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Autore: Rei_    26/07/2016    3 recensioni
(!) Attenzione! Questa storia parla di bullismo, saranno presenti alcune scene di violenza! (!)
Michele, 27 anni, è appena entrato in un mondo a lui ancora sconosciuto: palazzo Montecitorio.
Lui, giovane insicuro, nasconde un lato fragile causato da un passato buio che vuole dimenticare. A differenza di Nicolò, che invece non ha mai perso nella sua vita e anche nel mondo politico a breve acquisterà una crescente leadership causata dal suo forte carisma naturale.
Due persone di partiti diversi, che inevitabilmente finiranno per scontrarsi, ma se è vero che l'odio è una forma d'amore allora il loro rapporto è destinato presto a cambiare...

Spalancò le braccia nella neve e allargò le gambe. Sarebbe dovuta uscire disegnata la figura di un angelo, ma mentre Michele chiudeva lentamente gli occhi, vinto da quell'insolita stanchezza, pensò che era impossibile che uno come lui potesse essere capace anche lontanamente di assomigliarci.
Perchè gli angeli non finiscono nudi nella neve.
Non vengono chiusi negli sgabuzzini.
Gli angeli sono luminosi, e lui invece era fatto di buio.
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash
Note: Lemon, Lime, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
Capitoli:
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Si erano già fatte le due di notte quando uscirono finalmente da quello squallido bar del centro.
Non era mai stato abituato a quel genere di locali. Ma non c’era poi tanta scelta, dopo una giornata passata tra la manifestazione e i concerti all’aperto quello era l’unico posto dove potevano andare a bere tutti insieme. In università sarebbe stato impossibile così come nella loro sede centrale, perché Goffredo non l’avrebbe mai permesso.
Da un po’, Riccardo aveva preso l’abitudine di contare i giorni in cui non si faceva. Il suo record per ora era stato di tre, ma con quello che stava per finire era finalmente arrivato a quattro. La giornata era volata e lui era felicemente brillo, con la fronte sudata e le scarpe di marca ben ricoperte della polvere delle strade.
Una volta fuori, il loro gruppo si sciolse. Solo un ragazzo dai capelli rossicci rimase a fare la strada con lui, sotto la luce fioca dei lampioni.
«Ehi, Riccardo, grazie per l’ospitalità» gli disse allegro, con la voce impastata per le tre birre che si era scolato.
«Ric» borbottò Marchesi, ricordandosi in quel momento a quanto poco fosse abituato al suo nome di battesimo, «non c’è problema. Casa mia è grande e ci abito solo io».
«Vivi in una reggia?» scherzò subito Francesco.
«Sì, più o meno» sorrise lui.
Camminarono silenziosamente per qualche minuto, entrambi piuttosto barcollanti. Quel ragazzo che avrebbe ospitato aveva passato tutto il giorno a correre da tutte le parti, parlare con ogni persona, cantare, ballare, fare cori al megafono, e Marchesi non si spiegava come potesse avere ancora l’energia per camminare.
«Dev’essere bello vivere qui» sospirò il ragazzo dai capelli rossicci «essere a diretto contatto con la politica, lavorare alla sede centrale e tutto».
Riccardo abbassò lo sguardo. L’argomento “lavoro” non era dei più felici in quel momento e l’avrebbe volentieri evitato.
«Sì… tutti amici di Goffredo, compreso il segretario. Si riuniscono sempre nell’ufficio accanto al mio» rispose velocemente, notando subito un bagliore di invidia e ammirazione comparire negli occhi dell’altro.
«Ma è fantastico! Goffredo ti avrà insegnato un mucchio di cose! Diventerai parlamentare un giorno!»
Riccardo cercò di non rispondere, ma l’alcool gli impedì di trattenersi.
«Già. Sono due anni che lavoro come funzionario di partito, e l’unica cosa che fa è rimproverarmi quando sbaglio, farmi leggere carte noiose e affidarmi più incarichi complicati di quanti io abbia il tempo di seguirne».
Francesco rimase in silenzio per un po’ allontanando lo sguardo, evidentemente colpito da quella risposta. Riccardo si accorse di quanto fosse strano non vedere la sua espressione allegra pronta a fare una battuta, dato che non aveva fatto altro tutto il giorno.
«Pensavo fosse tutt’altra cosa» mormorò sincero Francesco, evidentemente deluso «sai, lavorare in un partito. Pensavo fosse tipo come abbiamo fatto oggi, no? Stare insieme alla gente e parlare delle nostre idee».
Riccardo sentì una ferita aprirsi nel cuore per tutta quella ingenuità. Anche lui la vedeva così a sedici anni, ma i suoi sogni si erano infranti molto presto, e anche la sua voglia di lavorare e mettersi in gioco si era persa nel tempo.
«No. Anzi, era un bel po’ che non mi divertivo come oggi» ammise Riccardo, non senza amarezza nella voce.
Francesco continuò a correre sulla strada, fischiettando qualche canzone tra quelle che avevano cantato a squarciagola quel pomeriggio. Marchesi gli camminava lentamente dietro. Tutto quell’entusiasmo un po’ gli metteva allegria, ma un po’ lo riempiva d’invidia. Quel ragazzo poteva ancora divertirsi, era apprezzato da tutti e non aveva un mucchio di doveri a cui pensare. Era libero, più libero di quanto lui avesse mai sognato di essere.
«Cosa c’è lassù?» gli chiese ad un certo punto, indicando una scalinata ripida.
«Il Quirinale» rispose Marchesi distrattamente. Il viso di Francesco si illuminò all’improvviso.
«Oh! Vuoi dire che lì dentro c’è…»
«Cossiga?» Riccardo alzò un sopracciglio, «immagino di sì, anche se credo che a quest’ora starà dormendo».
L’altro lo guardò con un sorriso strano.
«Chi arriva ultimo è un comunista!» urlò ai quattro venti, prima di sgambettare per la collina, con lo zaino che gli rimbalzava sulla schiena.
«Ehi!» protestò Marchesi, preso alla sprovvista.
Iniziò a correre, ma la salita era ripida e si ritrovò a percorrere gli ultimi gradini quasi senza fiato. In cima vide Francesco impegnato a fare giravolte nella piazza, squarciando il silenzio con la sua voce.
«UN PRESIDENTE! C’È SOLO UN PRESIDENTE! UN PRESIDEEEEENTEEEE…»
Riccardo osservò gli sguardi impassibili dei due corazzieri a guardia dell’ingresso. Se avessero potuto muoversi da lì, di sicuro avrebbero già cacciato quel ragazzo che era arrivato a rompere la quiete.
«Sssh! Tu sei fuori di testa!» gli gridò, senza riuscire però a togliersi un sorriso divertito di dosso.
Francesco lo scrutò con un ghigno, che il momento dopo si ricompose in un’espressione solenne.
«Onorevole Marchesi, è in funzione del ruolo conferitomi dal Parlamento che io la nomino Primo Ministro, con l’incarico di formare un governo. Giura di osservare la Costituzione e di rispettarne i suoi principi?»
Il tono solenne di Francesco, unito alla sua pronuncia impastata
dall’alcool, fece scoppiare a ridere Riccardo, mentre assumeva anche lui un’aria fintamente seria.
«Lo giuro».
«E giura di non far mai entrare i comunisti al governo?»
«Giurissimo» ripeté, controllandosi per non ridere.
Francesco gli strinse pomposamente la mano, per poi scoppiare di nuovo a ridere.
«Hai sentito, Cossiga?» urlò di nuovo, rivolto all’enorme palazzo
«Inizia a fare le valigie, perché io e Ric governeremo questo Paese!» Alcune guardie uscirono dal palazzo, esortandoli ad andare via, e Riccardo e Francesco finalmente tornarono sulla via di casa, entrambi ignari che il loro futuro sarebbe stato ben diverso.
 
 
*
 
 
«Ah, finalmente sei sveglio!»
Michele aprì lentamente gli occhi. Il sole invernale riempiva la piccola stanza di luce, riflettendo l’azzurro chiaro delle coperte e l’arancione intenso delle pareti. Vicino a lui c’era un comodino di legno scuro decorato, e a destra una grossa poltrona dove vi era
acciambellato Riccardo Marchesi, con addosso abiti insolitamente informali.
La confusione lo assalì senza neanche dargli il tempo di tirare il respiro, e fu solo con un enorme sforzo che riuscì ad afferrare la raffica di parole del segretario, il quale gli stava raccontando della polizia che lo aveva trovato svenuto sul cemento e di lui che veniva chiamato nel cuore della notte e si precipitava lì.
«Ma… che… dove…?» balbettò Michele. Si sentiva completamente indolenzito e confuso, la testa gli faceva male e aveva difficoltà a respirare. L’istinto gli suggeriva di girarsi sul lato opposto, non abituato a mostrarsi a qualcuno in un tale stato di debolezza, ma muoversi sembrava costargli una spropositata fatica.
«Siamo da un amico» gli comunicò.
Michele, mettendolo più a fuoco, riuscì a notare delle pesanti occhiaie sul suo volto.
«Un amico che ha un ospedale privato, intendo».
«Ma… loro… loro…» biascicò di nuovo. Faceva una gran fatica a parlare, come se avesse qualcosa di incastrato in gola. Si accorse di avere diverse fasciature su tutto il corpo e un tubo infilato nel braccio destro.
«È tutto a posto, Michele» il segretario gli sfiorò delicatamente una mano, «ho pensato io a tutto. Nessun giornalista pubblicherà notizia dell’aggressione, e nel partito ho informato solo pochi fidati. D’altra parte, dopo quel sasso che ti hanno lanciato far girare la notizia servirebbe solo a istigarli. Non mi sarei mai aspettato che arrivassero a tanto. Ma troveremo i colpevoli, te lo assicuro».
Michele cercò di capire a cosa si stesse riferendo. Non riusciva a seguirlo, tutta la sua concentrazione era fissata sul suo tono di voce, colmo di un’apprensione che era sempre sembrata estranea al suo segretario.
«Ho anche litigato con il tuo staff, sai?» continuò, facendo un mezzo sorriso di superiorità, «pensavano che far sapere della tua aggressione sarebbe stato positivo per continuare a dimostrare la violenza di chi ti contesta. Ho risposto che per nessun motivo un giornalista ti avrebbe scattato foto e fatto interviste in queste condizioni, e che potevano pure andare tutti al diavolo».
Fu in quel momento che Michele afferrò. Marchesi non sapeva chi era stato veramente ad aggredirlo, non sapeva della minaccia telefonica e aveva ricostruito a modo suo i fatti, collegandoli all’altra contestazione. Sentì l’istinto di dirgli subito la verità per intero, ma una vocina interiore lo bloccò all’istante. Si morse la lingua, cercando velocemente di valutare i rischi e i benefici nel raccontare tutto al proprio segretario, ma gli era difficile concentrarsi con l’altro che continuava a parlare a ruota libera.
«Certo, comunque potrai decidere tu di rendere pubblico il fatto, ma secondo me…»
Michele scosse la testa, così violentemente che i tendini del collo protestarono per il dolore. Cercò di infondere nello sguardo che rivolse a Marchesi tutto ciò che a parole non sarebbe riuscito ad esprimere.
«No… nessuno… non deve saperlo nessuno…»
L’ansia di finire sui giornali un’altra volta, di sentirsi ancora oggetto dell’attenzione collettiva nel suo momento maggiore di debolezza e di rischiare di nuovo ritorsioni vinse ogni vergogna di fare una richiesta così esplicita.
Riccardo sorrise comprensivo.
«Lo so, tranquillo» gli accarezzò piano il dorso della mano, «ora non ti sforzare però. Vuoi che ti prendo qualcosa da bere?»
Michele scosse la testa debolmente.
«Devo chiamare Andreani».
Sentiva che era l’unico che avrebbe potuto aiutarlo, l’unico che avrebbe potuto dirgli cosa doveva fare. Perché lui non perdeva mai né le battaglie né la faccia, e soprattutto avrebbe avuto il coraggio che a lui mancava.
Marchesi gli porse il cellulare, riluttante.
«Senti Michele, Andreani è partito».
Ma lui non lo stava già più ascoltando mentre componeva il numero. Dall’altoparlante uscì una fredda voce registrata. Il cellulare era spento.
Michele si abbandonò sul letto, sconfitto. Il segretario restò in silenzio per un po’, lasciandolo da solo con i suoi pensieri.
«Vado a prenderti una cioccolata, ti farà bene» comunicò infine, uscendo dalla porta.
L’orologio segnava le tre di pomeriggio quando Arturo e Thomas entrarono nella stanza.
Michele aprì un occhio, smettendo di fare finta di dormire. Aveva passato tutta la mattina a pensare, senza arrivare ad una soluzione su cosa fare. Marchesi era stato a fianco a lui tutto il tempo senza dire una parola, seduto sulla poltrona a fare i suoi affari.
«Michi!»
Thomas lo abbracciò, iniziando a fargli domande a raffica. Per fortuna, Marchesi e Arturo riuscirono a calmarlo.
«Quei bastardi!» inveì il biondo, scuotendo una sedia dalla rabbia,
«se li trovo li ammazzo con le mie mani!»
Michele fissò intensamente Arturo, sperando che interpretasse il suo sguardo nel modo corretto. Era un po’ commosso dalla rabbia di Thomas, ma in quel momento aveva problemi più importanti da risolvere.
«Mi lascereste cinque minuti con Michele?» chiese educatamente l’anziano, raccogliendo al volo la sua espressione.
Thomas uscì senza fare storie. Riccardo Marchesi invece non ubbidì subito, restando fermo al suo posto, come chiedendosi se fosse il caso di adeguarsi a quella richiesta. Infine, però, uscì anche lui.
Arturo si sedette a poca distanza da Michele, più serio che mai, e il giovane iniziò a raccontargli tutto, da quando aveva ricevuto la telefonata minatoria a quando era stato prelevato in strada. Ogni parola che pronunciava sembrava dargli abbastanza coraggio per pronunciare quella dopo.
«Non so cosa fare» ammise infine. Sapeva che Arturo era l’unico che poteva indicargli la via giusta da percorrere.
«Ti hanno fatto questo per spaventarti e impedirti di testimoniare, Michele. A maggior ragione dovresti farlo, e mentre testimonierai dovrai denunciare queste persone. Ma è una tua decisione».
Michele si morse un labbro. Si era preparato a questo, ma era comunque spaventato.
«Una volta che avrò testimoniato mi torneranno a cercare, non è vero?»
«Sì» rispose Arturo. Guardava ostinatamente un punto fisso del muro, cercando di mascherare a Michele la sua stessa paura.
«E… mi daranno la scorta?» chiese lui, cercando di non sembrare spaventato.
«È possibile» rispose di nuovo l’anziano.
Michele fece un respiro profondo, chiedendosi da dove fosse mai partito quel maledetto incubo. In due settimane la sua vita era precipitata in modo irreversibile.
«Non sono pronto» mormorò piano.
«Nessuno lo è mai per questo. Ma tu sei un ragazzo forte, e non sarai mai da solo».
Arturo lo strinse forte e restò in silenzio vicino a lui, sorridendogli per dargli coraggio. E Michele, nonostante le fasciature e i dolori, in quel momento si sentì al sicuro come mai in vita sua.
Lo sguardo indagatore di Marchesi non lo perse di vista per tutto il resto della giornata.
Michele aveva provato più volte a chiamare Nicolò, per poi arrendersi al fatto che aveva il telefono del tutto staccato. Fu tentato diverse volte anche di chiamare Giorgio Iannello almeno per sapere dove fosse andato a finire, ma alla fine non l’aveva fatto. In compenso, era riuscito a contattare il tribunale per far spostare la sua testimonianza di qualche giorno. Non potendo alzarsi dal letto, però, aveva dovuto farlo sotto lo sguardo di Marchesi.
«È Arturo che ti spinge a testimoniare?» commentò il segretario alla fine della chiamata.
«Sì, ma è anche una mia scelta».
Marchesi sospirò. Era stato in quella stanza per tutto il giorno, e Michele non riusciva a spiegarsi come mai non se ne fosse ancora andato. Non che gli dispiacesse, era comunque meglio che restare da solo, ma era certo che il suo segretario avesse mille altre cose importanti da fare piuttosto che rimanere dentro un ospedale a fare compagnia a lui.
«E ovviamente sai a cosa vai incontro» aggiunse poi.
«Sì» rispose di nuovo Michele, ma con una voce decisamente più bassa. Lo immaginava e basta in realtà, ma in quel momento il suo segretario gli parlava come se la sapesse lunga sull’argomento e come se lui avesse fatto la scelta più stupida del mondo.
«Scusami, ma penso che tu non lo sappia davvero. Sai, Arturo è stato sempre un dirigente di punta del PCI da quando ha iniziato la sua lotta contro la mafia. È stato minacciato, ma nessuno gli ha mai fatto niente, perché se qualcuno gli avesse fatto qualcosa l’intera Sicilia sarebbe insorta. Per questo fa lo spavaldo, dimenticandosi che per te il discorso è un po’ diverso».
Michele strinse debolmente i pugni e guardò il segretario con odio, cercando di pensare a come rispondere. Non permetteva mai a nessuno di parlare in quel modo di Arturo, ma non aveva argomenti per contrastare quella brutale verità. Si morse la lingua per non confessare di essere in realtà già stato aggredito.
«Neanche tu sapevi a cosa stavi andando incontro. Però hai combattuto lo stesso i fascisti in università, no?» ribattè acidamente. Marchesi chiuse la bocca, evidentemente spiazzato. Ma non fece in tempo a trovare una risposta che la porta si spalancò ed entrò Marcello Pasqui.
«Ecco dov’eri!» sbottò, rivolto al segretario, «naturalmente ti sarai dimenticato che questa sera dobbiamo vederci con i popolari».
«Marcello» rispose lui tranquillamente, «sono contento che tu sia venuto. Michele ha bisogno di tutto il sostegno possibile».
Il capogruppo lo fulminò con lo sguardo. Poi si voltò verso Michele, con la solita espressione seria e imperscrutabile.
«Mi dispiace molto per ciò che è successo. Ti ho portato qualcosa a nome di tutto il partito».
E appoggiò un enorme vaso di fiori sul tavolo. Michele riuscì a mostrare un debole sorriso al capogruppo, ringraziandolo, anche se notava quanto quel gesto fosse freddo e poco spontaneo.
Nel frattempo, Marchesi si era messo la giacca e si era staccato dalla poltrona.
«Scusa Michele, il dovere chiama. Torno più tardi».
All’ora di cena, un’infermiera giovane e sorridente fece entrare un carrello stracolmo.
«Buonasera, signor Martino!» salutò allegramente.
«’sera» rispose Michele a mezza voce, studiando perplesso l’odore di carne e di zafferano che si stava prepotentemente diffondendo per la camera. Tutto sembrava, tranne che cibo da ospedale.
«Ecco… non so se posso mangiare tutto questo. Insomma, sono in convalescenza».
«Non si preoccupi!» rise la cameriera, come se avesse fatto una battuta divertente «ovviamente il menu è stato concordato con il dottore, e il signor Marchesi si è premurato particolarmente perché mangiasse bene».
Gli venne sistemato il vassoio sulle gambe e Michele sentì solo in quel momento tutta la fame che aveva. Mangiò con gusto ogni boccone, sentendo però una strana sensazione di abbandono. Cenare da solo a casa era un conto, ma cenare da solo in ospedale pietanze così buone aveva intrinsecamente un alone di tristezza profonda.
Una volta finito, cercò di alzarsi dal letto. Era stufo di rimanere lì bloccato, voleva fare qualcosa, anche solo passeggiare su e giù per la stanza per pensare.
Non appena appoggiò i piedi per terra, una scarica fastidiosa di dolore gli percorse la schiena. Si attaccò di peso alla macchina della flebo, muovendo qualche piccolo passo verso la porta. Con grande fatica riuscì a percorrere il corridoio. Intorno a sé notò facce di pazienti felici e grandi quadri appesi alle pareti. Più che un ospedale, sembrava un centro benessere di lusso.
«Onorevole Martino!» gli si avvicinò un uomo in camice bianco «mi rincresce, ma è meglio che lei stia a riposo per qualche giorno. Mi dia il braccio, la riaccompagno in camera».
Michele non poté rifiutare e fu costretto a tornare nella sua piccola prigione dorata. Il dottore lo aiutò a stendersi, offrendogli gentilmente il suo appoggio.
«Mi rincresce molto» ripeté, «ma è meglio così, non vogliamo che la sua condizione peggiori. Se si annoia vado subito a prenderle quello che desidera, abbiamo una vasta biblioteca».
«Quanto dovrò stare qui?» chiese Michele, cercando di non far trapelare la sua disperazione.
«Non si preoccupi, non molto, glielo assicuro. Stiamo facendo il possibile per lei, d’altra parte Ric è un mio caro amico, e ha insistito per avere le migliori cure».
«Lei conosce Marchesi?» si incuriosì Michele.
«Certamente, lo conosco dall’università! Ambienti di un certo livello, non so se mi spiego. Non esiste un piacere che negherei agli amici che conobbi dentro la sua associazione».
Michele rimase spiazzato da quella risposta così calorosa e appassionata. Non sapeva esattamente cosa intendesse per “ambienti di un certo livello”, ma conoscendo Marchesi poteva benissimo immaginarli.
«Soprattutto con Ric, che ha fatto tantissimo per tutti noi. Senza di lui, forse non sarei qui».
Il dottore sorrise di nuovo, uscì e ritornò poco dopo con delle riviste e dei libri, lasciando Michele da solo a pensare a quelle ultime parole.
 
 
*
 
 
Il mondo girava velocemente, più di quanto i suoi occhi riuscissero a captare. La birra aveva fatto il suo effetto. Ne aveva bevuto almeno due litri quella sera. O forse di più, non se lo ricordava.
Le luci venivano sparate ripetutamente sulle sue palpebre semichiuse. Verde, blu, giallo, rosa. Si abbassavano, si alzavano, pulsavano al ritmo della musica. Batteva le mani a tempo, saltava, si piegava sulle ginocchia, muoveva la testa. La melodia lo stava lentamente portando in un’altra dimensione, e il ritmo crescente sembrava prendergli la mano per accompagnarlo in quel viaggio.
Tutti ballavano, tutti sentivano quella cosa dentro, quella cosa che si sente quando si è in tanti a vivere lo stesso momento, a provare le stesse emozioni, a percorrere lo stesso cammino. I suoi amici lo abbracciavano, ballando scatenati, lo spintonavano, cantavano a squarciagola.
Quelle note erano magia pura, e lui non avrebbe smesso per niente al mondo. La sua vita non aveva mai avuto così tanto significato che in quella notte, dove l’importante era solo non fermarsi, non fermare
l’emozione che lo trascinava nella mischia, insieme a tutti gli altri ma comunque da solo con la musica che lo guidava.
Le ore passavano. Più ballava, più i suoi sorrisi si riempivano di gioia e i suoi occhi verdi di voglia di vivere la vita e basta, di andare avanti, di non lasciarsi mai più fermare.
Per quella notte aveva vinto lui. Lui, il vero Nicolò.
 
 
*
 
 
Sussultò, sentendo una mano toccargli una spalla. Probabilmente stava avendo uno dei suoi soliti incubi. La fronte sudava freddo e le mani tremavano, nel vago ricordo di un immaginario stanzino chiuso.
Un libro giaceva stropicciato sul letto. Marchesi lo raccolse e lo sistemò sul comodino, fissando Michele nella penombra e studiando la sua faccia stravolta.
«Stavi facendo un incubo?»
Michele cercò sul comodino un fazzoletto per asciugarsi il sudore. Non si sarebbe messo a raccontare la storia della sua vita a Marchesi, quello era sicuro. Quell’uomo aveva già troppi motivi per compatirlo.
«Ho chiesto dei sonniferi all’infermiera, però…»
«Lo so, non puoi prenderli» concluse Marchesi, riprendendo il posto sulla poltrona, «il dottore pensa che potrebbero inibire alcuni farmaci».
Michele cercò lo sguardo del suo segretario. L’istinto gli stava suggerendo che poteva ottenere ciò che voleva, se solo giocava bene le sue carte.
«Non riesco a dormire senza sonniferi» comunicò convinto, evitando di specificare il perché.
«È comprensibile» sospirò Riccardo.
Per lunghi minuti si fissarono, scambiandosi parole senza realmente pronunciarle. Alla fine, il segretario di Sinistra Democratica tirò fuori da una tasca interna una scatolina, sospirando forte.
«Solo per stanotte».
Michele afferrò la pastiglia, unico suo mezzo di salvezza in quel momento. Per un momento riuscì a dispiacersi realizzando che anche il suo segretario girava con i sonniferi in tasca.
«Resterai qui anche stanotte?» mormorò Michele, aspettando che il sonnifero facesse il suo effetto.
«Certamente. Preferisco che tu non rimanga solo» rispose il segretario, accovacciandosi meglio che poteva sulla poltrona.
«Non è importante, davvero» rispose lui, sentendo le palpebre farsi piacevolmente pesanti.
«Certo che lo è».
Michele restò a fissare il segretario che lavorava con il tablet fino a che i sonniferi fecero effetto.
 
 
Il giorno previsto per la testimonianza di Michele arrivò abbastanza in fretta, ma ogni ora passata dentro quell’ospedale al giovane deputato era sembrata un’eternità.
I ritmi erano scanditi dalla costante presenza di Marchesi, che in realtà non era una vera compagnia perché passava la maggior parte del tempo a lavorare e a fare telefonate. Michele, invece, trascorreva le giornate a leggere per distrarsi dai suoi pensieri, rallegrandosi quando venivano Arturo e Thomas a fargli visita. Il deputato romano sembrava avere sempre mille storie da raccontare sui pettegolezzi della Camera ed era capace di infiammarsi su qualunque polemica politica, provocando diverse occhiatacce da parte di Marchesi.
Il deputato più anziano, invece, lo aveva aiutato a ripetere ciò che avrebbe detto in tribunale. Non era stata però un’impresa facile: avrebbe dovuto misurare bene ogni singola parola per distinguere bene i nomi di cui era sicuro e quelli di cui invece non si ricordava bene. La nota buona di quei momenti era che Arturo, dovendo trovare un modo per stare da solo con lui, lo trascinava nel giardino, permettendogli di respirare. Doveva essere una scena divertente agli occhi degli altri pazienti vedere un signore anziano sorreggere un uomo più giovane sulle stampelle. Grazie al suo aiuto era riuscito anche a concordare segretamente con il tribunale il giorno e l’ora della testimonianza.
Ogni tanto era venuto anche Pasqui a fargli visita, ma le sue apparizioni erano sempre intrise di una fredda formalità, e Michele avrebbe di gran lunga preferito che non venisse.
Aveva provato diverse volte in quei giorni a contattare Nicolò. Lo faceva di nascosto, quando Marchesi usciva per chiamare, ma trovò sempre il cellulare spento.
Il giorno dell’udienza si provò i vestiti che Marchesi gli aveva portato.
«Ti sta veramente bene!» sorrise il segretario.
Michele fece una smorfia, che subito dissimulò. Avrebbe tanto voluto mandare qualcuno a prendergli la sua solita giacca grigia piuttosto che indossare quei vestiti costosi che sembravano addirittura ribellarsi al suo corpo, tanto erano estranei al suo modo di vestire, ma gli era sembrato scortese fare una richiesta del genere, considerata anche la generosità del segretario.
Grazie alle particolari cure a cui era stato sottoposto si era velocemente ripreso, e il giorno dell’udienza riusciva a camminare senza aiuto. Andò in tribunale da solo su un taxi anonimo, in modo che nessuno potesse riconoscerlo.
Rimase lì dentro per tre ore buone. Fu anche più prudente di come concordato con Arturo, dicendo solo i nomi e i fatti di cui era certo al cento per cento. I magistrati gli fecero molte domande, ma lui non si scompose mai. Negli occhi vedeva sempre la possibilità di poter far pace con Andreani, e sapeva bene che ogni parola sbagliata poteva compromettere quella debole speranza di dimostrarsi di nuovo innocente ai suoi occhi. Alla fine, il pubblico ministero gli disse che le sue informazioni sarebbero state preziose, e l’avvocato aggiunse che di sicuro questo avrebbe alleviato l’indagine nei suoi confronti. Michele Martino uscì dal tribunale con il cuore più leggero. Il sole sembrava più luminoso per tutto il tempo che aveva passato senza il suo calore sulla pelle, e il cielo completamente limpido era così bello che gli ridiede non solo la speranza, ma addirittura la totale certezza che, quando Nicolò sarebbe tornato, non avrebbe potuto fare a meno di riconoscere la sua innocenza.
Camminò fischiettando per la strada fino alla fermata del taxi più vicina. Quando scese dal marciapiede per attraversare le strisce, non poté in alcun modo accorgersi della macchina nera senza targa con i finestrini oscurati che aveva svoltato improvvisamente e che stava sfrecciando verso di lui.
Questa volta non ebbe il tempo né di pensare, né di avere paura mentre la macchina lo prendeva in pieno e lo lasciava disteso sul cemento, con ancora il sorriso stampato in faccia per le speranze che non aveva avuto il tempo di spegnere.
 
 
*
 
 
Era il quinto giorno consecutivo in cui cercava di riprendersi, dopo aver passato le notti a ballare e ad alcolizzarsi. La sua testa era un unico fischio continuo e martellante e i suoi sogni erano così assurdi e confusi da lasciarlo stordito più di quanto già lo fosse con gli alcolici e le droghe.
Eppure era felice, schifosamente felice. Leggero come l’aria, libero come un’aquila, senza più problemi a cui dover pensare se non se stesso e, se ogni tanto la malinconia per ciò che aveva lasciato veniva a tormentarlo, bastava alzare un po’ di più il volume delle casse, ridere con qualche sconosciuto e battere le mani a tempo per dimenticare tutto.
Accadde, però, che la mattina del quinto giorno si svegliò presto, madido di sudore. Aveva appena vissuto una scena orribile nei suoi sogni, ma non riuscì a ricordarla.
Inizialmente cercò di affrontare l’episodio con razionalità. Andò in bagno, si fece una doccia veloce e fece colazione da solo con una tazza di latte e cereali. Poi, visto che era ancora presto, tornò in camera e cercò di riaddormentarsi, ripetendosi nella mente che qualunque cosa avesse visto non era reale.
Tuttavia, un dolore strano all’altezza della milza gli impedì di prendere sonno. Non era proprio un male, era più un fastidio, ma era così forte che non riusciva a domarlo in alcun modo.
Qualcosa non andava. Lo sentiva, anzi, lo sapeva per certo. Eppure era una sensazione irrazionale, non poteva in alcun modo essere vera. Per un po’ di tempo si rifiutò di dargli retta, convincendosi che era tutto nella sua testa, ma alla fine il suo istinto gli impose di accendere il cellulare, che aveva fino a quel momento tenuto rinchiuso nel comodino.
Subito l’apparecchio vibrò ininterrottamente per tutta la posta arretrata che stava scaricando, ma prima che Nicolò potesse scorgere una sola parola vide comparire una chiamata sullo schermo.
Una chiamata dalla persona più inaspettata fra tutte. Arturo Costa.
«Pronto?»
«Dove ti trovi?»
La voce dell’anziano era bassa, così tanto che Nicolò dovette premersi il telefono sull’orecchio.
«Sono in vacanza, a Berlino… perché?»
«Devi tornare subito qui, il prima possibile».
«Cosa?» la mente ancora stordita di Nicolò iniziò a lavorare freneticamente, riportandolo a tutto ciò che aveva lasciato indietro da quando era partito da Roma, «Perché? È Michele? È successo qualcosa a Michele?»
Prima ancora che l’anziano gli rispondesse, Nicolò si era già reso conto di sapere la risposta e una fitta di panico gli impedì di respirare. Dall’altro capo del telefono non si sentiva alcun rumore.
«Che è successo? Sta bene, vero? Sta bene? Fammi parlare con lui». La stanza davanti a lui iniziò a girare.
Non poteva essere. Era solo un altro incubo, un altro stupido frutto della sua sadica fantasia.
«Rispondimi! Sta bene?» urlò.
Dall’altro capo continuò il silenzio, e Nicolò smise anche di respirare per poter sentire qualsiasi sussurro.
Attese, e ogni secondo sembrava che una lama gli entrasse nel cuore. Si sentì un singhiozzo, un sospiro, e poi una voce più chiara si sostituì a quella di Arturo.
«È stato investito. Non sanno chi è stato. Alcuni testimoni dicono di aver visto una macchina nera sfrecciare contro di lui, ma non è stata rintracciata. I dottori non ci dicono molto. Per quanto ne sappiamo, potrebbe non farcela».
La voce era sicuramente quella di Thomas, anche se era ben poco riconoscibile. Non c’era il solito tono scherzoso che aveva in aula, né quello combattivo di quando si scontravano in TV.
«No, non può essere…»
Si rannicchiò su se stesso, mentre in tutto il suo corpo i nervi si tendevano così tanto da impedirgli la circolazione.
Fissò il muro bianco davanti a sé, che da lì a poco avrebbe rotto a suon di pugni, mentre restava aggrappato al telefono come se fosse l’ultimo filo a cui era appesa la sua vita.
Thomas Greco non gli rispose più. Nicolò sentì solo un ultimo singhiozzo e un colpo di tosse prima che la chiamata si chiuse.
   
 
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