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Autore: asia_mia    02/08/2016    1 recensioni
Sullo sfondo di una New York ai giorni d'oggi, un amore, lo stesso da sempre, che non muta, non finisce, tiene legati Damon ed Elena in un rapporto viscerale, disperato, malsano a volte, ma mai, mai sbagliato.
Dal prologo:
«Dove sei?»
«No, non farlo…»
«Sono già in moto.»
«Non va bene Damon, non possiamo vivere così, io…»
«L’idea di vivere senza di te non è contemplata in questa vita, quindi, per favore, dimmi dove sei.»
Non le lascia spazio, è una corda che non si allunga, un fiato che si spezza ma non si spegne mai, una strada senza uscita, un legame che scorre dentro, nella pelle, nelle vene, fino alle viscere.
Dannazione, farebbe l’amore con lui in questo momento se potesse, anche in mezzo alla strada, anche incazzata com’è, non riesce a fermarsi, a fermarlo.
Perché lui torna sempre, se la va a riprendere dappertutto, in qualunque posto sbagliato, con qualsiasi stato d’animo, non può fare altro che piegarsi a lei.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Non esistono amori sbagliati.
Esistono amori difficili, amori improbabili, amori disperati, ma non sbagliati.
 
(B. Goti)
 
 
 
 
C’è una leggenda a New York.
Si narra che quando una persona è infelice, per qualunque motivo, possa ritrovare la serenità attraversando il ponte di Brooklyn, ma debba farlo da sola, di notte e camminando da Brooklyn a Manhattan. Mai il percorso contrario, perché si perderebbe la bellezza, lo stupore, le luci dei grattaceli che si accendono, il tramonto che ti entra negli occhi,il profilo della città che emerge contrastato come in una delle migliori fotografie d’autore.
E mai farlo con scarpe scomode, procedere per due chilometri con tacchi vertiginosi non è di certo l’ideale e se si arriva a metà e si vuole tornare indietro, non c’è possibilità di prendere un autobus o chiedere un passaggio, bisogna procedere in avanti e percorrerlo tutto, fino alla fine.
Lo sapeva lei, eppure non aveva avuto tempo di cambiarsi, infilarsi le sue amate e ormai rovinatissime converse e scappare via.
L’aveva fatto di corsa, per non ripensarci e giustificare ancora, per questo ora procedeva a piedi nudi, con quelle scarpe di un’altezza vertiginosa in mano, riparandosi come meglio poteva dalle folate di vento di fine estate, dentro quell’elegante vestito nero a bretelline lungo fino le caviglie.
Scalza, sola, infreddolita, in una città che non era la sua, con un cuore che non le apparteneva più.
New York non perdona.
New York ti piomba addosso con una forza unica, un uragano da cui non puoi salvarti, né vuoi.
E se non sei pronto o sei uno sprovveduto, bè allora, New York non fa per te.
 

«Signorina Gilbert! Signorina Elena Gilbert ha dimenticato il passaporto!»
 
Eccola lì che trascina con una mano una valigia enorme, appena ritirata dal tapis roulant, dopo un’attesa di quaranta minuti prima dello sbarco dei bagagli provenienti da Atlanta, e con l’altra mano sorregge un trolley, decisamente più piccolo, ma oltremodo pesante, sulla spalla sinistra la sua borsa personale e un borsone con gli attrezzi del lavoro, dentro il quale non ha trovato spazio quella macchina fotografica che si porta sempre dietro e ha dovuto appendere al collo.
Si blocca così, carica di bagagli, quando un agente della sicurezza e del controllo passeggieri la chiama, rincorrendola per non farle varcare la soia d’uscita dell’aeroporto. Non riesce nemmeno a voltarsi per ringraziarlo, tanto il rischio di rompere quel flebile equilibrio di pesi raggiunto.
 
«E’ sicura di non aver bisogno di aiuto? O di un carrello?»
 
Glielo chiede gentilmente, mentre le porge il passaporto dimenticato e nota l’incertezza con cui quella ragazza alza una mano per afferrarlo e mantenere in equilibrio la borsa sulla spalla.
 
«No, la ringrazio, mi sono venuti a prendere, devo solo uscire sana e salva da qui dentro.»
 
Se lo mette tra i denti quel documento, mentre cerca di aprire la lampo della borsa ed infilarcelo.
L’agente la osserva sorridendo, pensa sia una strana ma divertente ragazza, carica di sogni e buoni propositi, ma impreparata a sorreggerli.
Ne vede milioni lui di persone come lei, anzi a dir la verità riesce ormai a riconoscere i tratti di chiunque gli passi sotto gli occhi. Basta un’occhiata per tracciarne il profilo, per distinguerlo da un newyorkese doc, un turista, uno di passaggio, per sapere se amerà o odierà New York, se riuscirà a cavarsela o soccomberà.
Le persone che arrivano per la prima volta lì le riconosce subito, hanno lo sguardo perso e il naso all’insù, è così che se ne vanno in giro per l’aeroporto e per la città, è così che si cammina a New York, dimenticandosi la terra sotto i piedi e assaporando l’imponenza.
Gli abitanti del luogo, invece, ci sono fin troppo immersi in quella grandezza, sembrano non farci più nemmeno caso, ce l’anno dentro ormai, camminano veloci, con gli occhi dritti e decisi, un vestito per l’ufficio di un paio di taglie più grande, le scarpe da ginnastica e le cuffiette nelle orecchie.
Quella ragazza invece…
E’ una ragazza stramba, una combinazione che non gli torna, sprovveduta è sprovveduta, si guardava intorno prima di attraversare il metal detector incerta sulle uscite, sbadata, con troppi bagagli per essere una turista, ma sicura, determinata, come volesse mangiarsela quell’enorme città, come fosse la sua scelta definitiva.
L’ultima possibile.
La osserva ancora mentre lei gli rivolge un sorriso gentile ma frettoloso.
E’ impaziente, ha negli occhi la smania di chi sa di star facendo un passo più grande delle proprie possibilità, eppure lo fa lo stesso.
Vuole assicurarsene, quel controllore dai capelli bianchi e gli anni addosso che iniziano a pesare, un po’ per curiosità un po’ per testare il suo infallibile intuito, che il bagliore negli occhi di quella ragazza sia puro e non ci siano incertezze.
New York può tagliarti le gambe se non hai quella forza dentro di grattare la vita fino in fondo, di prenderti ciò che vuoi, può escluderti e farti sentire solo al mondo anche in mezzo ad una folla sconfinata che non ti fa neanche respirare, e gli occhi di quella ragazzina sono troppo buoni per tutto questo.
 
«E’ in visita a New York?»
 
Elena torna a fissare quell’uomo, indaffarata e sovraccarica com’è, non capendo dove voglia arrivare o cosa voglia ancora da lei, è una semplice domanda, la sua, eppure la colpisce andando a sfiorare un punto ancora fresco e non ancora ben definito, ma sorride.
Piega la testa da un lato, lasciando che le sue labbra si schiudano in un sospiro elettrizzato ma pulito ed ingenuo.
 
«Sono qui per lavoro. E sto raggiungendo il mio fidanzato, spero proprio di restarci a New York.»
 

Percepisce la vibrazione del suo telefono nella borsa e sa già chi sia a chiamarla.
Lo sente dentro, prevede ogni sua mossa ormai, lo conosce e sapeva l’avrebbe fatto.
Ha troppa paura di perderla davvero, di perdere la sicurezza che le dà.
E’ troppo presuntuoso per ammetterlo e troppo egoista per pensare alle conseguenze delle sue azioni.
Eppure la ama, in un modo profondamente contorto, possessivo, intenso, istintivo.
E lei lo sa, sa anche quanto sia malato ed imperfetto tutto questo, dovrebbe allontanarsi definitivamente da lui, cancellare il suo numero, prendere tutte le sue cose nell’appartamento in cui vive con lui e andarsene il più lontano possibile. Vorrebbe farlo, vorrebbe lo facesse lui, in modo da liberarla, da non sentirsi in colpa o sbagliata o vigliacca, sarebbe la soluzione più giusta, per tutti e due. Sa che non dovrebbe infilare la mano nella borsa alla ricerca di quel dannato telefono, sa che è sbagliato ma il suo corpo e il suo cuore non fanno più parte di lei da quando lui li possiede completamente, se lo ripete di non farlo anche mentre si porta il telefono vicino l’orecchio e lascia scorrere il dito sullo schermo.
Lui lo capisce dal modo in cui si interrompono bruscamente gli squilli a vuoto e gli arrivano i rumori della strada, che lei ha ceduto, ancora una volta, l’ennesima.
 
«Dove sei?»
«No, non farlo…»
«Sono già in moto
«Non va bene Damon, non possiamo vivere così, io…»
«L’idea di vivere senza di te non è contemplata in questa vita, quindi, per favore, dimmi dove sei.»
 
Non le lascia spazio, è una corda che non si allunga, un fiato che si spezza ma non si spegne mai, una strada senza uscita, un legame che scorre dentro, nella pelle, nelle vene, fino alle viscere.
Dannazione, farebbe l’amore con lui in questo momento se potesse, anche in mezzo alla strada, anche incazzata com’è, non riesce a fermarsi, a fermarlo.
Perché lui torna sempre, se la va a riprendere dappertutto, in qualunque posto sbagliato, con qualsiasi stato d’animo, non può fare altro che piegarsi a lei.
 
«Lo sai.»
 
Lo sai dove sono, vorrebbe dirgli, è sempre lo stesso posto quello dove vieni a riprendermi, a pretendermi, ad implorare un perdono senza senso, come potessi mai toglierti da dosso sul serio.
 
«Sono già lì.»
 
Lo sa pure lui dov’è la sua Elena, prevede ogni sua mossa, sa esattamente cosa pensa e cosa non farebbe mai, tipo andarsene davvero da lui.
Ed Elena sente solo la linea telefonica che si interrompe e, prima di potersi rendere conto di come si sia arresa di nuovo, di quanto potere abbiano l’uno sull’altra, di quanto sia deleterio ma tremendamente indissolubile quello che c’è tra loro, lo sente.
Appena varca la fine del ponte e mette piede tra i confini di Manhattan, sente il rombo di quel motore ormai così familiare a lei, non si volta nemmeno, lascia cadere le scarpe a terra con un tonfo sordo, indifferente.
Damon l’aveva riconosciuta a metri di distanza, l’aveva seguita nell’ultimo tratto, spiandola dalla propria carreggiata, aveva aspettato fosse pronta, ad arrivare dall’altra parte, a farsi prendere.
Ferma la moto, molla il casco sulla strada e non le lascia tempo di dire niente, di bloccarlo, indietreggiare, correre via, piangere, urlare, sbattergli i pugni addosso, le va incontro, la afferra per un braccio fino a farla voltare e la bacia.
Con una forza, un possesso, una disperazione tale da toglierle il respiro e lei piange, sfinita, e lo bacia, con le lacrime che le riempiono gli occhi, la bocca e le guance e scivolano sulle mani di lui, strette a tenerle il volto, poi si stacca per riprendere fiato e lo guarda immobile con gli occhi gonfi, rossi, annebbiati come a digli, tu, tu mi hai ridotto così.










*******

Forse è il caldo o l'irrequietezza... e so che ho un'altra storia da portare avanti, ma.
Questo è quanto è uscito fuori in questo periodo.
Provvisorio, titolo, storia a capitoli... per ora volevo solo lasciare andare questo.
Grazie e intanto buone vacanze a tutte voi.

Ale_
  
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