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Autore: Kimmy_90    08/08/2016    0 recensioni
Mafé vive sulla nave, ancorata in mezzo al cielo di Canos, da che ha memoria. Quel pianeta, ufficialmente, appartiene alla sua famiglia – a suo padre, il Generale Morar: ma lei non ha mai messo piede su quel mondo, né può vederlo, a causa delle nuvole del nord ovest.
Mafé legge. E legge. E legge. E ascolta. E origlia.
E scopre. E ruba informazioni. E annaspa.
Finché decide di scendere su Canos, quella che, seppur lontana, è la sua terra.
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Genere: Avventura, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 4

 

 

Amar era diventato alto: il petto ampio, era passato tanto di quel tempo che oramai sul suo volto squadrato rimanevano, dell’immagine che Mafé aveva custodito dal giorno in cui era partita, solamente gli occhi.
In piedi, addossato al muro, la guardava con la stessa espressione di sconcertata attesa con cui la fissava da ragazzino, nonostante il naso dritto e le narici larghe, le mani grosse e callose, l’odore di grasso e fumo che, per quanto fosse lavato e pulito, ancora aveva addosso.
La ragazza, seduta sulla branda, carezzò con tenerezza il libro prestato ad Amar tante albe prima.
“Come stai, Amar?” chiese Mafé, fissandolo.
Amar fece spallucce.
Gli occhi di Mafé, gli occhi di Morar.
Come fosse che la ragazza, stando lontana dal padre per tanto tempo, avesse acquisito la sua stessa espressione – un’espressione che prima non aveva mai sfiorato il suo viso –, per lui era un mistero. Inconcepibile.
O forse erano le milizie che tiravano fuori quegli occhi?
No, di militari ne aveva conosciuti. Di ogni rango.
Forse era l’effetto delle milizie su quella famiglia, a sortire tale effetto.
“Sei stata via parecchio.”
“Sì.”
“Come stai?”
Mafé non rispose. Aprì invece il libro, mentre un sorriso nostalgico le si allargava sul volto.
“Il Talmarian è intriso del giallo della terra, e viene considerato come un segno di pace. Si dona alle feste del raccolto, ai contadini come ai sovrani, e soprattutto agli stranieri che sono benvenuti. Ognuno è libero di portarlo come meglio crede: avvolto sulla testa, o allacciato a una bisaccia: è del tutto indifferente. L’importante, quando si va in pace, è avere con sé il Talmarian – ovunque su tutto Canos.”
Amar strinse forte le labbra, sentendo la ragazza leggere ad alta voce.
La sua mente ritornò alla terrazza, al mare di nuvole e a più di cento albe prima.
“Amar.”
La voce della ragazza era più robusta di un tempo, salda, eppure ovattata.
Se una volta pensava che Mafé fosse come un sasso, per tanto seria e rigida qual era, e poi roccia, per la sua testarda determinazione, ora l’immagine gli appariva del tutto diversa: morbida ma inamovibile, sicura e rassicurante, inarrestabile, eppure del tutto innocua. Come il mare di nuvole, che rimane, eterno, e si rimescola, procede e sta contemporaneamente fermo.
Il suo nome, pronunciato nel silenzio della stanza, gli suonava come un richiamo antico: i suoi sensi, sopiti dalla routine e dalla noia della sua serena ma insipida esistenza, si svegliarono, come un fiore che s’apre, ricettivo, al mondo.
“Sai perché siamo ancorati qua?” chiese, tenue, la ragazza: levò gli occhi dal libro, e riprese a fissarlo. Morar. Mafé. Morar. Mafé. Mafé.
Mafé.
Amar sollevò le spalle.
“Non me lo sono mai chiesto.”
“No, non è vero.” lo redarguì lei, tornando con gli occhi alla carta. “Sei stato proprio tu a chiedermelo.”
“Io?”
“Alla terrazza, una volta. Avevi ragione: che senso ha fermarsi sopra il mare di nuvole, se sotto non c’è nulla?”
Amar tacque: ora, entrambi adulti, sapevano dare con estrema semplicità la risposta una domanda del genere.
“Sono qui per chiederti un favore, Amar.”
“Dimmi.”
“Scendi con me.”
“Eh?”
“Scendi su Canos. Se verrai, verrai ben ricompensato. Di qualcosa che ha un valore talmente immenso da non poter essere né venduto, né comprato, né donato.”
“Io…”
“Ho bisogno che ci sia qualcuno, con me. Ho bisogno di un testimone. Poi ne me andrò, perché se vedremo quel che immagino, allora, non c’è modo per cui io possa restare su questa nave, né rimetterci mai più piede.”
Amar serrò le braccia al petto.
E sebbene il suo corpo, insieme a metà della sua mente, stesse dicendo ‘no’, disse: “Servirà anche a me, un Talmarian.”
Mafé sorrise.
“Basterà il mio.”

La cabina del Mini-Arrow era molto più stretta di quel che ricordava: Amar, a fatica, sedette al posto del passeggero, subito dietro quello del pilota. Mafé gli diede una mano a chiudere il complicato sistema di cinture di sicurezza, infilandogli poi in testa un casco molto più vecchio di entrambi.
“Tieni.” disse poi la ragazza, poggiandogli in grembo una grossa borsa di stoffa grezza.
Agile, com’era già ai tempi in cui sfidava il vento della terrazza, Mafé s’infilò sul suo sedile e si chiuse con rapidità ogni cinghia, laccio e fibbia – gli stessi che poco prima avevano fatto tanto penare Amar. La cupola si chiuse, e prima che il ragazzo potesse realizzare che, sul ponte, non c’era nessuno oltre a loro, volavano già immersi nel mare di nuvole.
“Questo decollo non era autorizzato, vero?” domandò, retorico.
“Nemmeno l’atterraggio. Ma non preoccuparti, ho fatto in modo che la responsabilità cadesse solo su di me. Stai tranquillo.”
A fatica per il poco spazio concessogli e per la costrizione delle cinture, Amar fece spallucce.
“Cosa mi hai affidato?”
“Puoi aprirlo, se vuoi.”
Amar si ritrovò fra le mani quel che pareva una sfera di vetro, liscia, il cui interno rifletteva la luce come se vi fosse intagliato un cristallo.
“Lo hai rubato.”
“Non io.”
“Non tu?”
“Mio padre.”

Amar non poteva sapere di quell’oggetto, perché Morar prima, e Mafé poi, avevano ben nascosto la sua esistenza. Seppure se ne parlasse in tutte le cronache di Canos, e in tutti i testi degli esploratori scesi dalle navi del Regno, forse solo loro erano riusciti a fare il collegamento fra la narrazione e la realtà dei fatti.
Non che servisse essere persone di fine genio, o di grande conoscenza: bastava, in realtà, ascoltare. E prestare attenzione. Senza lasciar perdere, senza disinteressarsi.
Senza sorvolare sui dettagli che, incollati l’uno all’altro, formavano il mosaico della storia recente di Canos.
“Navigare nel mare di nuvole è difficile, ma non impossibile. Non fare quella faccia, Amar. Arriveremo interi.”
Amar, il volto pallido per i sussulti a cui lo costringeva la navetta e a cui non era affatto avvezzo, annuì.
“E’ molto più conveniente che navigare in quest’atmosfera quando la Solaris risplende.”
“Ah.”
“Non stava qui, una volta, il mare di nuvole. Serviva a noi.”
“Mh…”
“Ti ricordi quando ti dissi che la lingua dei canti era Canossese del nord-est?”
“Certo.”
“Era Canossese e basta. Ma ti farò vedere, così capirai. Tra poco saremo sopra Raden.”

Amar si aspettava vi fossero piogge e fulmini, come descritto nei libri. Si aspettava uno scrosciare continuo d’acqua, vento sferzante, freddo.
Quando scesero dal Mini-Arrow, gentilmente appoggiatosi al terreno, non si muoveva un alito d’aria: tutto era immobile. V’era una densa nebbia giallastra, colore dovuto alla luce della Solaris che andava tramontando, e silenzio.
A fatica Amar poteva intuire i profili di alcune costruzioni attorno a loro, e, sforzandosi, l’ombra lunga delle mura tipiche di quella città.
Non c’era nessuno.
“Puoi togliere il casco, se vuoi. Si può respirare, anche se non sembra.”
“Siamo a Raden?”
“Sì, siamo a Raden.”
“Dov’è la gente? Escono davvero solo di notte?”
“No, vedrai. Il tramonto è quasi concluso. Vieni, Amar.”

 

   
 
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