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Autore: simocarre83    03/08/2016    3 recensioni
Può una telefonata cambiare la vita di una persona? Dipende dalla telefonata. Il problema è che spesso non sappiamo quale sarà quella telefonata. Potessimo saperlo, la registreremmo per ricordarcela, o non risponderemmo neanche. Ma non lo sappiamo. E quando ce ne accorgiamo è troppo tardi e possiamo solo sperare che la vita cambi. In meglio.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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3 – PENSIERI E PAROLE

Per me, ogni anno, il viaggio per Policoro, iniziava in un preciso istante: una volta entrato nella Stazione Centrale di Milano. Non appena sentivo, per la prima volta, la voce dell’annunciatore elettronico della stazione, quello che annunciava i treni in arrivo e in partenza, ero in vacanza.

Quella voce mi piaceva troppo. Soprattutto per ciò che quella voce rappresentava. Partenze e arrivi altrui, partenze proprie, incontri, gente che va, gente che viene, io che partivo. Per Policoro. Ecco perché quella voce mi piaceva, perché era l’ultima cosa che mi separava dal treno per Policoro. Dal mio pensiero felice.

Anche quella sera fu così. Avevo prenotato un posto sul treno delle 23. Era tutto pronto per passare le successive dodici ore e mezzo di viaggio. Alle 11:39, speravo, il treno mi avrebbe mollato a Policoro, per continuare la sua lenta ed estenuante corsa fino a Crotone. Un viaggio indimenticabile.

Vi è mai capitato di guardare un film o un documentario che parla dell’India, in cui si vedono quei treni dove le persone si mettono anche sui tetti o fanno viaggi di centinaia di chilometri semplicemente aggrappati al treno con il corpo quasi completamente fuori da quest’ultimo? Ecco, se solo vi fosse successo qualche volta di prendere il famoso Espresso “Freccia del Levante”, che collega ogni notte Milano con Crotone, avreste potuto stentare a riconoscere le differenze. Addirittura avreste potuto riscontrare qualche similitudine nel colore della pelle dei viaggiatori. In quel periodo dell’anno, poi, era semplicemente un delirio riuscire anche solo ad attraversare una carrozza. Ecco perché, ogni volta che scendevo, mi dovevo preparare mentalmente ed emotivamente, fare esercizi di respirazione, soprattutto cercare di escludere, o almeno attutire, il senso dell’olfatto. O, più semplicemente, mi procuravo un raffreddore, almeno per avere il naso tappato e non essere costretto a respirare quell’odore, che, forzatamente dopo otto, nove ore di viaggio, più o meno quando mi risvegliavo, dalle parti di Foggia, era diventato parecchio pesante.

In parte anche per causa mia, devo ammetterlo, ma cosa volete farci, dopo tutto quel tempo passato in uno scompartimento nel quale, se tutto andava bene, c’erano 6 persone, senza aria condizionata e, se andava male, pure con il finestrino rotto, fate il conto che iniziavo a sudare dopo sei minuti scarsi che ero salito sul treno e le temperature raggiungevano i quaranta gradi tranquillamente. Insomma, avrei voluto vedere voi.

Così, quella sera, sceso dall’auto alla stazione centrale, sapevo di avere davanti a me dodici ore e mezzo di “carro bestiame”. Sapevo che non sarebbe stata semplice.

Fortunatamente, l’aria condizionata funzionava, e i bagni non erano intasati. Almeno per le condizioni igieniche fu quasi una passeggiata.

Per la compagnia, come al solito variegata, non mi potevo neanche lamentare. Da Milano a Rimini, c’erano nel mio stesso scompartimento altre cinque persone: due anziane, marito e moglie, il primo che russava e la seconda che recitava il rosario; e c’era una mamma con i due figli, una ragazzina di dodici anni che più o meno in corrispondenza della partenza del treno si era messa ad ascoltare musica a palla, nelle cuffiette che potevano tranquillamente non esistere, e un bambino di quattro che definirlo una peste era fargli un complimento. A Rimini, la madre con i due figli scese e salirono due ragazze e un ragazzo, tutti sulla ventina che arrivavano fino a Sibari. E la situazione si tranquillizzò un pochettino. Verso Ancona mi accorsi che il sonno stava prendendo il sopravvento, e mi concessi un trecento chilometri di riposo. Alle otto precise, non appena partiti da Foggia, mi risvegliai.

Solo allora mi accorsi che i due vecchietti ci avevano lasciati. Nel senso che erano scesi a Foggia. Eravamo rimasti in quattro. E con una buona probabilità saremmo rimasti così fino alla mia meta.

Intanto il paesaggio, fuori, era completamente cambiato.

La sconfinata pianura Padana, aveva lasciato il posto ad una collina che lentamente digradava verso il mare. Azzurro. Come il cielo. Anzi, se possibile, nelle giornate veramente serene e con l’aria secca, un mare che era addirittura meno azzurro del cielo. Poco prima di lasciare il mare per “colpa” del promontorio garganico, poi, quell’ambiente cambiava nuovamente: di nuovo pianura, con solo gli appennini in lontananza, ma senza il mare. Però il cielo, quello, rimaneva sempre uguale e costituiva la differenza maggiore che caratterizzava le due pianure. Ricordo che solo nel sud della penisola ho avuto più di un’occasione di osservare un cielo che potesse definirsi inequivocabilmente “celeste”. A Milano è impossibile. In altri posti pure, ma solo l’Italia costiera può considerarsi a tutti gli effetti “con un cielo privato”, come cantava una canzone del primo decennio del Duemila.

Lentamente ci avvicinammo a Bari. Poi Gioia del Colle e Taranto. E lì il vero cambiamento. Dopo l’estenuante attesa di quei minuti, tempo che cambiassero la motrice, sostituendo quella elettrica con ancora una a gasolio, il treno ripartì. A quel punto la puzza delle raffinerie poste tra la ferrovia ed il porto lasciò il posto al profumo dei pini mediterranei e degli eucalipti che costeggiavano la ferrovia. La carrozza dove ero, di prima classe, non permetteva di abbassare i finestrini. Però quegli odori me li immaginavo tutti.

A quel punto, e definitivamente almeno per me, il paesaggio cambiava nuovamente. Sempre pianura, ma a poche decine di metri dal mare. In certi punti, il terreno scendeva improvvisamente per lasciare il posto all’uscita di un sottopassaggio pedonale che portava, attraversando la ferrovia, direttamente i bagnanti in spiaggia. Ed oramai, trattandosi delle 11 passate, di “traffico” ce n’era parecchio. Mi veniva quasi voglia di tirare il freno di emergenza e buttarmici, in quella distesa fresca e maestosa. Sapevo comunque che sarebbe certamente accaduto il giorno seguente, e nel posto per me migliore. Quindi si trattava solo di avere un po’ di pazienza.

Il treno si allontanò per l’ultima volta dalla costa poco prima di arrivare nella stazione di Metaponto. La prossima volta che avrebbe rivisto il mare, quel treno, avrebbe già avuto un passeggero in meno in quello scompartimento. Sarebbe accaduto solo dopo Nova Siri, una volta entrati nell’ultima regione delle otto attraversate, la Calabria. Il passeggero in meno ero io. E non potevo che esserne estremamente felice.

Finalmente il treno, pochi minuti dopo essere partito da Metaponto, incominciò nuovamente a rallentare. Io presi lo zaino e la valigia, salutai i tre miei ultimi compagni di viaggio e mi appressai alla porta della carrozza.

Finalmente la vista di quella costruzione che si ergeva, imponente, sulla strada statale posta ad una ventina di metri più in basso, il castello baronale, mi diede la conferma del fatto che ero arrivato. Prima il passaggio a livello della strada che portava al Lido “Torremozza” uno dei 3 lidi di Policoro, poi una frenata un po’ più decisa, mi fecero capire che ero arrivato all’ultimo chilometro. Lentamente il treno rallentò, per poi fermarsi.

Inspirai profondamente quell’aria viziata del treno, pochi secondi prima che le porte si aprissero. Scesi praticamente in apnea. Lentamente buttai fuori l’aria. Ero perfettamente cosciente che il prossimo passo, quello della nuova inspirazione, sarebbe stato il suggello della fine del viaggio. Attesi di non poterne più con trepidazione, ansia e piacere estremo. Finché non sentii i polmoni bruciarmi. Poi gli permisi di fare nuovamente il loro lavoro.

Aria nuova entrava nelle mie narici e nella gola. Un’aria che, lo sapevo, mi avrebbe fatto rinascere. In quel preciso istante, qualunque malattia mi avesse colpito, solo poche ore prima, alle vie respiratorie, con quel respiro sarebbe miracolosamente scomparsa. L’aria di mare, l’aria salmastra, il profumo pungente dei pini, e quello delicato e balsamico degli eucalipti, avrebbe raggiunto quell’obiettivo con il minimo sforzo da parte mia. E si sarebbe risvegliato il Simone assopito da 10 mesi di scuola e Milano.

Almeno, questo era quello che riuscivo ad immaginare. Peccato che a volte la realtà diverge malauguratamente dall’immaginazione. E infatti mi bastarono pochi processi logici per giungere alla conclusione che avevo fatto due errori.

Il primo era illudermi di respirare l’aria di Policoro a neanche venti metri da una motrice ferroviaria a gasolio che da sola inquinava più o meno come tutte le automobili di Policoro. La puzza era tremenda, i polmoni ormai intasati e dovetti aspettare almeno una decina di minuti buoni per levarmi dalla bocca l’aroma pesante del fumo di scarico del motore diesel della locomotiva.

Il secondo era che avevo chiesto ai miei nonni di non venire a prendermi e non mandare nessuno. Volevo, gli dissi, guadagnarmelo da solo l’arrivo a Policoro, giusto quell’anno che per primo mi aveva visto arrivarci da solo, senza i miei nonni, partiti la settimana prima per la stessa meta. Capii immediatamente che si era trattato di un tragico errore.

Perché è vero che a Milano, con l’afa e tutto quell’inquinamento, trenta gradi giornalieri vengono avvertiti dal nostro corpo quasi come quaranta. Però quando arrivi a Policoro, e tra capo e collo, scendi da una carrozza condizionata a 23 gradi fissi, e ti ritrovi, di botto, a 42°C, qualcosa succede…

…E quando, come accadde in quel preciso istante, ti accorgi che l’unico pullman che ti può portare in un minuto a casa tua è appena ripartito dalla fermata vicina alla stazione, e quindi capisci che te la devi fare veramente a piedi fino a casa…

…Tanto più che l’ultima traccia di vita, il cellulare l’ha data circa due ore prima, quando hai deciso, altruisticamente e amorevolmente, di dare il buongiorno alla persona che ami più di tutte per poi darle l’impressione di averle chiuso il telefono in faccia quando si è spento, lui e la batteria, proprio nel bel mezzo di un complimento romantico. E quindi non puoi neanche avvisare i nonni di mandare qualcuno a prenderti…

…Se poi consideri che il treno aveva già fatto una buona mezz’ora di ritardo, e, seppur famelico sedicenne, non hai mangiato dalle otto della sera prima, perché in un treno del genere mangiare sarebbe stato passibile di una condanna sicura a morte per infezione…

Volendo usare un eufemismo simpatico, iniziai a parlare da solo, e per fortuna, perché non so quanto altri avrebbero apprezzato le mie parole simpaticamente rivolte al macchinista, alla locomotiva, al pullman, alla batteria, al cellulare ed al Sole.

Decisi di darmi da fare e capii che l’arrivo a Policoro, quell’anno, avrei dovuto sudarmelo nel vero e proprio senso della parola. Dopo circa dieci minuti, uscii dal sottopassaggio che passava sotto la strada statale che costeggia Policoro, ed entrai in città. La maglietta sarebbe stata più bagnata solo uscita dalla lavatrice e, per quanto stavo sudando in quel momento, sembrava proprio che la sua sorte fosse stata decisa inequivocabilmente. Per fortuna, una volta entrato in paese, l’ombra delle prime case mi rinfrancò un attimo.

Passai vicino al caseificio dove venivamo mandati giornalmente da mia nonna, io o mio nonno, a comprare le mozzarelle, poche ma sempre fresche.

Passai vicino ai giardinetti che dividevano la parte più vecchia della città, dalla parte meno vecchia della città. Ma d’altra parte sarebbe stato storicamente e politicamente scorretto parlare di una parte “nuova”.

Vidi l’insegna del panificio dove avrei sicuramente fatto incetta di focacce, calzoni e panzerotti. E poi finalmente le quattro strade senza uscita per le auto, via Bari, via Duni, dove pensai a Francesco ed Emanuele, che abitavano lì. E via Lomonaco. Dove abitava Giuseppe. Alzando un po’ il collo potevo addirittura scorgere un po’ delle inferriate marroni delle finestre del bagno e della camera da letto di casa mia, che davano su quella stessa via.

Pochi metri ancora e poi sarei arrivato alle scale che conducevano alla quarta via, la via dove abitavo io, via Berlingieri, dal nome della famiglia di baroni che aveva avuto in possesso quelle terre sin dal tardo Medioevo e fino al Risorgimento.

Feci appena in tempo ad accorgermi di un movimento sospetto dietro di me, che una mano si appoggiò sulla mia spalla.

“Solo una persona sapeva che stavo arrivando!” dissi, voltandomi.

“Bravo! Hai capito subito che ero io, vero?” disse.

“Ciao Giuseppe!” risposi sorridendo, preoccupato però del suo stato d’animo.

“Non ti abbraccio, visto come sei conciato!” disse ridendo, indicando le chiazze bagnate sulla mia maglietta.

“Grazie dell’accoglienza! Comunque lo so anche io che ho bisogno di una doccia! Ma tu sei arrivato prima che io arrivassi a casa!” risposi.

“Vai pure! È meglio, per tutti e due!” rispose, continuando a prendermi in giro, Giuseppe.

Se non altro, quella conversazione mi fece capire che Giuseppe era ritornato amichevole e scherzoso come sempre. E comunque di buon’umore. Era la cosa che mi interessava di più.

Feci per voltarmi, quando Giuseppe richiamò ancora la mia attenzione.

“Prima che vada devo chiederti una cosa!” disse ancora Giuseppe.

“Dimmi tutto!”

“No! Meglio che te lo dica dopo, volevo solo chiederti se mi vieni a trovare dopo esserti riposato. Non preoccuparti dell’orario” E questa volta era serio. Io non potevo fare altro che rispondere come potevo, dovevo e volevo fare. Come volevo fare da almeno 40 ore.

“Va bene! Ma è qualcosa che ha a che fare con la mia chiamata e il tuo sms dell’altra sera?”

“Si!” mi rispose. Si voltò e se ne andò.

Soddisfatto il bisogno di una conferma, mi ricordai immediatamente degli altri bisogni primari che dovevo soddisfare: lavarmi, mangiare e dormire, almeno per iniziare correttamente quella vacanza. In meno di dieci secondi arrivai a casa, dove i miei nonni mi attendevano ansiosamente. Prima ancora di entrare in doccia ci pensarono loro a farmi lo shampoo per non aver caricato abbastanza il cellulare prima della partenza.

È vero che il cellulare l’avevo lasciato sotto carica dalla sera prima e per tutto il giorno seguente, ma parlare con Maria era comunque stato sufficiente per scaricarlo. Certo era, però, che non avrei mai, per nessun motivo al mondo, rivelato il vero motivo per cui avevo il cellulare scarico. Come non l’avrebbe mai fatto ogni normalissimo quindicenne o sedicenne nella mia stessa situazione.

Mi gustai per qualche minuto il fresco di quella casa, poi, nell’ordine, mi concessi la necessaria doccia, le attese mozzarelle di contorno del pranzo, ed il meritato riposo.

Verso le due, finito di mangiare, mi sdraiai sul letto. Quei due minuti che mi parve di aspettare insonne, si rivelarono gli unici due minuti insonni delle tre ore seguenti, nei quali ero rimasto effettivamente sveglio. A conferma di ciò, la volta successiva che guardai l’orologio posizionato sul comò, vidi che erano da pochi minuti passate le diciassette.

Passati quei due o tre secondi necessari al completo ripristino dell’attività cerebrale, capii che potevo fare solo una cosa. Immediatamente feci lo squillo a Giuseppe, per fargli capire che ero sveglio e pronto per parlare. Mi rispose con un sms, nel quale mi diceva che era a casa, quindi che potevo andare, e mi chiedeva di passare da sotto, cioè non dalla strada, ma dallo scivolo pedonale. Compresi immediatamente che quell’incontro doveva rimanere segreto, e non dovevano venire a conoscenza di quell’incontro persino Francesco e Emanuele, che infatti avrebbero potuto vedermi se fossi arrivato da Giuseppe seguendo la strada e quindi essendo costretto a passare sotto il balcone di casa loro.

Avvisai i miei nonni e uscii. Fuori il sole era caldo, forse un pochino meno della tarda mattinata, quando ero arrivato a casa. Solo che si era alzato un vento, proveniente dall’entroterra, secco e bollente. In giro, a quell’ora, solo qualche macchina incominciava a circolare. Forse qualche turista intraprendente che voleva andare al mare, a rischio della propria vita, o quantomeno della salute.

Neanche quindici secondi dopo essere uscito, mi presentai a casa di Giuseppe. Era solo in casa, il padre era già tornato in officina dopo la pausa per il pranzo e la madre con la sorella erano andate a trovare una parente dall’altra parte di Policoro.

“Ciao! Come va?” mi disse quasi indifferente Giuseppe.

“Bene! Sicuramente meglio di come stavo quando ci siamo visti l’ultima volta!” risposi sorridendo.

Anche Giuseppe mi rispose con un sorriso. Solo che, a differenza di quella stessa mattina, quel sorriso non mi convinceva per niente. Si vedeva che era nervoso. Ci sedemmo in cucina. Giuseppe mi offrì un tè freddo, che accettai più che volentieri. Poi, cosciente del fatto che era decisamente arrivato il momento per scoprire qualcosa di più su quello che stava accadendo, decisi di rompere gli indugi.

“Allora che cosa è successo? Intendo con Michele e gli altri?!” dissi.

“Chi ti ha detto che c’entravano loro?!” chiese.

“Nessuno, a parte te. Chi vuoi che abbia sentito in questi ultimi due giorni?! E poi ti sei comportato con me nello stesso modo solo un’altra volta. E c’entrava Amaraldo. Per quale motivo non dovrebbe centrare anche questa volta?” risposi, prendendo questa volta seriamente in mano la situazione.

Giuseppe, dapprima senza parole, rimase qualche secondo a guardarmi.

“Va bene! Hai ragione. È che quando sento anche solo parlare di loro quattro mi viene il nervoso” disse. Aveva abbassato lo sguardo. Mi sembrò quasi che si stesse vergognando per quello che gli stava succedendo. “È’ successa una cosa che ci ha fatto un po’ preoccupare a tutti e tre, io, Francesco ed Emanuele”.

Allora era vero. Il problema erano ancora Michele e gli altri tre. E questo poteva significare solo una cosa. Guai. Come tutte le volte che di mezzo c’erano quei quattro. Giuseppe mi porse un foglio aggiungendo che “ne è arrivata una copia anche a Emanuele e Francesco. Subito dopo ci siamo visti e abbiamo deciso di andarci”. Il foglio conteneva un invito a recarsi ad un particolare indirizzo il giorno seguente. Era firmato da tutti e quattro i nostri “nemici”. La data dell’appuntamento erano 3 giorni prima della famosa telefonata.

“Ci siamo andati” continuò Giuseppe “e poco dopo arrivarono anche loro quattro. Ci dissero che da quel momento noi tre abitavamo nel loro territorio ed avremmo dovuto ubbidire a qualunque cosa ci avessero chiesto di fare. Senza discutere. E la prima cosa che ci chiedevano era di non avere più alcun rapporto con te”.

“E per questo che mi hai risposto in quel modo l’altra sera?” gli chiesi, quasi mettendomi a ridere.

“No! È che ero così nervoso che ho reagito così. Infatti vedi che appena è stato possibile, te ne ho parlato?” disse.

“Ma voi non gli avete fatto niente?” chiesi ancora.

“No! Eravamo in inferiorità numerica e sinceramente ci hanno proprio preso alla sprovvista!”

“Ma non avete neanche detto niente?” incalzai.

“Neanche! Che gli dovevamo dire?” rispose Giuseppe “a parte che loro hanno finito e se ne sono andati senza neanche lasciarci ribattere”.

“Che cosa avete deciso di fare?”

“Ancora niente. Adesso che ci sei tu siamo sicuri che non ci succederà nulla di male. Ma quando tu te ne andrai? A settembre rimarremo di nuovo soli!” disse Giuseppe. E a quel punto compresi il perché di tutta la preoccupazione del mio amico.

Finché rimanevamo in  parità numerica, eravamo sicuri di poter combattere, almeno, ad armi pari. Ma a settembre, quando sarebbero ritornati in tre, che cosa avrebbero fatto? Di certo Michele e gli altri gliel’avrebbero fatta pagare anche per quello che avrei potuto fare io nel corso dell’estate. Era, evidentemente, una situazione delicata.

“Allora… visto che non ci siamo ufficialmente ancora visti” dissi “stasera, quando voi starete fuori come al solito a chiacchierare, Michele e company arriveranno sicuramente a darvi fastidio. A quel punto interverrò anche io cercando di risolvere immediatamente la situazione con le buone, ma al tempo stesso ripristinando la parità numerica, casomai le cose dovessero precipitare. Sono sicuro che non hanno le spalle coperte. E non sono abbastanza duri da continuare questa storia se vedono che noi ci opponiamo con il giusto carattere. Ecco perché avrei preferito che aveste detto qualcosa”.

“Speriamo che tu abbia ragione. Allora ci vediamo stasera?” chiese Giuseppe.

Bevvi le ultime due gocce di tè e me ne andai. Effettivamente mi accorsi di come e quanto Giuseppe fosse preoccupato per quello che stava accadendo. Si vedeva come mal sopportava quella situazione che erano stati costretti a subire, ma aveva abbastanza paura per agire con le maniere forti. Almeno adesso che c’ero anche io forse poteva esserci qualche speranza in più di risolvere le cose, pacificamente o meno. La cosa che, comunque, mi preoccupava più di tutte era che Giuseppe era ancora piccolo, troppo piccolo, per capire quando era il caso di fermarsi e non andare avanti e quando era necessario procedere oltre con le parole e con le azioni. Capii che, nel momento in cui sarei dovuto intervenire, quella sera stessa, la scelta dei tempi sarebbe stata fondamentale. Perché il rischio era che Giuseppe avrebbe potuto tirare troppo la corda, e le cose si sarebbero complicate velocemente. Mentre, perché il mio piano potesse riuscire, avrebbero dovuto correre quasi il rischio di prenderle prima che potessi intervenire in loro aiuto. Rientrai a casa e rimasi con i miei nonni a chiacchierare per quelle successive due ore. Poi, verso le sette e mezza di sera, come al solito, sentii la voce di Francesco che chiamava Giuseppe. Andai in bagno e da lì, dietro l’inferriata ben chiusa della finestra, al di fuori della consapevolezza della mia presenza da parte dei miei amici, mi misi ad ascoltare quello che accadde.

Francesco, Emanuele e Giuseppe si salutarono. Incominciarono a parlare del più e del meno. Poi, da dietro l’angolo della via, sbucarono Michele, Amaraldo, Dorian e Salvatore.

Quelli lì non avevano avuto neanche il coraggio di muoversi in parità numerica. E questo non era buono. Significava che avevano già sospettato qualcosa, o così volevano farci credere, e che quella sera sarebbe finita alle mani. Dalle scuri della finestra vidi chiaramente Giuseppe che si voltava verso lo scivolo pedonale. Ancora non era il momento, però, per giungere in loro aiuto. Volevo, dovevo vedere dove avevano intenzione di arrivare i nostri nemici.

“Abbiamo saputo” esordì Amaraldo, “che il vostro amichetto è qui!”

Giuseppe si voltò di nuovo, questa volta verso la finestra del mio bagno. Per un attimo mi spaventai. Sembrava quasi che Giuseppe sapesse che mi trovavo lì, proprio dietro quella finestra. Cosa impossibile, pensai. Nessuno sapeva del mio segreto. Nessuno mi poteva vedere da quella posizione. Nessuno sapeva che l’avevo fatto altre volte.

Non perché volessi spiare i miei amici.

A quindici anni la timidezza mi spingeva ancora a non avere neanche la faccia tosta di presentarmi qualche volta a casa loro per chiamarli giù a giocare. Il risultato era che mi posizionavo vicino alla finestra del bagno o della camera da letto e quando vedevo o sentivo che erano usciti mi fiondavo anch’io a raggiungerli. Così qualche volta si erano stupiti del mio tempismo ma non erano mai arrivati a conoscere la verità. Almeno, così pensavo che stessero le cose.

“Spero per voi che non siate stati così idioti da parlargli!” continuò Salvatore, sbattendo il pugno destro con il suo palmo sinistro, con tono di sfida.

Giuseppe si rivolse nuovamente verso lo scivolo.

Mi dispiaceva vedere Giuseppe e i miei amici in difficoltà.

Ma capivo che ancora non era il momento. E speravo che anche Giuseppe stesse condividendo la mia idea.

Fu la volta di Dorian. “Dovremmo farvi molto male se fosse accaduta una cosa simile”.

E poi non accadde più nulla. Solo un prolungato e persistente silenzio. Ecco, fu durante quel silenzio che capii che stava succedendo qualcosa di brutto, molto brutto. Soprattutto per un motivo. Adesso Giuseppe non guardava più da nessuna parte, all’infuori degli occhi di Michele. E questo non andava per niente bene. Stava per fare la scemata, ne ero sicuro. Stava per aprire quella bocca nel modo peggiore possibile. Nel preciso istante in cui mi accorsi che aveva lo sguardo fisso su Michele, compresi che aveva staccato il cervello dalla bocca. Stava partendo in quarta. Avrei voluto urlargli di guardare da qualche altra parte, di distogliere lo sguardo, di non cascarci. Ma non potevo. E capii che comunque non mi avrebbe neanche ascoltato.

“E se anche fosse?” se ne uscì Giuseppe. Silenzio.

“Allora” rispose Michele “credo che stasera ci divertiremo!”, fece, avvicinandosi lentamente a Giuseppe, fissandolo negli occhi. Distrasse solo lo sguardo quando nella penombra della casa che si trovava al loro fianco udì una porta che sbatteva.

La porta che sbatteva ero io. Ero uscito come un pazzo da casa, lasciando intontiti anche i miei nonni.

Michele era a poco più di un metro da Giuseppe. Francesco e Emanuele, inconsapevoli di ciò che stava veramente accadendo si erano posizionati davanti a Giuseppe. Si erano poi spostati lasciando la strada a Michele, quando imperterrito continuava ad avanzare.

Ora Michele era a poco meno di un metro da Giuseppe. “Forse dovrei romperti il naso” disse, continuando a fissarlo. Una goccia di sudore spuntò dalla tempia di Giuseppe. E, finalmente, la mia testa spuntò dallo scivolo pedonale.

“Forse dovresti prendertela con uno della tua stessa età” gli dissi sopraggiungendo. Michele si fermò. Giuseppe ricominciò a respirare, Francesco e Emanuele sentirono le gambe cedere ma fecero il possibile per non farlo vedere. Sapevano che la crisi era passata. Loro.

Sebbene ci fosse così poco spazio tra Giuseppe e Michele, mi inserii tra i due.

Non appena arrivai in quella posizione, cercai di esibirmi nel peggiore e più arrabbiato sguardo che avessi mai lanciato a Michele, che incominciò a indietreggiare. Quello sguardo non poteva e non doveva lascare adito a dubbi. Michele doveva capire che avevo deciso che quello era il momento per risolvere una volta per tutte la questione. Che sarei arrivato, per quella volta, fino in fondo. E Michele sapeva di non avere scampo.

Tutte le volte che, anche se da amici, avevamo fatto finta di fare a botte, anche le volte in cui poi ci facevamo prendere un po’ di più la mano, Michele non aveva mai vinto. Ero più forte di lui. E la stessa cosa poteva dirsi per le altre tre coppie di coetanei, schierati su fronti opposti. Abbassò lo sguardo, arrossì, in parte per l’umiliazione di quel rovesciamento di fronte, in parte per la rabbia che aveva dentro e sapeva di non dover e poter esternare.

“Andiamo!” furono le uniche sue parole dette, a denti stretti. Si voltò e neanche trenta secondi dopo che ero comparso sulla scena i nostri quattro nemici se ne erano andati con la coda fra le gambe.

Appena girarono l’angolo, Francesco e Emanuele si gettarono amichevolmente addosso a me ringraziandomi e salutandomi. Io ci misi tre secondi a farlo. Poi con la stessa faccia tesa e incupita che avevo sfoderato con Michele, mi avvicinai a Giuseppe.

S: “Ma sei cretino a rispondergli così?”

G: “Eh! Tu non arrivavi, non sapevo che fare!”

F: “Scusa ma come facevi a sapere cosa stava succedendo e che doveva arrivare?”

G: “Ci spiava dalla finestra del bagno come fa sempre. Non eravamo d’accordo che dovevi arrivare appena arrivavano Francesco e Emanuele?”

S: “Non ho fatto in tempo perché sono subito arrivati gli altri quattro. E a te cosa costava fare buon viso a cattivo gioco?”

F: “Scusate ma, Simone, tu ci spii?”

G: “Non è il momento! Dovevi arrivare in tempo! Mi sono preso un colpo quando ho visto che non arrivavi!”

S: “Dovevo vedere come andava a finire. Se avessi pensato per un attimo solo che eravate in inferiorità numerica forse avresti, giustamente, concluso che era meglio non farla quell’uscita esasperata ed eroica!”

F: “Si ma tu ci spii dalla finestra del bagno!?”

S: “Sentito Giuseppe? Non è il momento! Giuseppe: non fare mai più un errore del genere!”

“Mii! Oh! Grazie per l’aiuto! Sapere che finiva così avrei preferito farmi picchiare da Michele che da te!” Disse Emanuele, serio; ma la sua frase ottenne il risultato opposto. Perché dopo qualche altro secondo di silenzio, tutti, con una sincronia eccezionale, scoppiammo in una grossa e sonora risata.

La serata passò più o meno tranquillamente. Finalmente potemmo parlare senza nasconderci, senza temere nulla. E questo ci spinse a chiacchierare sempre più amabilmente. Visto che ero stato smascherato da Giuseppe, confidai ai miei amici l’abitudine che avevo di “spiarli” dalle finestre di casa mia. Però spiegai loro anche il motivo e nessuno ebbe ragioni di lamentarsene.

Quella serata si concluse. Salutai i miei amici e ritornai verso casa, questa volta dalla strada che facevo normalmente. Risalii la strada della casa di Giuseppe, presi la prima traversa e poi ridiscesi verso casa mia. Appena girato l’ultimo angolo ebbi quasi un giramento di testa. Mi appoggiai al muro. Era quasi mezzanotte. Nonostante avessi a pochi metri sia i miei nonni che i nostri vicini, riuscii a non farmi accorgere di nulla. Appena arrivato a casa mi misi sul letto.

Me l’ero vista proprio brutta. Era vero che ero riuscito a reggere il gioco con gli altri tre fino ad allora, per quasi tre ore. Ma adesso, nella solitudine del letto, e prima ancora in quella del breve viaggio di ritorno a casa, avevo risentito tutto il peso di quell’esperienza sulle mie spalle, ancora troppo piccole per potermi permettere di portarla tutto solo. Quella sera per la prima volta avevo avuto veramente paura. Ne avrei avuta ancora, e molto più forte, di paura. Ma io ero una persona tranquilla. Con l’intelligenza e l’astuzia ero sempre riuscito ad evitare di fare a botte. E quella era una cosa della quale potevo ben vantarmi in una scuola come la mia, nella quale la rissa era la maggior causa di sospensione per gli studenti, compresi alcuni miei compagni di classe.

Certo era che, quando sentii Giuseppe pronunciare quella frase, quel “E se anche fosse?”, istintivamente mi ero gettato in aiuto dei miei amici.  Ero sicuro che, se non lo avessi fatto, Michele avrebbe potuto facilmente e tranquillamente fare del male agli altri tre. Soprattutto a Giuseppe, che l’aveva sfidato così apertamente. Michele sarebbe arrivato al punto di rompergli il naso, a Giuseppe. E, per quanto fossi arrivato dai tre assolutamente pronto a passare alle mani se la situazione lo avesse richiesto, non ero assolutamente certo di potermi guadagnare la vittoria. D’altra parte con Michele non avevamo avuto più nessuno scontro. E sarebbe bastato un po’ di esercizio in più e qualche mese di vantaggio sulla naturale crescita fisica per avere velocemente la meglio su di me. Mi parve allora strana la reazione di Michele. Però era stata la meno attesa, ma di certo migliore di qualunque altra avessi potuto immaginare: la fuga. Perché era scappato? Forse neanche lui era così sicuro della sua forza. Indipendentemente da questo, però, mentre procedevo lungo lo scivolo pedonale, me lo ero chiesto tante, tantissime volte: -ma chi me lo fa fare?-

La risposta migliore era “l’amicizia”. Certamente i miei amici avrebbero fatto la stessa cosa se fosse accaduto il contrario. Ma solo l’adrenalina che avevo nel sangue poteva avermi spinto a terminare lo scivolo e fare tutto quello che avevo fatto dopo. E non era stata l’amicizia l’unica cosa che aveva scatenato la scarica di adrenalina. Ero anche profondamente arrabbiato con Michele. Era ormai troppo tempo che non lo capivo più. Ero assolutamente sicuro del fatto che non avevo mai provato quelle sensazioni e una paura simile.

Mi ricordai di quando una volta, mio padre, parlandomi di quando avrei potuto trovarmi in situazioni simili, mi disse chiaramente come dovevo comportarmi. Mai incominciare a fare a botte, mai provocare. Ma, nella malaugurata ipotesi di subire un attacco, difendersi picchiando, forte e bene. E quello ero stato disposto a fare in quel momento. Se Michele m’avesse attaccato, io non solo mi sarei difeso, ma sarei stato disposto a farlo fino al punto di far passare una volte per tutte a quei ragazzini la voglia di darci fastidio. Altrimenti non sarebbe servito a nulla, esattamente come prenderle come un bambino. La cosa che mi spaventò di più fu che provavo quella sensazione per la prima volta in vita mia. E, se da una parte mi vergognavo molto di quei sentimenti, d’altra parte avevo compreso che, tanto, prima o poi, sarebbe dovuto arrivare il momento di farlo. Meglio a Policoro con un mio coetaneo e altri tre mocciosi, che a Milano con qualche bullo maggiorenne della mia scuola, come, per’altro, era successo proprio a Vito e Nicola.

Forte di questa opinione, riuscii finalmente a trovare la calma emotiva e mentale necessaria per addormentarmi. E ci riuscii.

 

----O----

“Perché non ha picchiato subito quell’idiota?”

“Non lo so, Capo! Forse ha iniziato a capire che non è poi tanto un idiota”

“Va bene! Allora, quando inizi ad avere la certezza che non si tratta solo di rispetto ma inizia ad avere paura di lui, passa pure alla fase due”

“Ok Capo!”

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NdA : Buoangiorno! Ecco il punto di non ritorno (anche se ce ne saranno parecchi nella storia). i giochi sono fatti. Mi raccomando: fatemi sapere cosa ne pensate... ciao!

  
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