Arise
Again
Il vento non ti tocca, la sabbia solo ti attraversa,
ondeggia poco, forse, ma neanche questo è esatto, perché si trascina sfinita
indugiando, fuggendo. Il cielo nero e profondo come mare di notte, macchiato di
sporcizia e foglie, rifiuta la luce e i suoni, tutti, sono sbadigli, sono
grigiore, sono eco.
Decadenza. Decadenza e crepe. Tutto si sbriciola, tutto scricchiola,
tutto vorrebbe aprirsi, dolcemente, per rompersi, crollare e cessare, infine,
tutto.
Forse,
un giorno, diventerò polvere a mia volta. Ma non ha importanza. Non ora.
Un sospiro, non ho contato quanti ce ne sono stati prima. Troppi,
sicuramente. Ma questa volta non c’è pazienza.
Quando tutto questo avrà fine?
***
“Abbiamo
finito”
La
mamma guarda il dottore. Ha sempre quel modo di guardare le persone che si
occupano di me, come un cagnolino che si aspetta una carezza a rassicurarlo, a
dirgli che, sì, andrà tutto bene e che il mondo è semplice, facile, è giocare.
Giochiamo.
Sembra piccola, sembra una bestiolina che china il capo, docile e
sottomessa. Rassegnata. Anche il dispiacere man mano era sfumato e poi: vuoto.
La mamma mi aiuta a spostare le gambe oltre il lettino e mi infila i pantaloni.
Sono ruvidi e freddi, si sono raffreddati là sullo sgabello nero, poi mi fa
indossare la maglietta. Quella è meno fredda ma le cuciture interne sono
fastidiose. Col tempo ho imparato a ignorare anche l’umiliazione. Diventa
facile, quando non hai scelta. All’inizio camminavo almeno un po’, mi succedeva
di parlare, ora invece, con la morte di papà, la morte di Light il mondo mi si
era chiuso attorno come un palloncino nero: più cresce più l’apertura a quel
che c’era all’esterno si fa piccola, fino a sparire. E un giorno sarebbe
successo: il palloncino si annoda. Ma andava bene: nel palloncino nero, almeno,
c’era sempre più spazio, più spazio dove accovacciarmi: perché parlare se non
avevo nulla da dire? Perché camminare quando non c’era luogo dove volessi
andare? Sono morti. Non c’è niente da dire, non c’è posto dove trovarli
nuovamente.
“Mi spiace signora Yagami, ma Sayu non ha
fatto nessun tipo di progresso. In compenso è in perfetta salute fisica” dice
il dottore. Si toglie gli occhiali e li infila nel taschino. Il neon gli fa
scintillare la pelle umida della fronte e i radi capelli bianchi, mentre si
siede dietro la scrivania. Mamma annuisce tende le labbra affossando ancor più
le rughe nella pelle morbida, abbassando le palpebre.
Il dottore ci accompagna alla porta dello
studio, le ruote si muovono sotto la sedia fino a fermarsi davanti
all’ingresso, ma invece di aiutare mia madre a sollevare la sedia a rotelle
sugli scalini si ferma e la guarda. Poi gli occhi si abbassano e le
sopracciglia sembrano vibrare.
“Signora, come le ho detto non posso fare nulla per aiutare la signorina
Sayu, tuttavia le consiglio di rivolgersi una specialista, ecco, ecco…”
farfuglia cercando stancamente in una tasca, prende un cartoncino.
“Si tratta di una psicologa, sono
sicuro che si potrebbero ottenere dei miglioramenti” disse.
Il
volto di mamma per un attimo si illuminò di speranza, poi la luce si spense e
accettò il cartoncino. Comprendevo: nutrirsi di illusioni era doloroso. Dalla
psicologa ci andammo per davvero, perché, mi aveva detto mia madre, vanno fatti
tutti i tentativi, perché non immaginavo, aveva aggiunto, quanto avrei ottenuto
tornando quella di prima. Io, poi, non ero in condizione di protestare. Avevo
passato qualche minuto prima di addormentarmi a immaginarmi sul lettino della
psicologa che mi mostrava macchie d’inchiostro su carta bianca, ma io non avrei
parlato, perché le chiazze scure si sarebbero dischiuse come ali ricoprendomi
di buio. Invece quella donna non parlò con me. Non la vidi neppure: volle
incontrare solo mia madre e io ascoltai fuori dalla porta dello studio, nella
sala d’attesa. Era socchiusa perché non c’era nessun altro.
“Farla riabilitare in una sede esterna potrebbe farla chiudere ancora di
più, per il momento consiglio che i primi passi siano fatti in un ambiente
familiare e la ragazza va scossa: le faccia ascoltare della musica, la porti a
teatro” aveva detto. E mia madre le aveva creduto perché non esiste vita che
quella che si vive, la vita di una persona normale che non si rannicchia dentro
un palloncino nero, ma vede amiche, va al bar con un ragazzo di pomeriggio, poi
si costruisce una famiglia. Vita non è raggomitolarsi su se stessi. Non per mia
madre. Per qualche settimana l’avevo vista fare telefonate davanti all’elenco
telefonico chiedendo orari, prezzi e spettacoli e appuntando tutto
diligentemente sul squadernino a quadretti dove la psicologa le aveva detto di
annotare i passi avanti della sua bambina malata.
“A teatro, tesoro, interpreteranno Medea, penso che potremmo andarci
questo sabato” disse con voce dolce e stanca. Più che mai avrei voluto gridare.
Mamma, mamma, non ti ricordi? Una volta ero una ragazza, una ragazza normale,
che non voleva ascoltare la musica classica che fai esplodere nella mia camera,
ma amava i cantanti carini, che non andava a teatro, ma al cinema, una ragazza
a cui piaceva, sì, piaceva!, essere guardata con desiderio. Gridare, gridare,
gridare. Ma la bocca restava chiusa e la voce bloccata in gola.
E quel sabato su una poltrona rossa e morbida le luci si spensero e nel
buio vidi la donna. Medea. L’attrice aveva i capelli rossi, anzi arancioni e il
suo viso era cosparso di lentiggini. Medea.
Per qualche motivo mi faceva
paura: non perché aveva ucciso suo fratello, per amore di Giasone, non perché
era una maga, ma per l’odio gelido che aveva nel sapersi diversa e superiore,
per la fredda razionalità dei suoi gesti. Per quell’atteggiamento intelligente,
ma terribile. Lo vedevo quando muoveva le braccia, quando chinava la testa,
quando reprimeva la rabbia mentre il suo uomo la ripudiava per una sposa di
rango nobile.
Il palloncino nero. Il palloncino esplode e il freddo arriva come
elettricità. Il mio rifugio! Esploso. E ora. Ho. Paura. Ora ho…
***
Nessun terrore solo sorpresa. Che presto diviene
consapevolezza, per mutare ancora. Perché non è più il vuoto asciutto, secco e
arido che sento scivolare sinuoso come un serpente dallo stomaco al petto. Non
è tensione statica quella che piuttosto esplode lungo la schiena. Non è. Non
più.
È quello che avevo dimenticato: è euforia. Tale che griderei, mentre il
vento sbatte più forte di quanto abbia mai fatto contro il mio viso; mentre il
bianco che prima era stata una luce lontana riempie i miei occhi, scotta, li
scava, distrugge, grida.
Sono tornato!
***
Medea grida: tutto il suo volto è contorto perché la
bocca si apra e un suono terrificante piova in tutto il teatro. Due coni di
luce: uno splende su Glauce che si dimena con la veste avvelenata strillando di
dolore, l’atro illumina una scalinata e una parete con finestra, Medea grida la
sua furia sporgendosi dalla varco rettangolare all’unisono con Glauce, che si
irrigidisce, si inarca. Muore. Medea smette di gridare, un movimento spontaneo
e rapido come quello di un serpente, quando il collo scivola perché l’attrice
volga lo sguardo al pubblico e quello sguardo è di nuovo freddo e fiero e, sono
sicura, guarda verso di me. Quegli occhi non sono quelli di una donna, ma di un
Dio della morte. Freddi come una colonna di pietra, soffusi come un rimbombo. Medea
posa il piede su uno scalino e discende la scale folle e assennata. I passi risuonano
appena e terminano con un suono più grave, come se uno strumento musicale
stesse accompagnando i suoi piedi e persino l’aria attorno sembra piegarsi.
La paura diviene terrore e sento
me stessa rantolare. I miei respiri, sono i miei respiri ad assomigliare a dei
singhiozzi. “Sayu” dice mia madre.
“Sayu,
amore, è perfetto, è un miglioramento, tesoro”
Non capisce, non
capisce, Medea è la morte e si sta avvicinando, come acqua che sale finché
anneghi. Morta. Annegata.
Lei non capisce che è
pericolo: non può sentirmi gridare!
Aaaaaah!
I
singhiozzi sono più acuti più forti, una donna si gira a guardarmi e io vedo
solo il riflesso bianco del suo sguardo curioso. Medea, invece, ha gli occhi
spalancati verso di me.
AAAAAAAH!
Potenti e terribili. Poi ci fu il
rumore. Le grida degli altri, la gente che si alza in piedi e io che a terra
fisso le loro scarpe.
BAM!
Anche la mamma sta gridando, il mio sguardo corre per il soffitto, nella
mia mente Medea scende le scale con occhi rossi.
“Yagami bastardi! Dio risorgerà!”
Attorno a me il panico.
BAM!
Non più gli occhi di Medea scintillano di rosso davanti a me, ma gocce
che si librano per un istante interminabile fino a cadere sul mio volto. La
voce di mamma. Non c’è più.
La mandibola trema. Apro la bocca. E grido.