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Autore: KaienPhantomhive    01/08/2016    3 recensioni
[NUOVA EDIZIONE - VERSO LA PUBBLICAZIONE
Dopo 7 anni di blocco dello scrittore, riprendo in mano finalmente questo progetto, con una revision e correzione integrale dei capitoli già pubblicati, oltre a proseguire la storia.
Indispensabili lettori e recensori, aiutatemi a trasportare questo sogno da EFP alle pagine di un libro!
Completa | Prosegue in: "EXARION - Parte II"]
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"Quando i Signori della Luna penetrarono per la prima volta il nostro cielo, ciò avvenne come un monito, portando con sé il Freddo Siderale. [...] E da quel giorno il Cielo fu d'Acciaio."
Anno 2050: dopo più di un secolo, l'Umanità imparerà ad affrontare nuovamente la sua più mortale nemesi; se stessa.
Zeitland, Natasha, Helena, Arya, Misha, Màrino, Aaron: qual'è il filo invisibile chiamato 'Exarion' che lega queste anime? Quale la vera natura e il segreto del contratto che li lega alle misteriose sWARd Machines, gigantesche entità bio-meccaniche dai poteri soprannaturali? Una storia di Amore e Odio, Ricordi e Desideri, conflitti, legami, alchemiche coincidenze e destini incrociati. La Storia dell'Amore Egoista e dell'ultima Guerra del Mondo.
Genere: Guerra, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'EXARION: Tales of the EgoSelfish sWARd Machine'
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8.

 

Creazione dell’Uomo

 

 

17 Giugno. Ore 9.30.

Università russa di Economia ‘Plekhanov’. Mosca, Russia.

 

Quel giorno Nataša era tornata a lezione.

I soliti grandi, freddi e scuri muri grigi, gli austeri corridoi traboccanti di pettegolezzi, l’aria sonnolenta e irta di spilli del primo mattino russo: tutto era esattamente come lo aveva lasciato. Tutto perfetto, eccetto una cosa: gli sguardi. Che ne avesse ricordo, Nat non era mai stata considerata un’eccentricità nello sfondo altolocato della storica università moscovita, nonostante il suo status di figlia del Presidente. Ma arrivare al portone d’ingresso scortata da cinque guardie del corpo di suo padre in una macchina a vetri oscurati non era il modo migliore per non dare nell’occhio, specie se fino a pochi giorni prima era solita prendere il magnetram pubblico. Così, dal primo passo oltre la soglia fino alla sua aula, la ragazza aveva potuto godere di una popolarità praticamente assoluta; una popolarità piuttosto diffidente e non incline al dialogo ma che batteva comunque ogni altro centro d’interesse. Il suo ingresso nell’aula di Economia Politica fece scendere un brusco silenzio. Tutte gli studenti del suo corso – e persino il professore, che stava per accomodarsi alla cattedra – la fissarono ammutoliti. Sollevò timidamente una mano in cenno di saluto e senza sapere cos’altro aggiungere si avviò in silenzio verso il suo posto. Visto che il ritorno di Nataša Novikov non aveva causato alcuna esplosione o resurrezione estemporanea di Lenin, gli studenti ripresero presto il loro chiacchiericcio. Solamente due ragazze, ben vestite e dal trucco curato, le fecero segno dall’alto della terzultima fila.

“Irma! Anya!” – sorrise loro, dopo averle raggiunte.

“Ciao, tesoro!” – la salutò la prima, dai lunghi capelli castani raccolti in un crocchio. Era felice, ma non esuberante, e questo non sfuggì a Nat.

“Ti abbiamo tenuto il posto.” – Anya scostò i quaderni dalla seggiola destinata all’amica.

“Scusate se vi ho fatto stare in pensiero.” – disse Nat, abbassando la voce mentre tutti gli studenti iniziavano a prendere posto per l’imminente inizio della lezione. – “Ma perché tutti mi guard-?”

“Ne parliamo dopo.” – la frenò Anya, posandole una mano sulla sua.

E il residuo di sorriso che ancora aleggiava sulla bocca di Nat si spense del tutto.

 

*   *   *

 

Tre ore dopo, erano sul terrazzo dell’università.

“Oh, Dio! Se non mi faccio una sigaretta esco matta.” – Irma fu la prima a emergere dalle scale antincendio, con la solita teatralità che la contraddistingueva e l’accendino già in mano.

“Che cavolo di rientro.” – Nat la seguiva a ruota – “Ma l’avete visti? Mi guardano tutti come un’aliena!”

“Tesoro, sei la figlia del Presidente!” – puntualizzò Irma con un certo sarcasmo, poi dette un tiro al filtro per accendere la sigaretta – “Non hai visto che succede là fuori? È normale che ti guardino.”

“Nessuno ce l’ha con te, Nat.” – la rassicurò Anya, dietro a entrambe – “È che sono – siamo – tutti preoccupati per quello che si sente in giro. Magari sperano che tu sappia qualcosa in più.”

“Ma papà non ne parla a casa!” – protestò Nat, sapendo di mentire.

Raggiunse il cornicione parapetto e si appoggiò, sollevando il viso al cielo per sentire tepore di metà mattinata riscaldarla.

Stracci di nubi candide sorvolavano il cielo di Mosca. Rispetto a qualche giorno prima, era davvero una bella giornata di sole.

Fin dal primo anno di corso, il tetto della Facoltà era diventato il loro ritrovo preferito per trascorrere il meritato quarto d’ora di pausa. Da lì, Nat poteva scavalcare molti isolati e riconoscere la sagoma severa e pesante del Cremlino.

Papà. – le venne da sospirare. Era così distante.

Abbassandolo solo un po’ poteva invece scorgere in tutta la sua ampiezza il campo d’esercitazione dell’Accademia Militare maschile, proprio accanto alla sua scuola.

Miša. – fu il secondo nome che quel posto le suggerì.

Se lo immaginò in mezzo a un gruppo di commilitoni, mentre provava a farsi simpatico con qualche battutaccia maschia e le venne da ridere alla sua stessa fantasia. Ma subito dopo, un’ombra le velò i pensieri: Per quanto ancora potremo fingere di andare avanti? Fino a quando anche lui non verrà coinvolto? Fino a che punto la guerra illuderà di non arrivare mai, per poi investirci? Io, Miša, le ragazze, questa città…verremmo tutti spazzati via?

“Beh, quindi?” – fu Anya a riscuoterla dai suoi pensieri – “Pensi di dircelo, sì o no?”

“Cosa?”

“Come ‘cosa’? Perché sei sparita l’altra sera!”

Nat ruotò gli occhi al cielo: “Ragazze, ve l’ho già detto. Stavo male, mi è presa la febbre! Lo sapete che d’estate mi succede.”

“Nat.” – Irma arricciò un labbro e sollevò un sopracciglio, scettica – “Non ti sei proprio presentata al tuo compleanno. Senza avvertire.”

“E senza neanche Misha.” – rincarcò l’altra.

“Senza neanche lui. E tutto quello che hai da dirci è in un messaggino tre giorni dopo?” – continuò ancora Irma – “Avanti, forza. Che ci nascondete?”

“Ma niente!” – Nat si sentì improvvisamente messa al muro, stentando il più farsesco dei sorrisi di circostanza.

“Io una mezza idea ce l’ho.” – Anya impose le mani sui fianchi, il suo visino ingenuo dai grandi occhiali tondi era diventato tutt’a un tratto inquisitorio; non rideva per niente – “Sparite entrambi, niente spiegazioni, tu che torni a lezione giorni dopo…”

Nat scosse appena la testa, spaesata. Che avessero capito tutto?

“Che idea?” – chiese Irma, scambiandosi occhiate d’intesa con l’amica. Poi spalancò la bocca e la coprì con una mano, fingendo una sconcertante Epifania – “Ma certo! Ha proprio la tipica espressione colpevole.”

“Che? Cosa?!” – Nat aveva iniziato a sudare freddo già da un po’.

Le ragazze la guardarono con occhi di pietra per qualche lunghissimo istante e poi…

“Tesoro…è chiaro che avete scopato!”

Nat rimase un momento interdetta, mentre le sue celluline grigie cercavano di elaborare la cosa: “Eeeeh?!”

“Te lo si legge in faccia!”

“Anzi, direi ‘finalmente’, a questo punto.” – Anya si diede il cinque con Irma – “Com’è stato?”

“Ma…!” – Nat schiaffeggiò sulle spalle prima una e poi l’altra – “Ma siete due psicopatiche! Non è successo niente!”

“Certo, come no!” – e risero ancora.

“Ho detto di no. Se mai ci sarà qualcosa sarete le prime a saperlo, ma non è successo nulla.” – tagliò corto Nat, indecisa se cancellarle dalla lista delle amiche o mettersi a ridere – “E passami una sigaretta, che dopo questa ne ho bisogno anche io!”

Spirò un alito di vento, portandosi via le loro risate.

 

*   *   *

 

Superficie lunare. Mare Frigoris.

 

Lo shuttle di sorveglianza grigio scuro sorvolava silenzioso i grandi crateri e le piane polverose del Mare lunare, sondando la zona con le lunghe antenne inferiori. Una squadra di mezzi operativi lavorava con solerzia lungo l’argine di un cratere, dissestato da quello che doveva essere stato un impatto catastrofico di qualcosa di cui ora rimanevano solo rottami anneriti e sparsi ovunque come ossa.

“Eccolo lì.” – disse Zwei Stein, guardando oltre l’oblò a tenuta stagna – “Il cratere del Wichtig Wotan. Proprio sotto di noi giacciono i resti di un passato inglorioso.”

“Sarebbe quella la grande nave con cui il Terzo Reich abbandonò la Terra?” – chiese Helena, a braccia conserte.

“Esattamente.” – Katrina Winter, presente anch’essa e seduta dall’latro lato delle quattro poltrone, continuò – “Si dice che il giorno in cui cadde il compianto Adolf Hitler una parte dell’esercito fuggì sul Wotan, fondando le colonie lunari. Tuttavia, il piano era di spingersi molto più in là nel Sistema Solare.”

Herr Doktor riprese la parola: “Ci fu un uomo, un Meister che i Registri di Paracelso non avevano previsto, che preferì sacrificare sé stesso e la sua Machine per segregarci su questo pezzo di grigia pietra morta.”

“Esistevano Machine già all’epoca?” – chiese la ragazza.

“Non se ne sa molto, al riguardo.” – rispose la Winter – “Solo che Alberyck fece affondare il vascello del Reich e si sigillò per sempre negli abissi lunari. Proprio in quel punto…”

Passarono sopra il centro della scena: in mezzo a mucchi di enormi piastre di ferro una voragine oscura e profondissima penetrava nelle profondità della Luna, senza riuscire a vederne il fondo.

Poco distante, gli aerei spaziali di cantiere stavano faticosamente sollevando un’enorme mole: una sagoma appena definibile, che un tempo doveva essere stata umanoide ma che ora versava in uno stato di sfacelo e degrado rivoltante. Organi e ossa gigantesche cadevano dalle membra inerti coperte dai resti di un’armatura viola quasi totalmente distrutta. Una sWARd Machine decaduta.

 

“Ma quella…!” – esclamò Helena, appoggiando una mano al finestrino – “Non sarà per caso la Machine di cui stavamo parlando?!”

Nein.” – commentò seccamente il cyborg – “Quella non è Alberyck. Si tratta di una sWAn molto più antica, caduta sulla Luna millenni fa. Il crollo del Wotan ha schiacciato l’Atanor sepolto e questo è il risultato.”

“Ma allora…” – Helena sorrise appena; se così stavano le cose significava che quella che aveva sotto gli occhi era la Divinità Metallica che stavano cercando da tempo – “…Sigrun!”

“Proprio così.” – annuì Undine – “Quello è il trofeo che ti era stato promesso. Ma è troppo malridotta per poter essere utilizzata; dovrete lavorarci su parecchio.”

 

Malridotta? Che importanza aveva?  Era lì e quello bastava. Finalmente sarebbe giunto il suo momento, pensò Helena Heathfield. L’avrebbe riportata al suo antico splendore, trasformandola in un modello ibrido che perfino lei – una Meister mezzosangue, come la definiva Adler Jung – avrebbe potuto pilotare. E poi l’avrebbe usata per vincere. Ci sarebbe voluto del tempo, ma ci sarebbe riuscita. Lei era un genio, dopotutto.

 

“È perfetta, invece.” – sogghignò compiaciuta, e i suoi occhi magnetici si ancorarono al corpo esanime del robot – “Presto! Presto tu ed io faremo grandi cose, Sigrun!”

 

*   *   *

 

Mosca, Russia.

 

Il calore della mattina torrida iniziava a stemperare appena, riversando il sole dorato delle cinque sugli studenti che ancora si attardavano sulla scalinata della Plekhanov.

Nat stava ancora parlando con Irma e Anya – solo leggermente più rinfrancata, rispetto a qualche ora prima – quando quest’ultima si fermò di colpo.

“Oh-oh.” – fece, guardando oltre il vialetto – “Nat, hai un bel po’ di compagnia.”

Lei si voltò e trovò ad aspettarla due volti, uno noto e l’altro meno: erano Miša e un altro uomo in completo nero, che l’attendevano entrambi a una certa distanza l’uno dell’altro.

“Mi sa che ti lasciamo, eh.” – disse Irma.

“Meglio di sì.” – commentò Nat, prefigurandosi già tutto un programma poco allettante.

Appena gli sguardi si incrociarono, Miša le venne incontro a passi svelti.

“Nat! Ehi!” – si fermò vicino a lei, nel suo giaccone verde militare, sorridendole ampiamente – “Non avevo capito che eri già tornata a lezione, ho dovuto chiedere a tua madre. Tutto ok il rientro?”

“Più o meno.” – si sforzò di risultare cordiale.

“Meno male.” – le sopracciglia di Miša si inclinarono in un gesto di sollievo, per poi aggiungere sottovoce – “Non te lo avevo ancora detto, ma c’è mancato poco che non me la facessi sotto dalla paura, l’altra volta! Quel tuo robot era diventato una specie di animale! Come hai fatto a…?”

“Non ho molta voglia di parlarne.” – lo frenò, esausta.

Lui arrossì un po’, evidentemente imbarazzato: “La delicatezza non è il mio forte, eh? Però è stato davvero…insomma, è pazzesco! Mi devi ancora dire tutti i dettagli.

“Miša, davvero, adesso non sono proprio in vena.” – lei si sentì decisamente infastidita dalla leggerezza con cui il ragazzo trattava l’argomento – “E dovrei andare.”

Lui sembrava deluso da tanta freddezza: “E dove?”

E fatti gli affari tuoi!

“A casa.” – rispose con più diplomazia.

“E ci vai con quegli uomini?” – indicò con lo sguardo la macchina nera parcheggiata.

“Sì.” – adesso iniziava davvero ad averne abbastanza, di quel terzo grado.

“Non credo che sia una buona idea.” – lui scosse la testa – “Ti accompagno io, se vuoi.”

“Grazie, ma è tutto ok.” – fece per voltarsi.

“Insisto…” – lui la trattenne per un braccio.

Insomma, Miša!” – quell’urlo le scappò proprio fuori dalle labbra.

Lui si irrigidì, mollando la presa.

“Come ti pare.” – allargò le braccia, sconfitto, e se ne andò offeso.

 

Quando Nat salì sulla vettura, trovò suo padre sui sedili posteriori.

“Andato bene, il rientro a scuola?” – chiese senza vero interesse, quasi per pura forma.

“Alla grande.” – e lei rispose con ancor meno trasporto.

 

*   *   *

 

Quartier Generale del Corpo di Difesa Nazionale Russo (nuova sede permanente), ala ovest; Mosca.

 

Potenti fari si accesero sulle le pareti di freddo acciaio che costituivano la cella di standby della misteriosa Arma Umanoide nera, svelandone il corpo a bruschi tratti. Quando l’ultima coppia di luci si accese sulla testa del robot, Nataša ebbe un sobbalzo.

Da dove si trovava – lì, su di una piattaforma sospesa poco sotto lo sterno dell’Unità – quel miracolo di ingegneria biomeccanica le appariva perfino più impressionante: soltanto il cranio era almeno tre volte la statura di Nat e fu certa di aver visto sfumature d’un ametista che non era di questo mondo sotto il visore ottico. Era davvero enorme.

“Non la ricordavo tanto grande…” – mormorò insicura la ragazza, sollevando la testa per poterla osservare – “…sono davvero salita a bordo di una cosa simile?”

“Esatto.” – riecheggiò la secca voce della dottoressa Asimov, a pochi passi dietro di lei – “Sincronizzandoti con essa sei riuscita dove tutti hanno fallito, sconfiggendo perfino un’altra Machine.”

“Ci hai salvati, Nat.” – disse lentamente suo padre, accanto alla donna.

“Sì, però…non è stato tutto merito mio.”

Ripensare che, senza alcun motivo preciso o preavviso, quella specie di gigantesca bambola meccanica si fosse rialzata in piedi e avesse iniziato a colpire con ferocia il suo avversario la fece rabbrividire. E il pensiero che tutto questo fosse avvenuto non per sua volontà la turbò ancor di più.

“Non ha importanza di chi sia il merito.” – disse la scienziata – “Ciò che conta è che tu ne sia uscita vincitrice. I dettagli sono quasi irrilevanti.”

“Sarà anche come dice, ma io non capisco!” – Nat la squadrò con la coda dell’occhio, contrariata e spaventata – “Come può una macchina inerte agire di propria volontà? Cosa è successo, in quel momento?”

“Non lo sappiamo ancora con sicurezza.” – rispose, calcandosi gli occhiali con l’indice – “I dati raccolti non sono sufficienti per formulare una tesi certa, ma è probabile si sia trattato di un codice di emergenza innescatosi automaticamente.”

“Un codice?”

“Precisamente. Un meccanismo di difesa istintivo, come il rilascio di tossine da parte di una pianta.”

“Le piante sono esseri viventi.” – sottolineò infastidita la ragazza, come se si sentisse trattata peggio di una bambina – “Che istinto può esistere in un computer?”

“Il sistema operativo della sWAn è programmato per difendersi da minacce esterne. Per auto-preservarsi, in pratica.” – fu il signor Novikov a parlare, questa volta – “Inoltre, durante la Sincronizzazione, l’obiettivo primario dell’Unità diviene l’incolumità del pilota.”

Nat rimase ad ascoltarlo confusa e assorta. Evidentemente suo padre ne sapeva quanto la Asimov, se non di più. Continuò a parlare: “Nei momenti di stress, paura eccessiva e ansia il cervello produce una quantità superiore di cortisolo e adrenalina. È probabile che la Machine abbia riconosciuto in te uno stato d’eccitazione critico, facendo subentrare una sorta di…”

 

Nella mente del Presidente Edvard Novikov baluginò una parola, limpida come una scritta a caratteri bianchi su fondo nero: Risveglio.

 

“…pilota automatico.” – preferì scegliere come sinonimo.

“Quindi può muoversi anche senza di me!” – a Nat parve incredibile, oltre che ingiusto, che lei fosse costretta a salirvi a bordo, se era possibile farne a meno.

“No.” – la smentì la Asimov – “La presenza di un pilota al suo interno è fondamentale. Tuttavia, il sistema Doppelgänger conferisce alla Machine anche un’autonomia ristretta, per correggere le imprecisioni mentali.”

“Ma quello che è successo a me va molto oltre questo!” – Nat alzò la voce, convinta che quel giro di parole non rispondesse ai suoi interrogativi.

“Dev’essersi trattato di un calo d’efficienza del Limitatore di Oreikhalkos.” – la donna indicò il diadema incastonato sull’elmo della gigantessa – “Si tratta di un dispositivo inibitore ad algoritmi casuali. Se cessa di operare correttamente la percentuale di autonomia della Machine aumenta.”

“Non voglio salire su qualcosa che può fare come le pare. Non voglio che sia lei a prendere il controllo, come l’ultima volta!”

“Ma, nonostante ciò, ha permesso di vincere le battaglia e di farti sopravvivere.” – puntualizzò con più fermezza suo padre – “Ha assolto alla sua funzione.”

Nat fece per replicare ma si trattenne.

Dopotutto cosa si aspettava? Freya – o qualunque fosse il suo vero nome – era una macchina da guerra. Era scontato che fosse stata programmata per portare a termine ogni missione con meno danni possibili.

Rimase in silenzio.

“Ci rendiamo conto che questa faccenda della guerra non deve essere semplice da accettare, ma da parte nostra avrai tutto l’appoggio possibile.” – il solito vano tentativo di suo padre nell’addolcirle la pillola.

Semplice? ‘Impossibile’ sarebbe stato un eufemismo.

“L’ultima volta non avevate nemmeno delle armi.” – puntualizzò lei, scettica.

“Stiamo lavorando anche a questo.” – annuì Ekaterina – “La prossima volta che scenderai in campo potrai contare su tutto il necessario.”

La prossima volta. – quelle parole rimbombarono nei pensieri della giovane – Ancora un’altra volta. E un’altra ancora. Quante altre volte sarò costretta a provare quella paura, a sentire quel dolore? Fin quando riuscirò a rimanere illesa? Un giorno potrei rimanere ferita, quello dopo potrei rompermi un braccio…e poi…poi…

Il calore ruvido e saldo delle mani di suo padre le cinse le spalle, distogliendola dalle lacrime che erano sul posto di riaffiorare.

“Nat.” – le disse, fissandola diritta negli occhi; le labbra rigide e asciutte – “Tu sei mia figlia. E quella Macchina è l’unico esemplare di cui disponga il nostro Paese. Siete entrambe troppo importanti perché io vi getti in guerra in ogni occasione: scenderai in campo solo quando sarai l’ultima risorsa e in quel caso sta pur certa che farò in modo che non ti accada nulla. In cambio ti chiedo solo di avere un po’ di pietà per me e di non rendere tutto ancora più difficile. Vedrai, presto o tardi tutto finirà e potremmo tornare alla vita di prima. È una promessa.”

Lei lo fissò con i suoi grandi occhi azzurri, femminili ed innocenti, piena di amore e di paure. Quell’uomo era suo padre e il Presidente della Russia. Avrebbe dovuto fidarsi, ma in qualche modo non vi riusciva. Eppure, sentiva che doveva sforzarsi a farlo, perché l’idea di diffidare dall’unico uomo che le era davvero stato accanto dal primo vagito la uccideva e la faceva sentire una figlia disonorevole.

Il suo corpo nudo sospeso a mezz’aria, rune luminose incomprensibili che si agitavano attorno a lei, piume di cigno nere emerse dal nulla e rose scarlatte che fuoriuscivano come sangue da ferite aperte: c’erano così tante cose che ancora non capiva di quell’arma, così tante domande ancora prive di risposta…così tanti segreti che quell’armatura nera ancora nascondeva.

Una creazione dell’uomo poteva davvero somigliare a una tale mostruosità? Non poteva capire tutto ora, questo lo sapeva, la sua mente faticava già a concepire la situazione in cui si trovava.

Avrebbe atteso – sì – e un giorno, forse, avrebbe compreso.

“D’accordo.” – accondiscese infine, con un fil di voce – “Immagino di non avere poi molte altre scelte.”

“C’è sempre un’altra scelta…ma stavolta questa è quella giusta.”

Nat restò un momento ancora in silenzio, stringendosi nelle braccia: “Voglio solo che tutto torni come prima.”

“Un giorno sarà così.” – suo padre le prese le spalle – “E ti giuro che quel giorno tu sarai ancora viva.”

   
 
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