“Convivendo
in… capsule”
Episodio
X
Ci
sono battaglie e battaglie, nemici e nemici.
Nella
maggior parte dei casi, osservarli nel momento umiliante del trapasso era una
perdita di tempo quanto assistere all’agonia di un insetto strisciante il
quale, annusato il veleno ai margini della fogna, si contorce su sé stesso negli ultimi spasmi della sua ributtante
esistenza, ma c’erano volte, quando valeva veramente la pena di fermarsi a
guardarli prima di sopprimerli una volta per tutte, perché magari lo esigeva il
loro nome altolocato o la fatica della battaglia stessa, in cui il principe dei
saiyan era pervaso da un godimento così degenerato
che rapportato ad una scala di valori sarebbe stato lo stesso di quello di un
figlio che assiste soddisfatto al massacro del proprio padre.
La
piega delle labbra si tirava a sinistra, laddove in condizioni normali restava
un piccolo solco ormai scavato da un cronico sadismo, e in un meccanismo del
tutto naturale ed ormai consolidato le braccia si
incrociavano sul petto a contenerne la presunzione, tanto debordante questa era
che, senza sollevare un altro dito, sarebbe bastata da sola a sancire la
vittoria.
In
quella posa restò a guardare la donna legata su una sedia, col capo reclinato e
la bocca chiusa dal nastro adesivo che recava in sequenza il marchio in rosso
della Capsule Corporation.
La
corda le aveva reso le caviglie violacee ed il petto
esuberante e generoso era compresso tra i lacci con un senso di asmatica
oppressione.
Il
ventilatore rimasto azionato sul soffitto del laboratorio le scompigliava la
frangetta e raggelava il sudore sottostante ad ogni
vorticata.
Con
un piede Vegeta calpestò i frantumi di un vetro ed uno
scatto a destra degli occhi anticipò la caduta di un barattolo di birra rimasto
in bilico sulla scrivania.
Il
rumore metallico fece sbarrare gli occhi inorriditi della donna e Bulma, ritornata in sé, osservò Vegeta per un solo istante
prima di riprendere a torcersi sulla sedia come un pesce si dimena sul fondo di
una barca.
L’alieno
restò in quella posa imperturbabile, ma la paura della donna ed
il suo dimenarsi vano alimentò la luce perversa del suo sguardo.
Vedere
il nemico ridotto in quelle condizioni, a quel punto della battaglia, lo
rendeva ebbro quanto tracannare un buon calice di vino invecchiato, ma questa
volta aveva un retrogusto inspiegabilmente ancora più esaltante,
poiché era sì una donna senza potenziale combattivo, ma con la forza nella
lingua, più che sufficiente ad accanirlo allo scontro verbale, e
nell’abbondanza dei suoi seni, capaci di stordire da un po’ di tempo pure la
sua tempra che egli pensava impassibile a certi richiami.
Queste
erano armi più raffinate di quelle di qualsiasi altro nemico: a volte ne usciva
perdente senza neanche essere sfiorato e quell’ignoto lo turbava come uno spettro
vagante dietro la sua schiena, che non si materializza, ma si fa sentire e
ossessiona.
Era
quello che meritava e forse non era neanche abbastanza, pensò mentre la
squadrava dall’alto:
“E’
tutto inutile, ti conviene stare buona…” insinuò velenoso.
Bulma
emise dei gemiti indecifrabili, intanto che scuoteva il capo e trovava chissà
dove la forza per smuovere la sedia e guadagnare qualche passo, giusto per
approssimarsi pericolosamente soltanto al suo interlocutore, il quale scoppiò
in una risata paralizzante nel vederla finire a terra proprio innanzi ai suoi
piedi regali, impedita come una tartaruga sul dorso, devota come una schiava.
La
donna riprese i suoi mugugni, ancora più incomprensibili e deformati dal dolore
alla spalla e all’anca, e a strattonare le corde, ma gli occhi azzurri,
rinnovati da una nuova rabbia, lasciarono intendere che in corpo aveva ancora
dignità da vendere seppure così ridotta rendesse soltanto l’idea di una mummia
egiziana non classificabile o di un salame caduto dal chiodo arrugginito e
scorticato da un topo.
Forse
fu per quell’orgoglio ferito che vibrò tra le funi come i sonagli di un
serpente, che Vegeta si accovacciò accanto, le porse un altro sorriso
impostore, che ebbe il potere come tutte le volte di lasciarla interdetta per una manciata di secondi, proprio come un pugno di riso in
bianco imbroglia uno stomaco affamato. Le portò una mano guantata
sul volto con un tocco platealmente gentile e, mentre indugiava le dita sulla
sua pelle liscia ma provata, le strappò con un colpo deciso l’adesivo dalla
bocca.
La
sensazione di Bulma fu quella di
un volto interamente sbrindellato e dovette osservare il nastro caduto a terra
per assicurarsi che non ci fosse rimasto appiccicato altro oltre il grumo di sangue formato frattanto sulla labbra
e ritornato a sanguinare.
Vegeta
si era già rialzato in piedi quando lei gli urlò
contro:
“Adesso
ne ho abbastanza! Ti decidi o no a liberarmi?!”
“Chiunque
ti ha conciato così non ha compiuto neanche un terzo del suo dovere, ciò
nonostante potrei anche essergli riconoscente se ha trovato il modo di zittirti
per una buona mezz’ora di tempo…”
“Mezz’ora un corno! Sono qui da ieri sera!”
“Allora
gli sarò ancora più riconoscente…” fece untuoso prima di tornare ad indurire la mascella.
Stava
completando i suoi lavori, quando un rumore di vetri infranti aveva anticipato
l’ingresso di due balordi, i quali dopo averla invano minacciata con una
pistola per farsi dare le chiavi del prototipo di jet da poco ultimato esibito
in giardino, l’avevano legata, si erano presi pure la briga di scolarsi una
lattina di birra frattanto che lei si decidesse a collaborare, erano riusciti a
sapere dove erano custodite le chiavi solo dopo averla schiaffeggiata talmente
forte da farle uscire il sangue dalle labbra.
Aveva
continuato ad urlare il nome di Vegeta fino a quando
non era stata imbavagliata dal nastro adesivo.
“Quel
prototipo era importante!” spiegò la donna “di certo il loro intento è quello di chiedere un riscatto, non è la prima volta che
succede, maledetti!” il pensiero che suo padre non si fosse adoperato
abbastanza per prendere le dovute precauzioni le avrebbe fatto dimenticare per
un istante la posizione in cui giaceva se non fosse stato per il formicolio
insopportabile risvegliatosi alle caviglie e ai polsi.
“Allora,
non ti sei divertito forse abbastanza?” si ridestò pure la sua lingua
intorpidita “liberami!”.
Pensò
che stesse per ricevere il colpo di grazia allorquando
lo vide sollevare il famigerato indice e tenderlo nella sua direzione, ma ad un
tratto sentì la pressione delle corde allentarsi intorno ai muscoli e sotto al
naso l’odore del bruciato.
Sperare
altro da lui era come illudersi di ricevere la carità da un altro mendicante,
perciò dovette fare presa sulle braccia e sollevarsi da sola con fatica,
massaggiare i polsi indolenziti e rivitalizzare la spina dorsale con piccoli
movimenti del busto.
Col
dorso della mano scoprì il labbro insanguinato ed
innanzi a quel colore tutta la tensione in corpo prese a sciogliersi ed allora
scoppiò a piangere innanzi all’insensibile principe dei saiyan,
il quale non mosse un muscolo a parte l’ impercettibile movimento della nuca
all’indietro che gli servì per esaminare più a fondo quella reazione o forse
per gettare più distanza tra loro.
“Non
puoi immaginare quanta paura abbia avuto, ho gridato il tuo nome non una ma
molte volte” era certa che sarebbe venuto anche solo per la curiosità di
conoscere la ragione dei suoi strepiti e per questo in un primo momento si era
mostrata ai due criminali disinvolta “ti rendi conto
cosa avrebbero potuto farmi? Perché non sei accorso? Se tu fossi venuto non solo non avrei perso un progetto importante sul quale ho
lavorato per mesi, ma mi sarei risparmiata questa paura! Non
penso di potermi più permettere simili colpi!” si sostenne la fronte con
gravità rendendosi solo ora conto del rischio corso e di aver commesso lo
stesso errore di chi confida nella solidità della sabbia.
Vegeta
aveva pensato che le urla di quella terrestre fossero solo l’eco di un incubo
dai contorni indefiniti: se si era imbattuto in lei alle prime luci dell’alba,
era stato solo perché si era recato in laboratorio per attivare il generatore
del trainer gravitazionale.
“Pensi
forse che io sia il cane da guardia di questa casa?” fece indignato.
Bulma
tornò ad osservarlo con ovvietà:
“E’
da alcuni mesi che vivi in questa casa, è il minimo
che tu possa fare anche solo per ringraziamento!”.
L’immediatezza
di quella risposta ebbe il potere distruttivo di renderlo ancor più indisposto:
“Ringraziamento
per cosa? Sei tu e tutta la tua razza che dovete essermi
grati per avervi risparmiato!”.
Vegeta
era un motore ormai prossimo a partire, ma Bulma non
aveva voglia di farsi investire dal solito ritornello, aveva addosso una delle
notti più terribili che le fossero capitate dopo Namecc,
il labbro che non smetteva di sanguinare, la schiena a pezzi, una mascella
illividita, come non bastasse aveva urgenza di andare al bagno, perciò si mosse
per oltrepassarlo, ma raggiunta la sua altezza l’uomo
le sbarrò inaspettatamente il passo, non che al guerriero interessasse
incrementare l’alterco con quella donna, considerato che solitamente era lui
quello che si prendeva la soddisfazione di girare i tacchi, né il suo orgoglio
fu ferito dall’indifferenza con cui venne questa volta liquidato, ma i conti
non gli tornavano, qualcosa doveva essergli evidentemente sfuggito di mano, era
come se lo spettro vagante alle sue spalle insistesse a prendere una volta per
tutte sostanza:
“Tu
devi essere semplicemente matta” le comunicò con una vibrazione oramai farneticante
che ella non afferrò al volo.
“Di
cosa stai parlando?” lo vide muoversi ed agguantare
con rabbia le corde che aveva reciso.
Fece
un passo indietro allarmata, neanche tanto per il
gesto ma in quanto scorse nei suoi occhi una rabbia più furibonda e più sottile
del normale.
“Hai
paura di due ladruncoli che hanno bisogno di queste per tenerti a bada” le
spezzò come fossero state un rotolo di carta assorbente “che per entrare in
casa hanno bisogno di un martello per rompere il vetro” sollevò un braccio
mentre camminò aggressivo alla sua volta e, come se scacciasse una mosca,
disintegrò una parete laterale che crollò rovinosamente al suolo “e non temi
me, anzi, addirittura invochi il mio nome?”.
Bulma
ebbe la percezione di non essere mai stata guardata da Vegeta con tanta
ossessione, che mai nessuno fosse riuscito come lui in quell’istante a
scandagliare il suo intimo, forse per incapacità o disinteresse a farlo.
“Cosa
c’è? Ad un tratto non hai più il coraggio di
guardarmi? Per sottometterti devo ricordarti di continuo
io chi sono?”
“Io
non ho più paura di te da molto tempo ormai…” riuscì a sollevare gli occhi e ad inchiodarglieli in faccia con un colpo deciso.
Non
fu fierezza ciò che plasmò ciascuna di quelle sillabe, ma una verità più
imbarazzante, torturante come un’inguaribile infermità, avvolgente come il
fuoco di un camino, appagante come una morte lenta e sospirata: in quel
sentimento Bulma annegava con la consapevolezza di
una suicida.
“Fai
male ad invocare il mio nome! Io, che ho ucciso anche
chi mi tendeva la mano...” l’afferrò brutalmente per
le spalle e la scosse a più riprese “non lo sai che mi basterebbe stringere
solo di più le dita per ridurti in polvere?” si sentiva dio quando poteva
decidere della vita o della morte altrui.
L’osservò
compiaciuto con la mascella serrata, i suoi occhi passarono in rassegna ogni
tratto di quel viso stravolto, l’esaltazione si mescolò con un desiderio
oscuro, che non sapeva bene cosa fosse ma in
quel momento gli piaceva, gli fermentava sotto la lingua l’istinto di
assalire quelle labbra tumide e lucide di sangue, di spingerla ancora di più
contro di sé.
“Vedo
che stai tremando” Bulma sentì il suo fiato tanto era
vicino “è questo quello che devi provare quando sei
alla mia presenza…” la sua voce non ebbe l’inflessione ostile che avrebbe
voluto imprimerle, piuttosto suonò stranamente roca.
“Non
tremo di paura…” riuscì a sibilare ansimante e a dimenticare la pressione
dolorosa intorno alle braccia già sfibrate.
“E
di cosa allora?” tornò a scuotere lei e sé medesimo.
Risalì
da quell’abisso con un respiro più profondo e recuperò il suo piglio di sfida:
“Tu
non vuoi veramente uccidermi”.
Chiederle da dove venisse questa certezza era
come pretendere una volte per tutte di stabilire l’origine dell’universo.
Vegeta
sogghignò, ma non smise di osservare la sua bocca:
“Non
essere presuntuosa” aumentò la pressione delle sue dita “cosa allora pensi io
voglia fare?” la sicurezza di lei scuoteva le
fondamenta di ogni sua convinzione, le fessurava allo stesso modo di una faglia sotterranea
dalla posizione imprecisata, così nascosta da eludere anche i meccanismi di
rilevazione più rodati come era la sua indole. Se non avesse scoperto al più
presto quel punto correva il rischio di franare e restarci sotto, o forse il
segreto era quello di rendere più flessibili i
sostegni per assecondarne meglio i movimenti.
Incominciava
a persuadersi che i primi scuotimenti fossero stati proprio generati dalla
sicurezza che lei ostentava ad ogni incontro, che
quella scossa molesta provocasse da un po’ di tempo, ad intervalli irregolari,
delle oscillazioni insolite e bizzarre.
Forse,
se avesse messo da parte il suo rigido protocollo ed
avesse favorito l’istinto di quel momento, avrebbe trovato ogni risposta.
Di
sua iniziativa Bulma tornò a sprofondare in
quell’abisso, prese respiro, chiuse gli occhi.
Osò
dire quello che non avrebbe mai pensato di avere il coraggio di esprimere,
attingendo il vigore da quella vicinanza truce e pure così calda, affetta da un
malessere ancora poco chiaro ma di certo contagioso:
“Baciami…
ti prego… non fare altro... baciami soltanto”.
Allora
Vegeta lasciò la stretta come fossero state le sue dita a farsi male, scrutò
con uno dei suoi rarissimi bagliori di disorientamento gli occhi chiusi, le
ciglia frementi, il mento sollevato, le labbra dischiuse e sentì quell’attesa,
in tutto il suo ingombro, proprio sulle sue spalle:
“Che
cosa significa?” per quel che ne sapeva lui, poteva anche avergli chiesto di
gonfiarle l’altra guancia giacché quel verbo non figurava nel suo vocabolario
alquanto scarno.
Bulma
riemerse senza fiato da quelle acque raggelate d’improvviso, dopo aver smarrito
il contatto con lui si guardò intorno per trovare al
più presto e prima che fosse troppo tardi un nuovo appiglio.
Si
accorse di averlo proprio davanti agli occhi, che se si fosse sporta solo un
po’ di più lo avrebbe afferrato e si sarebbe tenuta
salda pur conoscendo la precarietà e l’insidiosità di quel sostegno, ma
l’ingresso di suo padre, con addosso ancora la vestaglia da camera e la
sigaretta incollata sotto i baffi, l’affondò come la più implacabile delle maree.
Venne
ed annunciò di due tizi piuttosto nervosi che la
cercavano a telefono…
FINE