre con un grosso pendolo d’ottone, ma era fermo, e in un altro una scacchiera di marmo bianco e rosso che risvegliò in lui più ricordi di quanti avrebbe voluto << Accomodati. Vado ad alzare subito il termostato e ti porto un maglione. Per l’amor del Cielo, Charles... hai le labbra blu >> Charles sapeva bene che avrebbe dovuto avere freddo, ma non ne aveva.
Il suo corpo era come desensibilizzato, si accorgeva di tremare senza sentirne realmente gli effetti.
Sedette sul divano e si guardò le mani in grembo, chiedendosi se non fosse colpa del siero di Hank, visto che ormai da mesi si aspettava di pagare il conto per aver riavuto la gioia di muoversi, ma realizzò presto che in realtà era semplicemente ancora in stato di shock.
Non dormiva da più di venti ore del resto, una parte di lui era ancora ferma in cucina con le pillole in mano, e ogni volta che ci pensava un brivido gli risaliva lungo la spina dorsale.
Tutta colpa di Erik.
Quanto avrebbe dato per averlo davanti adesso! Quanto per farlo soffrire almeno la metà!
Saman tornò con il maglione promesso, che Charles sostituì meccanicamente con il cappotto che aveva lasciato nel guardaroba vicino alla porta.
Registrò l’odore dell’uomo sulla lana morbida, non il calore che gli procurò << È quasi ora di cena ormai. Va bene se ordiniamo qualcosa? Cinese, se per te va bene? >> << Sì >> il telepate assentì una volta sola, tornando a fissare le proprie mani << Mi farebbe stare molto meglio se ti esprimessi in qualcosa di più articolato di un monosillabo. Mi sto preoccupando >> << Mi dispiace >> << Non c’è niente di cui scusarsi. Posso chiederti però perché sei così? Dio mio, sembri un fantasma >> << Posso non risponderti? Mi sento già abbastanza patetico così come sono >> Saman scosse il capo e sedette al suo fianco << Non voglio sentirti dire niente di simile. E naturalmente non sei tenuto a dirmi alcunché. Hai bisogno di stare lontano da casa per un po’? Puoi stare qui finché vuoi >> aveva ancora solo tre dosi di siero, quindi non avrebbe potuto assentarsi comunque per più di due giorni al massimo, tre se avesse preso un aereo per il ritorno.
Oppure avrebbe potuto andarsene da quella dannata casa piena di polvere e ricordi in egual misura, sarebbe andato da qualche altra parte e avrebbe semplicemente ricostruito tutto da capo.
Il solo pensiero di un simile sforzo soprattutto senza più la fede e la speranza a guidarlo, era troppo da sopportare per lui << Che ne dici di una doccia mentre ordino la cena? Potrebbe farti sentire meglio >> mormorò Saman posandogli una mano sul ginocchio, e Charles assentì, anche se lo fece solo per accontentarlo.
Lo seguì al piano di sopra, oltrepassarono due porte chiuse e si fermarono ad una terza << Gli asciugamani sono nel secondo cassetto. Puoi usare tutto quello che vuoi. C'è anche un rasoio vicino allo specchio. Vado a prenderti un cambio >> anche il bagno rispecchiava il resto della casa, ordinato e pulito, non troppo piccolo anche se chiaramente ospitava un'unica persona da quando era stato costruito.
Non aveva chiesto nulla a Saman.
Sapeva che non era sposato perché aveva visto il suo curriculum nelle ricerche che aveva fatto su di lui, ma non sapeva se avesse una persona con cui divideva quella casa che aveva invaso senza alcun preavviso, né se avesse dei figli, o una madre, o un padre.
Non tutti sono soli al mondo, Charles.
Si spogliò con gli stessi gesti meccanici con cui faceva tutto ormai, la sua testa era altrove e lo sapeva, la sua testa non c'era più e lo sapeva, probabilmente nello stesso posto dove aveva riposto anche il suo cuore, ma almeno uno dei due doveva far funzionare il suo corpo, almeno uno dei due doveva, Cristo doveva, tornare a funzionare e basta.
L'acqua calda fu piacevole, questo non poteva negarlo.
Non rilassante, era difficile che qualcosa lo fosse ultimamente, ma apprezzò comunque il suo calore anche se non smise affatto di tremare. Le sue mani soprattutto.
Dio, cos'aveva fatto?
Si tolse i capelli dal volto, strizzandoli con le mani, e si tese verso l'asciugamano prima di avvolgerselo intorno al corpo e andare allo specchio.
Non si guardava davvero quando lo faceva, evitava gli occhi, non voleva vedere la mancanza in essi, ma era impossibile rasarsi senza uno specchio quindi faceva il suo dovere con la meticolosità e la disciplina con cui faceva tutto il resto.
Erik una volta aveva detto che le sue regole lo avrebbero ucciso.
Il modo in cui seguiva fermamente i propri paletti autoimposti lo faceva sorridere, non comprendeva perché pensasse che cedere agli istinti fosse così sbagliato.
Per questo lui adesso era in una prigione dimenticata da Dio e Charles no.
Charles no.
Oh Dio, non avrebbe pianto di nuovo. Se lo avesse fatto si sarebbe conficcato quel dannato rasoio nella gola, lo giurò a se stesso, non ne poteva più di singhiozzare come un ragazzino, non era un ragazzino, era un adulto per Dio, un uomo!
Si impose di alzare lo sguardo, sfidò con fermezza il proprio azzurro slavato attraverso lo specchio, gli rivolse il proprio odio e la propria rabbia, perché se c'era una cosa che sopportava peggio del fallito che era, era la miserevole pietà che provava per esso.
Si rivestì, tornò a sembrare quasi umano, se le sue mani avessero smesso di tremare avrebbe potuto persino dimenticare che poche ore prima aveva deciso di farla finita una volta per tutte.
Saman era in cucina quando scese dabbasso, lo accolse con un sorriso, ma quando Charles provò a ricambiare glielo vide morire in volto quasi nello stesso momento. Non disse nulla, continuò ad apparecchiare come se nulla fosse, ma sulla sua fronte si era creata una profonda ruga d'espressione che rivelava tutti i suoi trentacinque anni.
Suonarono alla porta << Accomodati pure, deve essere la nostra cena >> Charles obbedì mentre l'altro uomo andava ad aprire, attese davanti al suo piatto di fine porcellana blu scuro e riempì il suo bicchiere con l'acqua della brocca posata al centro del piccolo tavolo quadrato << Ho ordinato riso alla cantonese e pollo alle mandorle, spero che vadano bene >> << Benissimo. Non mangio cinese da un po' >> Raven adorava il cinese.
Ovvio.
Era incredibile come ogni più piccola cosa, ogni spostamento d'aria e granello di tempo riuscisse ad irritare con precisione chirurgica le sue ferite.
Era esasperante << Un bicchiere di vino? Ho un ottimo rosso che ha bisogno solo di una buona compagnia per essere stappato >> Charles rispose automaticamente: << No, grazie, non bevo >> Saman alzò un sopracciglio << Ricordo che ti era piaciuto il mio bourbon >> << Gli alcolici non sono una buona idea in questo periodo >> fu la risposta ridacchiata del telepate mentre si serviva il riso dal contenitore in carta che Saman gli aveva posato davanti, e cercò di suonare leggero, ma l'altro non si lasciò ingannare << Hai dei brutti trascorsi a riguardo? Mi dispiace, non… non lo sapevo >> << Non ne avresti avuto modo. E non curartene troppo. So stabilire quando per me non è il caso di bere, non preoccuparti, sono sempre stato bravo in questo >> Saman sedette di fronte a lui, anche lui si servì, partendo dal pollo però << Sembra che tu sia bravo in molte cose quando si tratta di te stesso >> commentò, senza ironia, solo rimprovero, che colpì Charles sul vivo anche se non ne aveva alcun diritto << Che vuoi dire? >> Saman sospirò, posò la forchetta e lo guardò dai suoi dieci centimetri abbondanti di differenza, anche da seduto, quindi si portò una mano alla tempia << Non ti ho sentito qui dentro nemmeno una volta. Hai dei problemi con i tuoi poteri? >> << Ti ho già parlato del siero >> << Mi hai detto che permette un equilibrio. Meno siero e meno telepatia, ma abbastanza di entrambi. Cosa è cambiato? >> Charles sospirò, massaggiandosi la radice del naso con aria stanca << Non è stata una delle mie giornate migliori e avevo bisogno di staccare un po' la spina >> << Staccare la spina? Comprendi quanto sia pericolosa per un telepate una cosa del genere? Sei del tutto incapace di relazionarti con gli altri senza la telepatia, non comprendi? Sarebbe come privare me della vista o dell'udito! >> << Non uso le mie capacità così spesso quanto pensi >> << Quindi sei in grado di capire se qualcuno ti sta mentendo o meno? Puoi capire se ti vuole aggredire o rapinare o solo prendere in giro? Per l'amor del Cielo, Charles… non puoi semplicemente bendarti gli occhi e attraversare la strada! >> bendarti gli occhi e attraversare la strada.
Quella frase conteneva molta più verità di quanto lo stesso Saman immaginasse probabilmente.
Lo fece sorridere quell'immagine così calzante << E' la scuola? So che è difficile, ma anche questo periodo passerà, ne sono sicuro… anche all'università non è facile per noi, credimi >> << Lo so >> << E allora perché ti ritrovi in questo stato se è così? Sei la metà dell'ultima volta che ti ho visto, e già allora non eri esattamente uno splendore. Hai di nuovo le gambe, giusto? Dovresti stare meglio, perché invece hai questo aspetto terribile? Sembra che qualcuno ti abbia fatto a pezzi nella notte e abbia cercato di rimetterti insieme senza alcune parti >> Charles scoppiò a ridere all'ennesima metafora, persino più azzeccata della precedente, ma gli uscì una risatina isterica che aveva ben poco di allegro.
Non avrebbe pianto.
Non. Una. Fottutissima. Lacrima.
La mano che stringeva la forchetta sbiancò nella stretta feroce cui la costrinse.
Saman attese che il ridere scemasse, continuando a fissarlo con rimprovero e preoccupazione.
Forse era per quello che era venuto sin lì? Aveva bisogno di quello sguardo?
Di qualcuno che gli dicesse quanto fosse caduto in basso?
Sempre che se stesso non fosse sufficiente.
Saman si alzò in piedi, spostò la sedia al suo fianco e sedette di nuovo, dimenticando completamente la cena << Dimmi cosa è successo >> mormorò, gentile, posando la mano sopra quella di Charles stretta a pugno, ed era così grande che avrebbe potuto avvolgerla senza troppo sforzo << Ho sbagliato tutto, amico mio >> gemette, non riuscì a trattenersi, con una paura così intensa che gli gonfiava il petto che solo con uno sforzo non si ritrovava ad urlare come un forsennato per il terrore << Ogni cosa, dall'inizio. Per quanto io mi sforzi di ricordare, di analizzare ogni momento, mi ritrovo sempre a cadere nella solita malsana delusione. Io vorrei non credervi. Vorrei possedere abbastanza cinismo per proteggermi, abbastanza autoconservazione per non cedere alla facile speranza, eppure ogni volta è lo stesso. Ho creduto in quello che facevo, te lo giuro Saman, ogni fibra del mio essere vi credeva. Ho stretto i denti, sono andato avanti, anche quando sarebbe stato molto più facile semplicemente lasciar perdere. Volevo davvero cambiare questo mondo, capisci? Volevo che Raven avesse fiducia in suo fratello, volevo che capisse che quanto stavo facendo era proprio per lei, per dimostrarle quanto meravigliosa fosse e quanto il mondo avesse il diritto di apprezzarlo, almeno quanto facevo io. Volevo che i miei ragazzi avessero un posto dove crescere, dove imparare ad amare e rispettare, dove avere la possibilità per farlo, senza nessuno che li rinchiudesse in una gabbia, senza un padre che li considerasse il suo miglior soggetto di studio, senza vedere sempre il dubbio, il sospetto, albergare nel cuore di chi avevano di fronte. Lo volevo, Saman, lo volevo così tanto. Persino dopo Erik. Soprattutto dopo Erik. E invece si è distrutto tutto. Ogni mia speranza è andata, lasciandomi con questa… voragine aperta nel petto che non ho la più pallida idea di come chiudere. Ho sbagliato. Tutto quanto. E questo è troppo da sopportare per me >> il suo fiato si spezzò, si prese un momento, ma riuscì a ricacciare indietro il pianto ancora una volta, anche se la sua voce uscì tremolante poco quando tornò a parlare << Ci sto provando ad andare avanti. Ogni maledettissimo giorno. Solo che… solo che… è così difficile, capisci? A volte proprio non ce la faccio. A volte voglio solo che tutto finisca. Che io finisca. Mi ritrovo ad odiare, e a provare rabbia, io che non l'ho mai permesso a me stesso, e tutto questo lottare e questo… vuoto… mi sta uccidendo >> si portò una mano alla tempia, premendovi il palmo con un piccolo sibilo nel sentire i tentacoli del proprio potere tendersi contro la costrizione del siero << La telepatia è solo veleno se non c'è equilibrio. Follia, senza la disciplina dell'utilizzatore. Ho impiegato tre anni quando ero bambino prima di capire come isolarmi, come rispondere alle voci e non ai pensieri, come non scoppiare a piangere o a ridere ogni volta che qualcun altro rideva o piangeva. Non posso avere un simile controllo adesso, non quando sono così impegnato a controllare tutto il resto, quindi… >> << Quindi sacrifichi il tuo potere >> Charles assentì una volta, tirandosi indietro i capelli ancora umidi con un lungo respiro profondo.
Prese poi il bicchiere e bevve un sorso d'acqua, chiedendosi se la vera capacità di quell'uomo fosse riuscire ad ascoltare i suoi assurdi sfoghi senza provare il disgusto che invece provava lui.
Ancora una volta il suo cuore diede in una stilettata nel riconoscere la facile associazione, trattenne un'imprecazione e rilasciò invece un altro respiro profondo << Sembri il tipo di persona che non accetta facilmente l'aiuto altrui, Charles, ma mi permetteresti di essere un'eccezione questa volta? >> << Non sono venuto qui per... >> << Non sai nemmeno tu perché sei venuto qui >> lo interruppe, con la sicurezza di chi sa cosa dice.
Beh, non poteva dargli torto e lo vide sorridere leggermente nell'accorgersene << C-cosa… cosa vuoi che faccia? >> domandò il telepate cercando di darsi un contegno e l'altro scosse il capo leggermente, prendendogli entrambe le mani con delicatezza, stringendole tra le sue << Hai bisogno di credere in qualcosa, Charles, perciò credi in me. Posso aiutarti e lo farò, puoi avere fiducia in questo? >> << Non c'è bisogno che tu... >> << Non puoi avere speranza per te stesso, ma sei bravo ad averla negli altri. Concedimela allora. Oppure non ne sono degno? >> si guardarono per un lungo momento, nessuno dei due disse nulla mentre i loro occhi si scontravano, una parte di Charles volle disperatamente scappare da quel posto, da quell'uomo, dalla calda sicurezza che incarnava, ma un'altra, quella più grande, era così assetata che rimase letteralmente impigliata in quelle iridi verdastre << Sì >> sussurrò roco.
*** 
Non sapeva esattamente come fosse finito in quella situazione, non ricordava i diversi passaggi che lo avevano portato sin lì, sapeva solo che non era più molto semplice restare a letto a vegetare.
Era stato Saman a organizzare tutto, a prendergli un appartamento, a ordinare i mobili, a presentarlo al decano perché potesse fare da assistente al professore di Genetica, e anche se lui continuava a ripetergli che era tutto merito suo, che non era certo stato lui a farsi adorare da mezzo campus in un solo mese, Charles non riusciva a fare a meno di pensare che non ce l’avrebbe mai fatta senza di lui.
All’inizio si era limitato a chiamare Hank perché gli inviasse il siero, obbligandolo ad occupare la sua stanza per gli ospiti e occupandosi a tempo pieno a rimpolpare il corpo smagrito del telepate, tessendo nell’ombra tutto il resto, e quando furono trascorse un paio di settimane e Charles era riuscito a fare qualcosa di simile a sorridere a colazione gli aveva messo tra le mani un mazzo di chiavi e la lettera del decano che accettava di incontrarlo per un colloquio non appena fosse guarito dalla sua indisposizione.
Si era ritrovato davanti ad una classe prima che fosse davvero preparato all’idea di farlo, ma entro la fine della prima lezione si era sentito come rivivere, come se fosse stato sul punto di annegare e avesse invece raggiunto il pelo dell’acqua appena in tempo.
Adorava il suo lavoro. Adorava insegnare, adorava parlare coi ragazzi, adorava persino le noiose ore di laboratorio con il signor Jefferson dove fingeva di non sapere cose che aveva insegnato poche ore prima nel sostituirlo e rideva educatamente a battute stantie che ascoltava con un orecchio soltanto.
Lui e Saman si vedevano ogni giorno.
Al campus per il pranzo, prima incontri tutt’altro che casuali dove il professore veniva spudoratamente per controllarlo, ma da questo si erano trasformati semplicemente in un’abitudine, una pausa dove si incontravano con i colleghi per chiacchierare, più volte con gli studenti visto che Charles si avvicinava molto alla loro età, e il più delle volte anche a cena visto che Saman non si fidava affatto delle sue abitudini alimentari.
C’erano ancora delle giornate buie, mattine in cui la sveglia era difficile per motivi che non c’entravano niente con la stanchezza o il sonno, ma Saman era sempre al suo fianco, in qualunque momento, senza contare la precisione quasi inquietante con cui sapeva indovinare il suo stato d’animo.
Riusciva a prevedere una sua crisi sin dal mattino ed era sempre pronto ad accompagnarlo per una passeggiata nel cuore della notte, o a spingerlo ad uscire anche quando pensava che non ce l’avrebbe fatta.
Non sapeva cosa avrebbe fatto senza di lui.
Le vacanze di Natale giunsero fin troppo velocemente per lui, senza quasi rendersene conto era su un aereo diretto a casa per passare il Natale con Hank e Saman, tutti e tre scapoli e senza una famiglia di cui occuparsi a parte loro stessi.
Il Natale era un tasto dolente per Charles, con il suo compleanno solo due giorni prima e la mancanza di Raven al suo fianco, con Westchester tanto piena di ricordi dolorosi da straripare, ma se Saman diceva che poteva farcela lui gli avrebbe creduto. Glielo doveva << Va tutto bene? >> chiese quello dandogli un’occhiata mentre l’aereo atterrava e il telepate si sforzò di assentire, sorridendo nervosamente << Sei sicuro che per te andrà bene? La villa sarà un disastro >> << Non mi importa Charles. E a questo proposito... sai che dovrai fare qualcosa a riguardo prima o poi, vero? >> si alzò per primo quando si tolsero le cinture, approfittando della propria altezza per afferrare i bagagli di entrambi dalla cuccetta sulle loro teste e incamminandosi.
Con le sue spalle larghe fendeva la folla come un bulldozer, e Charles approfittava fin troppo spesso dell’ombra offerta dal suo corpo << Dio, sei sempre così pieno di energia? >> sospirò l’inglese alzando gli occhi al cielo mentre uscivano nella gelida aria esterna << Sei tu che hai la vitalità di un bradipo, Charles. E non te ne uscire con qualche commento sull’evoluzione dei primati perché potrei colpirti con qualcosa >> lo avvisò, facendo scoppiare a ridere entrambi.
Si era rasato la barba prima di partire, lo faceva ogni anno gli aveva detto, ed era chiaro il motivo per cui aspettasse le vacanze per farlo: era letteralmente irriconoscibile, ringiovanito di almeno dieci anni, e adesso al suo fianco sembrava vi fosse un fratello più grande, proprio come...
Sospirò, grattandosi la fronte nervosamente per scacciare quell’associazione molesta, passandosi poi una mano trai capelli che adesso avevano bisogno decisamente di un taglio << Ho detto ad Hank che verremo in taxi, ma non credo che sarà semplice a quest’ora >> commentò Saman una volta fuori dell’aeroporto, guardandosi intorno seccato nel notare la letterale moria di mezzi di trasporto << È il ventitré. Per la Vigilia ce ne saranno ancora meno >> << Oh andiamo, siamo nel ventesimo secolo! Dio è morto almeno cinquant’anni fa ormai! >> << Credo che Nietzsche non sia la prima lettura dei tassisti in questa parte del mondo >> Saman ribatté schioccando la lingua, facendo cenno ad uno sporadico autista fermo poco lontano appoggiato al suo taxi << Sono in pausa >> lo freddò prima che potesse parlare, sollevando il caffè che stava bevendo come se fosse la cura a tutti i mali del mondo, ma in risposta Saman sollevò una banconota da venti dollari << E questa invece è la tua ricompensa per averci salvato da un principio di congelamento. Cristo, fa sempre così freddo in questo posto? >> il tassista prese i soldi e gettò via il caffè, facendo loro cenno di salire.
C’era un grosso pacco regalo sul sedile del passeggero, rosso con un enorme fiocco di stoffa rosa, quindi loro si strinsero nei sedili posteriori << Perdonatemi, ma mia figlia compie gli anni oggi >> spiegò l’uomo con un sorriso imbarazzato << Bambina fortunata, avrà i regali doppi >> commentò Saman affabile come sempre << Almeno finché non comincerà a chiedere qualcosa di più grande di una casa giocattolo >> ridacchiarono entrambi, mentre invece Charles cercava con tutto se stesso di non ricordare quand’era stata l’ultima volta che era salito su un taxi.
Prese un gran respiro profondo, rilasciandolo trai denti mentre guardava fuori dal finestrino << Raven era sempre gelosa per la storia dei regali doppi >> mormorò assente << Anche se solitamente era stata la tata a comprarli per entrambi. Mia madre sapeva che io sapevo, solo non le importava >> << Charles? >> << Non so se è stata granché come idea tornare qui, Saman >> l’uomo gli afferrò una mano, portandolo a sollevare lo sguardo su di lui << È il tuo compleanno, ricordi? Cerca di essere felice almeno oggi >> il telepate assentì, si spinse un sorriso in volto e ingoiò tutto il resto << Potremmo andare a mangiare fuori >> propose << Hank ha già prenotato. Il tempo di arrivare e cambiarti quella camicia. Ci sono davvero dei fiori sui tuoi polsini? >> << Melodrammatico >> << Siete fratelli? >> domandò il tassista << Amici >> corresse Saman velocemente, volgendosi infine per guardare fuori dal finestrino.
Era in momenti come quelli che Charles si rammaricava di non avere più il suo potere.
Avevano deciso insieme che aveva bisogno di un altro po’ di tempo prima di abbassare l’assunzione del siero, ma questo non significava che la sua curiosità accettasse tranquillamente la loro risoluzione.
Imparare a vivere senza telepatia non era stato semplice come aveva pensato, Saman aveva ragione nel dire che non sapeva relazionarsi con gli altri, non sapeva leggere il linguaggio corporeo ad esempio, percepire le emozioni sin da bambino lo aveva reso disattento ai piccoli gesti che tradiscono nervosismo, irritazione o anche solo impazienza, ma se da una parte la sua memoria e il suo cervello avevano sanato le sue lacune abbastanza velocemente, dall’altra continuava a trovare quasi insopportabile l’indecifrabilità delle persone come Saman, di quelle espressioni che davvero non sapeva classificare in alcun modo.
Come la maniera in cui lo guardava a volte, aveva un’intensità che lo avrebbe messo a disagio in un'altra persona, oppure il modo con cui cercava il contatto fisico nonostante non fosse affatto una persona espansiva.
Charles lo era, lo era stato almeno, e doveva ammettere che non si sarebbe lamentato se Saman avesse deciso di abbracciarlo anche più spesso.
Sapeva che quello che provava nasceva principalmente dalla gratitudine, non era riduttivo dire che Saman gli aveva letteralmente salvato la vita, ma ripeterselo non cancellava dalla sua testa il resto.
Aveva provato lo stesso altre volte.
C’era quel ragazzo del club di dibattito quando era al liceo ad esempio, non ricordava il suo nome, e poi quel musicista ad Oxford, Douglas gli pareva, a causa del quale aveva fumato la sua prima canna e preso la sua prima sbronza risvegliandosi in un luogo del tutto sconosciuto.
Poi c’era stato Erik naturalmente.
Per lui non era mai stato granché d’importanza che una persona fosse maschio o femmina, riusciva a trovare bellezza in entrambi in egual misura e quel che cercava nell’altro trascendeva l’aspetto fisico o la sessualità, era qualcosa che aveva a che vedere con la comunione, con la complicità, con il modo di vedere il mondo.
E Saman possedeva tutto questo.
Finora aveva covato in fondo al cuore quel segreto, preferiva che il mondo continuasse a reputarlo strano senza che pensasse anche che era un sodomita, non lo aveva rivelato a voce alta nemmeno a se stesso, ma per la prima volta nella sua vita percepiva qualcosa nell’altro.
Con Erik non ce n’era stato il tempo.
Era rimasto accecato dalla luce in quel mostro con la stessa inconsapevolezza di una falena che si avvicina troppo al fuoco, e con altrettanta repentinità era rimasto scottato, ma se per lui aveva avuto la telepatia a guidarlo per nascondersi, con Saman temeva a volte di tradirsi, di metterlo a disagio, di osare più di quel che doveva.
Il taxi si fermò e Charles aprì la porta di riflesso, uscendo fuori come se volesse fuggire da quei pensieri e chiuderli dentro l’abitacolo per separarli da sé.
Era così assorto che si accorse solo dopo qualche secondo delle luci.
Il suo fiato si mozzò in gola quando vide l’intera facciata addobbata a festa, con minuscole lampadine colorate intorno ad ogni finestra e vetrata, con ghirlande di agrifoglio e biancospino che facevano mostra di sé ad ogni porta, mentre l’intero giardino sembrava ricoperto da una profusione di lucette ammiccanti nascoste tra le siepi e il fogliame dei sempreverdi.
Qualcuno aveva pulito la fontana dei licheni e del muschio, aveva tagliato anche l’erba, e ripulito il vialetto << Charles! >> Hank lo accolse sul portone con un enorme sorriso, gli occhiali appuntati sul naso che gli donavano quell’aria un po’ sempliciotta ma che nascondevano invece un uomo a dir poco geniale << Avete fatto presto! >> lo abbracciò con trasporto anche se si erano appena visti per la festa del Ringraziamento, a casa di Saman questa volta, e sembrò molto compiaciuto dello stupore stampato sul volto dell’inglese << Sapevo che avresti fatto quella faccia >> ridacchiò l’idrocineta dandogli una pacca sulla spalla, quindi accolse la stretta di mano di Hank e si scambiarono alcuni convenevoli veloci mentre entravano.
Anche l’interno era stato ripulito e addobbato, nastri e fiocchi ricoprivano ogni ringhiera e ogni superficie libera, i mobili profumavano di olio e splendevano, la moquette delle scale era stata sostituita con una nuova e l’enorme salone era tornato al suo arredamento originario, con due soli divani invece che le numerose poltrone che avevano accolto i ragazzi << Come...? >> << È stata un’idea di Saman >> spiegò Hank orgogliosamente << Non c’era ragione per cui non meritassimo un Natale coi fiocchi dopotutto. Sembra persino che quest’anno nevicherà >> continuò, raggiungendo infine il divano per raccogliere un piccolo pacco avvolto in carta blu scuro << Buon compleanno, Charles >> gli augurò poi, impacciato come al solito, ricevendo un’altra faccia sorpresa in cambio << Oh, grazie amico mio, grazie infinitamente >> il telepate scartò il regalo con curiosità, raramente l’aveva fatto senza sapere cosa vi era nascosto, e assaporò per questo ancora di più la propria gioia nel riconoscere un’elegante penna stilografica d’argento con le proprie iniziali.
Saman ne approfittò per estrarre anche lui un pacchetto dalla propria tracolla di pelle, più piccolo di quello di Hank, ma Charles lo prese con molta più emozione.
Si diede dello stupido per questo, abbassò il capo per nascondersi e si mostrò estremamente concentrato nello sciogliere il piccolo fiocco della confezione, riuscendo com’è ovvio solo a stringere ancora di più il nodo, facendo scoppiare a ridere gli altri due << Hai bisogno di aiuto, Charles? >> lo canzonò l’altro professore, riuscendo così a infiammargli il volto per l’imbarazzo, e quasi in reazione a quello finalmente riuscì a togliere la carta da regalo e rivelare il pacchetto quadrato.
All’interno c’era una spilla d’oro a forma di X, semplice e senza fronzoli, ma proprio per questo perfettamente adatta a lui. O almeno al se stesso che voleva diventare, non quello con la camicia dai polsini a fiorami << Grazie >> mormorò, ma persino un sordo avrebbe sentito l’intensità impressa in quella semplice parola.
Saman lo guardò e comprese, quel sorriso gentile che gli rivolse trasmetteva come nient’altro che Charles semplicemente meritava quegli sforzi, lui che aveva pensato di non meritare più niente e nessuno.
Non aveva la più pallida idea di cosa aveva fatto per avere Saman, se la sofferenza che aveva passato era servita ad avere lui come premio allora diveniva persino accettabile, ma nello stesso momento in cui comprese questo, Charles capì anche che quel che provava non poteva in alcun modo essere taciuto.
Forse non avrebbe parlato adesso, forse non nei prossimi giorni o mesi, ma non aveva abbastanza spazio dentro di sé per contenere quel che il proprio cuore urlava ad ogni battito.
Quella consapevolezza cancellò qualsiasi altra cosa.
Aveva paura, era impossibile non averne in un simile frangente, sia del rifiuto che del disprezzo o del disgusto, ma oltre a questo c’era anche trepidazione, gioia e, neonata e timida, anche fulgida speranza.
Non pensò né a Raven né ad Erik quel giorno, non pensò a sua madre o a Cain, non ci fu spazio per nessun dolore o rammarico al ristorante, e nemmeno dopo, quando si attardarono al tavolo a chiacchierare di cose che la maggior parte degli altri commensali nemmeno potevano capire.
Tornarono a casa che era passata da un pezzo la mezzanotte, era felice come non si sentiva da tempo, nemmeno lui sapeva da quanto, abbastanza che decise di premiarsi persino con due dita di scotch prima di andare a letto.
Si mosse verso il suo studio, non riuscì a soffocare il sorriso sulle proprie labbra mentre si toglieva la giacca e la abbandonava sul divano del salotto prima di proseguire.
Lo studio di suo padre era esattamente com’era sempre stato, comodo e riservato, con la libreria che profumava la stanza e le lampade da tavolo come unica fonte di luce.
Qualcuno aveva pulito gli sniffer sul piccolo mobiletto dei liquori, probabilmente lo stesso che aveva lucidato il pavimento e tutto il resto, quindi svitò il tappo della bottiglia scura e si servì << La giornata è andata così bene? >> non sussultò nel sentire la sua voce, anche se l’aveva preso di sorpresa, si limitò a sorridere e prendere un secondo bicchiere anche per lui prima di porgerglielo << Prima o poi dimostreranno che l’alcolismo è genetico, ne sono sicuro >> disse il telepate sollevando il calice in un brindisi al nulla << Nel frattempo fingiamo che non lo sia >> ridacchiò, bevendo un sorso.
Il sapore intenso e corposo gli investì la lingua come fuoco, sembravano secoli che non beveva un goccio, e non riuscì a trattenersi dal chiudere gli occhi per assaporarlo, pienamente soddisfatto dell’attesa << Ti piace bere, vedo >> << Sono inglese dopotutto. L’alcol è il modo educato di risolvere ogni cosa >> Saman ridacchiò del suo tono, o del suo sopracciglio sollevato in un cipiglio superiore, quindi bevve anche lui alla sua salute.
Il pendolo batté le due di notte quando i loro sguardi si incrociarono, ma nessuno dei due vi fece caso, anzi, quel suono basso e profondo rese solo più partecipe Charles dell’arrancare assordante nel proprio petto.
Ci fu un istante in cui avrebbe dovuto abbassare gli occhi e voltarsi, un momento preciso che segnava la distinzione tra uno sguardo qualunque e quello sguardo, ma una volta passato quello non ci furono più dubbi che tenessero, ogni incertezza o maschera si sgretolò come una statua di sale.
Non seppe chi dei due si avvicinò all’altro, sapeva solo che improvvisamente le labbra di Saman erano sulle sue e le sue mani lo cingevano a sé come volessero inglobarlo.
Charles si gettò su quella bocca come fosse l’unica fonte d’ossigeno rimasta, non ci fu dolcezza ma urgenza, la necessità di trovar pace al proprio bisogno.
Si allungò verso di lui, maledisse i dieci centimetri che lo dividevano da quel volto desiderato, ma ben presto Saman si accorse del suo impaccio e lo sollevò senza impiccio per farlo sedere sul mobile bar dopo aver gettato a terra quanto lo ingombrasse.
La bottiglia di scotch si infranse sul pavimento, spandendo il suo aroma penetrante intorno a loro in una nube protettiva e inebriante, che accese i loro corpi come fossero fiamma per quell’alcol.
La bocca di Saman scese febbrile sulla sua gola, disegnando una scia di baci su quella pelle troppo bianca per non provare il desiderio di macchiarla, abbassò il colletto che lo impediva per cercare maggiore spazio, e quando non vi riuscì si affrettò a scendere ancora con le mani, afferrandogli la maglia per poi sfilargliela frettolosamente, senza allontanarsi nemmeno il tempo sufficiente per riprendere fiato.
Charles cercò con le dita i bottoni della sua camicia mentre Saman faceva lo stesso con la sua, lo spogliò con la stessa impazienza, allargando le mani su quelle spalle larghe come volesse assaggiarle prima con quelle che con la bocca << Charles... >> ansimò l’uomo quando lo liberò anche della camicia, allontanandosi per un attimo con il busto come se lo avesse scottato.
Il telepate vide la sua espressione incredula e abbassò il capo su se stesso, cercando cosa lo avesse sorpreso tanto proprio in quel momento, ma il motivo era ovvio, solo che lo dimenticava per la maggior parte del tempo << Cosa sono queste? >> gemette Saman, passando le dita sulle cicatrici biancastre sulla spalla destra, seguendo il loro disegno sulla schiena coi polpastrelli bollenti, scendendo fin sotto la scapola.
Charles temette di perdere la ragione per quel tocco impalpabile, ma si costrinse a rispondere in maniera coerente << Un incendio. Da bambino. Dio Saman... possiamo parlarne dopo? >> fece roco, incatenando poi le mani dietro la sua nuca per stringerlo a sé e tornare a riappropriarsi di quelle labbra di miele.
Saman non lo allontanò ancora, lo strinse a sé ancora di più invece, lo sollevò di nuovo come pesasse nulla e questa volta spostò entrambi sul tappeto davanti al divano, adagiandolo sotto di sé prima di cominciare a slacciare la cintura dei suoi pantaloni << Arriverà mai il giorno che saprò tutto di te? >> disse nel suo orecchio, pesando su di lui per mostrargli quanto desiderasse conoscerlo.
Charles si inarcò contro quel tocco, lottò follemente nella presa delle loro mani intrecciate mentre Saman si strusciava su di lui sensualmente, rendendo quella vicinanza quasi insopportabile.
Finalmente i pantaloni scomparvero, la biancheria scomparve, provò un po’ di fastidio per la rudezza del tappeto contro la pelle nuda, ma la passione negli occhi verdi sul suo corpo fu abbastanza per rendere accettabile qualsiasi altra cosa << Sei bellissimo >> gli disse, voce bassa e profonda, con qualcosa di ferino che risvegliò nel telepate cose che dovrebbero stare sopite ma che adesso non lo potevano e basta.
Tornò a vezzeggiare la sua gola con la bocca e con la lingua mentre le sue mani si prendevano cura di ben altre parti, ma se ci fu dolore fu solo benvenuto e sempre calmierato da baci e carezze e sussurri d’amore.
Gli uscì un lungo gemito quando lo sentì far forza dentro di lui, si morse a sangue il polso per trattenere le urla, e quando Saman se ne accorse si fermò per prendergli la mano martoriata dai denti, la baciò e la sostituì con la sua bocca prima di tornare a muoversi.
I loro sospiri riempirono la stanza con la stessa prepotenza che aveva usato l’aroma dello scotch, i loro nomi sussurrati dall’uno all’altro si fusero con il profumo del malto e dei loro corpi sudati, i rumori prodotti dai loro movimenti convulsi e concitati, affamati di cose più profonde e bagnate e soffocate.
Non era il sesso di per sé il fulcro di tutto. Il sesso era solo uno strumento, un modo migliore di altri per parlare senza farlo davvero, per dire ciò che non può essere detto.
Charles non disse a Saman che era la prima volta che si sentiva davvero vivo dopo Cuba.
Non disse che quel corpo caldo che lo sovrastava e lo riempiva e lo circondava riuscì a scaldare parti di lui che aveva creduto di non possedere più.
Ma soprattutto non disse che in fondo al suo cuore, nel momento del culmine e dell’estasi e dell’unione delirante che tutto cancella e tutto ricrea, nel suo cervello balenarono solo occhi grigi di metallo e tempesta, e pregò con tutto se stesso che quel che stava facendo li cancellasse per sempre.
Per una volta, solo per una volta Charles: ama ciò che può farti star bene, non che può solo distruggerti.
 



NA: Chiedo umilmente perdono per averci messo così tanto!!
Mi dispiace davvero, ma un po' sono stata piuttosto occupata e un po' è stato davvero difficile scrivere questo capitolo. Spero di aver ripagato con la lunghezza, ma ci tenevo che il passato di Charles e Saman fosse circoscritto tutto ad un intero capitolo...
Vi ricordo ancora una volta che i commenti, negativi e positivi, sono sempre graditissimi e utilissimi e un grazie extra alle mie lettrici speciali <3 <3
   
 
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