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Autore: Ornyl    31/07/2016    0 recensioni
Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta!
come l'aratro in mezzo al maggese.
Giovanni Pascoli, Lavandare
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Incompiuta
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Camminava lentamente tra le sterpaglie bruciacchiate, stringendo al collo lo scialle nero che le copriva le spalle. Sembrava una vecchia vedova, dicevano gli sguardi sorpresi di mamma e di sua sorella, e appena si specchiò in una pozzanghera diede loro ragione. Sembrava una vedova non solo vecchia ma anche folle, con quegli occhi vuoti di ragione e colmi di lacrime e le gambe doloranti che la spingevano lungo la Landa senza indossare una protezione. Ma loro non sapevano dove si stesse andando a inoltrare, non gliel'avevano chiesto o non avevano osato farlo, e se l'avessero fatto non avrebbe sicuramente risposto o avrebbe inventato qualcosa sul momento.
Inoltrarsi nella Landa senza un motivo urgente o senza essere uno stalker era reato punibile con la morte e lei lo sapeva. Ma allo stesso momento, a lei importava poco e nulla. La sua mente era stata sgomberata dalle regole e dalle norme della Comunità 116, dai pensieri felici e tristi, persino dai flash dei sogni che s'erano affacciati dentro la sua testa l'ultima notte che aveva dormito. Si sentiva pesante, trascinata da una forza grave e tremenda che veniva dalle sue stesse ossa stanche che iniziavano a dolorare in mezzo alle sterpaglie, con gli occhi altrettanto gravi che parevano crollare dal suo viso da un momento all'altro, tante lacrime avevano gettato e tante ne avrebbero piante ancora, e quasi pregava che quelle lacrime bagnassero un po' quella tundra di terra sterile e di piante morte, uccise dalle mine e dalle radiazioni.
Il dottore e il farmacista dicevano sempre che le radiazioni corrodessero il corpo degli uomini e delle donne. Era la prima verità che i bambini imparavano a scuola, verità che gli adulti nati prima della Guerra avevano amaramente imparato ad accettare durante gli scontri e dopo tantissime morti. Lei durante la Guerra c'era nata, era andata alla scuola del Bunker 116 e le maestre, tra l'ABC, il far di conto e l'esposizione alle lampade UVA, avevano ricordato anche a lei di non esporsi alle radiazioni. Dovevano vivere, dicevano. Dovevano vivere per serbare un po' di speranza nel futuro, per ripopolare il pianeta quando la Guerra sarebbe finita e le radiazioni e l'inquinamento sarebbero scomparsi grazie agli interventi di architetti e ingegneri stalker che già venivano addestrati per riportare la luce sulla terra. Ma quell'aria fredda che le corrodeva le spalle e le caviglie le piaceva, la bramava addosso, asciugava i rivoli che le lacrime avevano scavato sulle sue guance e le scompigliava i capelli col suo alito mortale. Sentiva di aver perso ogni speranza, e ogni passo era un continuo ricordare e un continuo singhiozzo che la costringeva a portarsi le mani alle labbra per non farsi sentire nè dagli stalker nè dagli uccellacci bombardati di radiazioni che ghermivano quel cielo grigio e vuoto.
E che la sentissero, pensò. Che la vedessero, quegli stalker corazzati, che la sollevassero con la forza tra le urla e le minacce, che la processassero e la condannassero. Oppure che la raccogliessero morta, sparita in mezzo alla Landa e crepata qualche giorno dopo per il freddo e per la fame, col corpo già pieno di danni interni dovuti a quell'aria fetida e maledetta di quella Guerra che non intendeva finire.
Nei suoi ricordi offuscati dal pianto, egli aveva sempre addosso la sua uniforme da presunta recluta, quella che nella realtà non indossava mai e che era addirittura più larga di una taglia. Sorrideva ancora col suo sorriso sottile e volpino, prendeva il suo scacciapensieri mentre un compagno lo accompagnava con la fisarmonica e la vedeva ballare. Poi alla fine le metteva il suo cappello e la giacca della sua uniforme, e scoppiava in una grassa risata.
La sua veste di cotone a fiori sulle sue ginocchia magre, con la sua mano ossuta che si infilava tra le ginocchia e l'altro braccio che la stringeva.
Perchè era bella in quell'uniforme che non avrebbe mai indossato, perchè era bella nei suoi larghi vestiti in cui lei sembrava nuotare, perchè le sue ginocchia gelide erano ben fatte come nessun altro paio di ginocchia all'interno della Comunità 116.
Perchè alla fine della Guerra non sarebbe stato premiato come stalker, mestiere per cui era anche piuttosto tardi per allenarsi e prepararsi. L'avrebbe sposata alla fine della Guerra, quando sarebbe diventato l'annalista della Grande Guerra Atomica e tutti avrebbero comprato i suoi grossi volumi rilegati in cuoio, con i grandi titoli in rosso scuro in onore alla Comunità 116. Perchè gliel'aveva scritto nelle note che segnava dietro i santini e dietro le tessere del pane che le passava di nascosto, dietro i pacchi di sigarette che finiva e consumava nella sua cella, infilandoli con discrezione nelle sue calze di cotone stinto che lei metteva ad asciugare alla finestra che dava sull'infermeria.
Nei suoi ricordi offuscati dal pianto, egli l'amava e glielo ripeteva di continuo, nascondendo la testa sulle sue spalle e accarezzandole il collo e ogni capello delle sue trecce, con le mani che le scendevano lungo la schiena. E dopo la Guerra sarebbero scappati se suo padre non gli avesse concesso la sua mano, e avrebbero festeggiato davvero in mezzo alla Landa, sotto un cielo finalmente ricoperto di stelle e su un terreno di nuovo fertile, di nuovo morbido, letto per i semi su cui si sarebbero addormentati.
 
Camminava senza una meta e il suo stomaco brontolava. Aveva lasciato la Comunità senza salutarla, senza un addio scritto dietro un santino o su una tessera del pane ormai consumata, con la divisa ancora sul letto e la maschera antigas dimenticata nell'armadio della sua piccola, polverosa stanza. Forse era salito su una delle vetture sotterranee che collegavano le Comunità e i rispettivi Bunker, forse era andato a sbrigare degli affari, forse era partito per sempre perchè la Comunità 116 lo disgustava. Forse perchè a disgustarlo era lei con i suoi baci da bambina, con i suoi capelli stopposi e le ginocchia pesanti sui suoi pantaloni, con il suo amore soffocante che nella vita non aveva mai provato, che forse non riusciva nemmeno a definire amore per questo motivo.
Si sentiva sola, sola com'era da sempre, nata nell'oscurità di un mondo sotterraneo che sfuggiva a una superficie sterile e malata, alla luce di quel neon dell'infermeria sotto il quale tutti erano passati almeno una volta nella vita.
Si sentì svuotata e si strinse di nuovo nello scialle. Sentì una lacrime rigarle il volto e feroci brividi correrle lungo la schiena.
Iniziava a nevicare, gli stalker sarebbero ritornati al Bunker a breve.
   
 
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