Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS)
Segui la storia  |       
Autore: IrethTulcakelume    08/08/2016    1 recensioni
Park Jimin, 21 anni, testa sempre tra le nuvole – sì, se le nuvole hanno i capelli neri e tre anni in meno di lui.
Jeon Jungkook, 18 anni, mente brillante versata per lo studio, un po’ meno per gli affari di cuore.
Min Yoongi, 22 anni, passione per il basket, ma qualche problemino con i blackout.
Kim Namjoon, 29 anni, uno studio di psicologia tutto suo che spesso ospita un paziente in via in guarigione.
Kim Seokjin, 31 anni, cattedra universitaria di economia e un incorreggibile complesso del salvatore.
Kim Taehyung, 18 anni, tante foto, incubi abituali e un paio di conti in sospeso con il passato.
Jung Hoseok, 21 anni, una sorella fortunatamente ficcanaso e vigliaccheria a profusione.
Non si sentono i suoni se non c’è silenzio.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jeon Jeongguk/ Jungkook, Park Jimin, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Angolo autrice:
Ma buongiorno! Ed eccomi qui, sono tornata con un altro mirabolante capitolo di questa altrettanto mirabolante storia. Dunque, cosa succede in questo capitolo? Mh, non tanto, è più che altro un capitolo di passaggio, ma succedono un po’ di cose che mi servono per far andare avanti la trama... insomma, leggerete.








 
Life is just a blink

















 
Jungkook aveva deciso di non muoversi dal letto per tutto il giorno. Si era ripromesso, però, che non appena avesse avuto troppa fame per evitare di recarsi in cucina si sarebbe alzato, e avrebbe trovato una qualsiasi occupazione, un modo per liberare la mente. Be’, non era successo: la sensazione di disagio che lo aveva colto la notte appena passata era sempre lì, ancorata al suo stomaco, insieme alla nausea a alla voglia di scomparire dalla faccia della terra. Era rimasto lì, immobile, senza riuscire a dire, o a pensare nulla. Sapeva solo che aveva perso tutto.
Taehyung.
Jimin.
Tutto. Erano le due persone a cui teneva di più al mondo, le uniche di cui si fidasse davvero. Aveva tradito entrambe, se n’era reso conto. Non riusciva ancora a capacitarsi di come potesse essere successo, eppure...
Eppure era rimasto solo, rannicchiato nel suo letto, privo anche del coraggio di chiedersi cosa ne sarebbe stato di lui senza i suoi migliori amici.
Il rumore che faceva Jimin camminando da una stanza all’altra, il suono delle pagine sfogliate – probabilmente stava studiando – erano peggio di una tortura per Jungkook: il suo coinquilino continuava la sua vita, mentre lui? Lui cosa faceva? Niente, assolutamente niente. La giornata procedeva monotona, ma neanche la noia lo convinse a sollevarsi dal materasso. I suoi occhi avrebbero dovuto nuovamente essere testimoni dell’indifferenza con cui Jimin lo trattava, dell’assenza di emozioni nel suo sguardo, e non era pronto a subire una cosa del genere – lo stomaco gli si annodava ancora di più al solo pensiero. A un certo punto – quando?, aveva perso la concezione del tempo – fu costretto a posarsi una mano sulla bocca e l’altra sul ventre, per limitare il dolore fisico che la sua mente ingrata lo stava costringendo a sopportare.
Avrebbe potuto riflettere sul fatto che Jimin fosse in condizioni analoghe alle sue quando era tornato a casa.
La sera era scesa silenziosa sulla loro casa, quasi senza che Jungkook se ne rendesse conto. Le luci si erano semplicemente spente, e la consapevolezza che quella sera Jimin non gli avrebbe augurato la buonanotte lo colpì come una stilettata. Non si chiese perché fosse stata proprio quella mancanza a fargli raccogliere le gambe al petto, come in una sorta di posizione di difesa: sentì solo il dolore, forte e presente. Era tutto sbagliato, loro non avevano mai litigato, non dovevano andare così le cose, loro due, Jimin e Jungkook, Minnie e Kookie, non si facevano del male a vicenda.
La serranda era alzata quando chiuse gli occhi, e un sonno privo di sogni scese su di lui – almeno quello gli era ancora concesso.
La mattina dopo, fu svegliato sul tardi dal rumore della porta che veniva sbattuta con rabbia. Si accorse che gli erano state rimboccate le coperte – quando, non lo sapeva.
Come inondato da tutta l’energia che gli era mancata il giorno precedente, un’energia che sapeva quasi di disperazione, Jungkook si strappò il piumino di dosso e corse in giro per casa. In cucina era tutto in ordine, come se Jimin non avesse neanche fatto colazione. Nella stanza dove solitamente studiavano insieme c’era un paesaggio analogo: non un libro fuori posto, neanche uno dei suoi.
Jimin non era in casa.
Giunto davanti alla porta, restò qualche istante a guardarla. Posò una mano sul pomello, e la sensazione del metallo freddo gli ferì la pelle. Percependo la nuova solitudine che si era venuta a creare attorno a lui, sentì le forze scemare. Non l’aveva salutato. Era scappato da lui, come se fosse un mostro – e forse lo era. Si voltò e si lasciò cadere per terra, facendo scivolare la schiena lungo la porta mentre si chiedeva a mezza voce quando lo fosse diventato, senza stupirsi di star parlando da solo.
Che cosa ho combinato?
 
***
 
- Bene ragazzi, per oggi abbiamo finito.
La voce dolce e suadente del professor Kim Seokjin scatenò l’inferno tra i banchi della classe di economia della Korea University. Ognuno iniziò a raccattare libri, quaderni, appunti, penne e matite con la solita fretta degli studenti che reclamano la libertà, e anche lui li imitò, anche se con foga minore e molto più autocontrollo.
Mentre riponeva una cartellina nella borsa, un sorriso spontaneo solcò le sue labbra: era dal giorno prima che si sentiva più spericolato, forse più giovane, meno uomo e più ragazzo, come non gli capitava da quando aveva iniziato a insegnare. Quel giorno, quando aveva guardato negli occhi i suoi studenti, si era sentito un po’ più simile a loro: l’aiuto che stava per dare a quel paziente di Namjoon lo rendeva felice, e un po’ più entusiasta della vita che conduceva.
Si prese il suo tempo per riordinare le sue cose, e una volta che la baraonda di ragazzi scemò oltre la porta, anche lui si apprestò a fare lo stesso. Prese in mano la borsa, ma quando stava per raggiungere il corridoio si rese conto di un particolare che fino al momento prima non aveva notato: non tutti gli studenti erano usciti. Uno di loro, un ragazzo dall’aspetto piuttosto gracile e con i capelli di un morbido castano, era ancora seduto al suo posto. Teneva le mani giunte sotto il mento, lo sguardo perso chissà dove.
Seokjin, vedendolo, sentì una fitta al cuore, e obbedendo ai suoi impulsi da mamma preoccupata rimise la borsa sulla cattedra e si diresse verso di lui.
Namjoon capirà se arrivo a casa un po’ in ritardo, pensò tra sé e sé. In fondo era ancora presto: erano appena le dieci.
Cercò di stamparsi in faccia l’espressione rilassata che manteneva sempre quando entrava in azione quel suo dannato complesso del salvatore, e a passo sicuro raggiunse la sua meta.
Quando il ragazzo si accorse che il professore si era avvicinato a lui, iniziò subito a mettere a posto il suo banco, come se avesse paura di qualcosa. Seokjin si fermò e appoggiò la base della schiena alla sedia del banco davanti, incrociando le braccia al petto. Il ragazzo, sempre più agitato, farneticò qualcosa sul fatto che se ne stava per andare, ma fu prontamente interrotto.
- Tranquillo, non ti mangio mica – disse Seokjin, prima di abbassarsi, accovacciandosi quasi per terra, in modo da appoggiare le braccia sul banco e la testa sopra di queste. – Allora, chi è che ti fa stare male così?
Il ragazzo trattenne il respiro e si paralizzò. Seokjin aveva fatto centro: pene d’amore. Dopo anni di pratica, ormai sapeva riconoscere i sintomi: sguardo perso, svogliatezza, disattenzione e, soprattutto, sorpresa ogni volta che qualcuno coglieva questi ovvi segnali.
- Non... non capisco di cosa lei stia parlando...
Ecco un altro sintomo: tentativo di negare. Ma naturalmente il professore non si fece ingannare da questo trucco che aveva visto usare fin troppe volte.
- Oh, sì che capisci invece, solo che io sono un professore brutto e cattivo, quindi credi che sia io a non poter capire. Sbaglio?
Il ragazzo rimase con la bocca chiusa e gli occhi spalancati sull’uomo di fronte a sé. Si vedeva che non aveva la minima intenzione di parlare.
Non ancora, si corresse Seokjin.
- Beh, in realtà ti capisco. Anche io ho provato quello che stai provando tu, e prima di poter, diciamo, coronare il mio sogno, ne ho dovute passare delle belle.
- Non credo che lei abbia mai provato quello sto provando io ora – disse sommessamente il ragazzo, facendo trasparire per un attimo un’amarezza prima nascosta. Tuttavia, si pentì immediatamente di aver pronunciato quelle parole: infatti, subito dopo, si cacciò una mano sulla bocca con un sussulto, come a voler impedire ad altre frasi compromettenti di uscire da essa.
Seokjin sorrise. Era già un buon inizio.
- Spiegamelo, magari ti sbagli – disse continuando a sorridere sereno. Vedendo l’indecisione del ragazzo davanti a sé, fu quasi tentato di abbracciarlo come aveva fatto con Yoongi: gli sembrava così indifeso, così impreparato nei confronti della vita e dei brutti scherzi che gli avrebbe giocato in futuro. Ma non poteva: era in un’aula dell’università, lasciarsi andare così ai suoi impulsi da mamma premurosa sarebbe stato decisamente troppo poco professionale.
Dopo alcuni secondi di tentennamento, il ragazzo fece scendere la mano, per poi farla ricadere sul banco con un suono ovattato. Deglutì mentre abbassava lo sguardo per evitare quello del suo interlocutore – Insicurezza, paura della reazione di chi ti sta davanti, gliel’aveva spiegato Namjoon.
- Il... ehm... la persona che... che mi piace – a quelle parole dovette fare qualche secondo di pausa, come se la voce gli si fosse bloccata in gola. Si vedeva che aveva bisogno di parlare, e che probabilmente non l’aveva mai fatto con nessuno: l’incapacità che aveva di tirare fuori i suoi sentimenti ne era la prova. Seokjin ipotizzò che fosse anche molto timido, e che per questo venisse spesso lasciato solo dai suoi compagni, forse troppo pigri per fare quello che stava facendo lui in quel momento.
A meno che non cercasse di proposito quella solitudine. Dopo tutto, ormai doveva avere intorno ai vent’anni – anche se ne dimostrava decisamente di meno – e sarebbe dovuto essere in grado di cavarsela da solo.
Gli attimi passavano, ma il ragazzo non accennava a riprendere il discorso.
- Ehi, tranquillo, non preoccuparti... senti, non ti ho ancora chiesto come ti chiami. Perdonami se non mi ricordo il tuo nome, ma ho davvero troppi alunni – concluse Seokjin. Aveva provato a distrarlo, magari sarebbe riuscito a farlo sfogare più tardi.
Se non puoi entrare dalla porta, entra dalla finestra.
- Oh, stia tranquillo... io sono Lu Han, comunque.
- Quindi non sei coreano, vero? – chiese Seokjin con interesse. Gli piaceva quel ragazzino, aveva qualcosa che acuiva il suo desiderio di aiutarlo. Forse il fatto che avesse chiaramente bisogno di un aiuto, forse il suo aspetto fisico, così fragile. Inoltre, quel nome gli sembrava vagamente familiare. Certo, l’aveva sicuramente letto sull’elenco degli studenti della classe di economia, però era sicuro di averlo visto anche da qualche altra parte. Se solo fosse riuscito a ricordarsi dove...
- No, sono nato in Cina, a Pechino, poi i miei hanno... hanno deciso di trasferirsi qui a Seoul per lavoro – rispose lui, mordicchiandosi l’interno della guancia.
Forse ho trovato una finestra.
- Anche questa persona è nata in Cina?
- No, no, Sehun è... – appena si rese conto di ciò che aveva detto, ripeté l’azione di prima, come per ricacciare di nuovo indietro le proprie parole.
A quel punto, Seokjin capì qual era il problema. Quel ragazzo aveva paura di ciò che sentiva, lo percepiva come pericoloso. Confusione, tanta confusione, e nessuno con cui parlare. Si alzò dalla sua posizione accovacciata, e dopo aver preso una posizione stabile davanti al ragazzo, riprese la parola. - Anche io ho un principe azzurro al posto della principessina da salvare, sei in buona compagnia.
Ottenne finalmente la reazione sperata: Lu Han alzò lo sguardo su di lui, e nei suoi occhi non c’era più solo paura, o indecisione. C’era anche quel qualcosa per cui lui aveva lavorato fino a quel momento, che aveva voluto instillare nel suo sguardo da quanto l’aveva notato: speranza. Fiducia. Forse anche un po’ di stupore, ma non era di quello che Seokjin si preoccupava.
- Lo so che all’inizio può sembrare difficile, ma devi sempre ricordare una cosa: non c’è nulla di sbagliato in te, non importa ciò che potrebbero dire le persone che ti circondano. Questo ragazzo, Sehun... sono sicuro che tu ci tieni molto.
Lu Han annuì debolmente all’inizio, poi, vedendo l’espressione determinata del professore, sembrò riscuotersi, e lo fece con maggior convinzione. – Bene, allora sai che ti dico? Non lasciartelo scappare. La vita è una sola, ed è anche decisamente troppo corta. È un battito di ciglia, un millesimo di secondo, e non abbiamo, non hai, il tempo di farti sfuggire le occasioni migliori.
Seokjin lo guardò con occhi materni, come se volesse rassicurarlo e proteggerlo dalla stupidità del mondo esterno. Anche lui, quando aveva la sua età, era stato spaventato da ciò che gli stava accadendo: gli sembrava di non avere più alcun potere sulla propria vita, tutto gli sfuggiva tra le mani. Senza il giusto aiuto, dubitava che sarebbe stato capace di andare avanti. E in quel momento, lui voleva essere quell’aiuto.
- Grazie, non dimenticherò le sue parole – disse Lu Han, con una luce del tutto nuova negli occhi, una luce che prima sembrava completamente sopita all’interno di lui. Fu proprio quel particolare che fece scattare qualcosa all’interno della mente di Seokjin, che si diede mentalmente del cretino per non averci pensato subito: ora ricordava dove aveva letto il nome di quel ragazzo e, in effetti, anche quello di Sehun.
Mentre Lu Han stava mettendo a posto le sue cose all’interno della cartella, il professore si sporse sul suo banco.
- Aspetta solo un attimo... oggi pomeriggio hai degli impegni?
Il ragazzo lo guardò perplesso. – Ehm... non credo, perché?
- Perché mi servirebbe il tuo aiuto per una cosa... – Vedendo che Lu Han era ancora piuttosto dubbioso, Seokjin rincarò la dose: - E perché forse posso darti un piccolo aiuto con il tuo principe azzurro.
A quel punto, il ragazzo sembrò valutare più seriamente la proposta del professore. Seokjin aveva letto quei due nomi sulla lista degli invitati alla festa dell’altro paziente di Namjoon, che aveva scoperto chiamarsi Park Chanyeol. Quel pomeriggio, inoltre, si sarebbe tenuta nello studio dello psicologo una sorta di riunione per mettere a punto alcuni dettagli più macchinosi del piano di Yoongi che, a detta di quest’ultimo, era di portata epica. Il ragazzo si era tenuto piuttosto sul vago: aveva parlato di gabbiani da acchiappare, di lettere dell’alfabeto e speranza... per essere sincero, Seokjin non aveva afferrato del tutto il senso del discorso – lui che era abituato a ragionamenti logici e alla sicurezza dei numeri, si sentiva un po’ disorientato dai modi di fare di Yoongi. Però era determinato a dare il suo contributo, perché aveva capito che per lui era importante: per quel motivo, maledicendo per l’ennesima volta quel suo dannato complesso del salvatore, stava cercando di aiutare anche quell’altro suo allievo.
La confusione all’esterno dell’aula stava scemando, segno che a entrambi restava poco tempo per decidere.
- Allora, qual è la tua risposta?
 
***


Yoongi aveva appena finito di consumare la sua lauta colazione post-lezione – brioche e cappuccino al McDonald’s distante pochi passi dall’università – quando arrivò alla porta del palazzo abbandonato. Mentre faceva girare le chiavi nella serratura arrugginita, pensò con un moto di orgoglio che in quel momento gli appunti di economia giacevano al sicuro nella sua borsa, e non sul suo banco. Quel pomeriggio li avrebbe mostrati a Namjoon, concordò con se stesso.
Si chiuse la porta alle spalle e aprì quella che lo separava dal seminterrato, per poi rendersi conto che Jimin era già arrivato, e che stava ripetendo quasi con rabbia un terzo tempo dopo l’altro, come un disco rotto, ripetendo sempre la stessa azione con una determinazione che aveva dell’incredibile. Era così assorbito da quell’occupazione, che non si era nemmeno reso conto del suo arrivo.
- Ehi, stella del basket, non si salutano gli amici? – esordì il ragazzo, avvicinandosi mentre si liberava della giacca e arrotolava le maniche della felpa sulle braccia. Jimin, come appena risvegliatosi da un sogno, lo guardò allibito facendosi cadere la palla tra le mani.
- Oh, non... non mi ero accorto del...
- Sì, sì, okay, - iniziò scherzoso Yoongi, le mani affondate nelle tasche dei jeans con fare canzonatorio – ho deciso di essere clemente e perdonarti questa tua grave mancanza nei miei confronti... ehi, ehi Jimin?
Il tono del ragazzo dai capelli rossi mutò in maniera repentina. Se prima Jimin gli sembrava solo con la testa un po’ troppo tra le nuvole, adesso aveva ragione di preoccuparsi: aveva barcollato pericolosamente, una mano premuta sulla fronte, gli occhi chiusi con forza. Yoongi si precipitò verso di lui, pronto a soccorrerlo in caso di bisogno. No, non era decisamente il caso di mettersi a scherzare.
- Non... non preoccuparti, sto bene, è solo un po’ di mal di testa – disse incerto Jimin per rassicurarlo, ma Yoongi non si fece ingannare: si vedeva lontano un miglio che gli era successo qualcosa, e il suo intuito formidabile gli aveva anche già suggerito chi potesse essere il colpevole, tanto per cambiare.
- Magari mentre ti passa il mal di testa ti fermi un attimo e ti siedi, eh? – suggerì Yoongi a metà tra l’ironico e l’apprensivo. Jimin annuì debolmente e si trascinò fino a una delle pareti del seminterrato, per poi sedersi contro di essa.
Ovviamente non poteva sapere che Jungkook era nella sua medesima posizione, addossato alla porta di casa loro.
- Cos’è successo questa volta? – gli fece comprensivo Yoongi, prendendo posto accanto a lui. Si riferiva al coinquilino di Jimin, quello era chiaro, ma l’amico non sembrava intenzionato a rispondere – o almeno, non ancora. Si era voltato verso il canestro, come se vi cercasse la forza di parlare, di dire qualcosa. Si morse prepotentemente il labbro, poi, dopo aver raccattato la palla, che era casualmente rotolata vicino a lui, prese a rigirarsela tra le mani e a biascicare le prime parole.
- E’ tornato ieri mattina – disse con lo sguardo fisso sulla palla, mentre Yoongi osservava assorto il muro di fronte a lui, ascoltando Jimin attentamente. – Aveva passato tutta la notte da quel Tae-qualcosa...
- Chi? – chiese confuso Yoongi.
- V, l’amico dell’altro giorno, è sempre lui – Jimin era stizzito, si sentiva dal suo tono di voce: il solo ricordare il viso di quel ragazzo lo faceva infuriare in maniera indicibile. In fondo non era colpa sua, ma in quel momento non aveva voglia di pensare anche di chi fosse la colpa.
Yoongi non disse nulla in risposta. Si limitò ad alzarsi e a prendergli la palla dalle mani, per poi iniziare a palleggiare e ingaggiare duelli per il possesso con avversari inesistenti, come suo solito – l’altro non oppose resistenza, appoggiò gli avambracci alle ginocchia sollevate e prese a fissare un punto indefinito nel seminterrato.
- Non so, Yoongi. Fino a pochi giorni fa andava tutto bene...
- Con “tutto bene” intendi Jungkook che ti ignora e tu che gli corri dietro? – lo interruppe il rosso. Jimin, però, fece finta di nulla – era abituato alle battute più o meno spiritose dell’amico.
- E adesso sembra che tutto stia andando a rotoli. Non ero mai stato così male per lui, ma da quando è arrivato quel tipo è tutto un casino.
Il ragazzo si alzò, raggiunse Yoongi subito dopo che quest’ultimo aveva fatto un canestro e gli prese la palla. Fece un paio di palleggi, poi corse verso l’altro capo del campo e la scagliò contro il muro con forza. Per alcuni secondi quello dei rimbalzi fu l’unico rumore a regnare nel seminterrato, poi Jimin riprese a parlare. Nessuno dei due si curò di raccogliere la palla da terra.
- Quando è arrivato ha anche avuto la faccia tosta di chiedermi come stavo. – Un sorriso triste, deluso, si affacciò sulle sue labbra mentre continuava a raccontare a Yoongi ciò che era successo. – Ma tanto a lui non frega niente, no? Cosa sono io per lui? Niente più di un amico. Probabilmente ora che non sono a casa sarà felice, potrà stare al telefono con il suo nuovo ragazzo, senza... – La voce gli si ruppe mentre pronunciava quelle parole – senza di me.
Ancora una volta, l’ennesima, Jimin prese a singhiozzare. Le spalle gli tremavano, il viso era deformato dal pianto. Sentiva le guance bruciare, gli occhi gonfiarsi e riempirsi di lacrime, e se la notte passata si era preoccupato all’idea di essere visto da Yoongi, in quel momento non avrebbe saputo con chi altro sfogare il peso che si sentiva sul petto. Mantenne lo sguardo basso anche quando l’amico gli andò vicino e lo prese per le spalle, scuotendolo. Sentiva, come in lontananza, che gli stava anche parlando, ma non percepiva bene le parole: l’unico rumore che sentiva era quello del suo cuore che stava perdendo pezzi per strada ormai da troppo tempo.
- Jimin! Jimin, ascoltami, che cazzo!
Il ragazzo si decise a incrociare lo sguardo di Yoongi, e vi vide la determinazione che lui non sentiva più propria.
- Allora. Punto uno: se scoppi di nuovo a piangere ti parcheggio le mani in faccia.
Una risata stentata trovò un varco nel pianto di Jimin, che però non ebbe la forza di tornare allegro. Sapeva come era fatto Yoongi: tentava sempre di farlo stare meglio ironizzando ogni situazione, e lui lo apprezzava davvero, ma c’erano volte in cui quel metodo non era di alcuna utilità.
- Punto due: lo sai perché stai così male? – Yoongi guardò l’amico sofferente, che non disse niente, autorizzandolo così a rispondere al suo posto. – Perché sei dannatamente, innegabilmente, inesorabilmente e altri “mente” vari che adesso non mi ricordo innamorato di Jungkook.
- Tu sì che sei intelligente – rispose Jimin con sarcasmo, tirando su con il naso e incrociando le braccia al petto. Certo che stava male per quello che era successo con Jungkook perché ne era innamorato, e – anche dopo tutto quello che gli aveva fatto, anche dopo tutte le porte che gli aveva chiuso in faccia – sentiva già i sensi di colpa affacciarsi all’interno del suo cuore martoriato. Il modo in cui l’aveva trattato, quell’indifferenza... non erano cose che Park Jimin riuscisse a fare a cuor leggero, soprattutto con il suo coinquilino.
- Sai a cosa ci conduce questa constatazione? Al fatto che tu adesso uscirai di qui, tornerai a casa vostra e riprenderai a parlargli, perché altrimenti starete di merda entrambi. – Sentendo quell’ultima frase, Jimin non poté che essere d’accordo: essere così lontano da Jungkook, essere arrabbiato con lui, gli faceva provare un dolore quasi fisico, e probabilmente l’altro non era messo molto meglio, anche se prima aveva tentato di convincersi del contrario. In fondo, la rabbia che l’aveva colto quella mattina era già quasi svanita, sostituita dalla sensazione di disagio che gli provocava la sua mancanza. – Io sono convinto che Jungkook sia un idiota, e lo sai, ma proprio per questo devi fare in modo che faccia pace con il suo cervello.
- Che cosa? – chiese l’altro stranito. Di cosa stava parlando Yoongi?
- Magari sarò scemo io, ma segui un attimo il mio ragionamento. Se Jungkook ti chiedesse di uscire con lui, quale sarebbe il tuo primo pensiero?
Jimin rimase un attimo perplesso, ma rispose cautamente a Yoongi: - Credo... che sarebbe “O mio Dio forse sto sognando ma chi se ne frega, portami dove vuoi”.
Yoongi sorrise compiaciuto, scuotendogli ancora le spalle come per accentuare la sua consapevolezza di avere ragione, e per farlo capire anche a lui. – Appunto. Non “Aspetta, ora vado a dirlo a Yoongi, altrimenti non se ne fa nulla”. Invece Jungkook ha fatto proprio questo: Taehyung gli ha offerto di passare insieme il pomeriggio e lui è venuto a chiederti se ti andava bene.
Jimin ridacchiò amaramente. Sarebbe stato bello poterla pensare come il suo amico, ma quella era una visione decisamente troppo ottimistica dei fatti. – Non mi ha esattamente chiesto se mi andava bene...
- Oh, che palle, il concetto è quello. Inoltre, all’università, a volte vi vedo insieme, ed è imbarazzante il modo in cui state incollati, seriamente. E poi, appena uno di voi due si allontana o non è più visibile, ecco che l’altro lo cerca con lo sguardo, siete davvero vomitevoli.
- Questo non vuol dire niente, Yoon... – disse scocciato Jimin, voltandosi e andando a riprendere la palla. Era vero, lui e Jungkook spesso avevano dei contatti fraintendibili, ma le motivazioni erano completamente diverse, e diverse erano le reazioni: il viso di Jimin acquisiva un colore tendente al rosso peperone, mentre Jungkook si faceva due risate e si allontanava. Fine. Nessun coinvolgimento di tipo più profondo, altrimenti Jimin se ne sarebbe reso conto in due anni di convivenza.
No?
- Tu dici? Lo vedremo in data 27 novembre!
- Ehm... lo sai che è domani?
- Certo! Domani attuerò il mio piano geniale, e quella sarà la tua grande occasione! Domani sera, alle ore 21 al Dark & Wild. Gli inviti sono in via di distribuzione da stamattina grazie a un paio di agganci che ho ottenuto all’interno dell’università. Tu domani ci sei, non si discute. E ora vai via, fila a casa! Non ti voglio più vedere fino a domani, e ricordati che devi venirmi a prendere che non ho né macchina né patente.
Jimin era atterrito: la sera successiva ci sarebbe stata la festa di compleanno di un amico di Yoongi – o almeno, così quest’ultimo l’aveva definito. Festa che era stata organizzata dal suo migliore amico appositamente per dare modo a lui di coronare il suo “sogno d’amore” con Jungkook.
Solo che non credeva che sarebbe stato così presto e con così poco preavviso. Però... però forse Yoongi aveva ragione: non poteva lasciarsi sfuggire quell’occasione. Forse sarebbe stata la sua ultima chance, e lui non poteva farsi frenare dalla paura di fallire, di fare la cosa sbagliata.
Fu per quel motivo che un sorriso un po’ tirato trovò la forza di fare capolino sulle sue labbra, e riuscì finalmente a guardare negli occhi Yoongi, e in quegli occhi trovò la forza di andare a recuperare il cappotto che aveva lasciato per terra e uscire dal seminterrato con un po’ di quella speranza che aveva perso.
- Ricordati che si vive una volta sola! Abbiamo i giorni contati, caro Jimin, non fare errori di cui potresti pentirti – sentì dire a Yoongi mentre usciva dal palazzo abbandonato. Anche se aveva notato che l’amico non sembrava intenzionato a seguirlo fuori dal loro seminterrato, non si preoccupò troppo: a volte Yoongi aveva bisogno di stare un po’ per conto suo, e Jimin rispettava questa sua decisione. Probabilmente avrebbe giocato ancora un po’ a basket, poi sarebbe andato da Namjoon, come sempre.
Quindi si diresse a passo più o meno deciso verso casa sua, senza avere la minima idea di cosa dire a Jungkook.
 
Quando giunse davanti al portone, si mise a frugare nelle tasche per trovare le chiavi. Sentiva l’ansia crescere, la sentiva nel tremolio delle mani che a stento riuscivano a trattenere gli oggetti, nel calore asfissiante che sentiva alle tempie. Buona parte della sicurezza che gli aveva infuso Yoongi era andata perduta mentre le sue scarpe consunte lo conducevano verso casa, caduta a terra come polvere.
Fece un respiro profondo ed entrò nell’edificio, poi iniziò a salire le scale, pensieroso. Cercò di tranquillizzarsi, di dirsi che non c’era bisogno di provare tanta paura. Ripercorse con la mente i momenti in cui era rimasto a guardare Jungkook mentre studiava, tutte quelle volte in cui gli aveva preparato il pranzo e lui aveva divorato tutto, profondendosi in complimenti che gli scaldavano il cuore. Rivide le notti passate abbracciati per difendersi a vicenda dai mostri sotto il letto, i pomeriggi a farsi il solletico. Quei ricordi gli facevano male, in quel momento in cui erano così lontani l’uno dall’altro, ma gli strapparono un sorriso – erano quelli che preferiva. Ripeté tra sé e sé le parole di Yoongi, e finalmente riuscì a prendere un po’ di coraggio.
Quando arrivò, la porta non era aperta. Quella visione lo stupì e ferì nello stesso tempo: Jungkook la apriva sempre quando lo sentiva arrivare da sotto.
Ricordati che avete litigato, è ovvio che non abbia aperto la porta.
Scosse la testa, come se con quel gesto avesse il potere di scacciare la sensazione di disagio che lo aveva preso alla bocca dello stomaco, e una volta tirate nuovamente fuori le chiavi, fece quello che in genere faceva il suo coinquilino. La scena che gli si presentò davanti, però, non era esattamente quella che si aspettava.
Il primo rumore che sentì fu un tonfo, come se un corpo avesse sbattuto per terra di colpo – cosa che era effettivamente caduta. Il secondo fu un singulto, che Jimin non avrebbe saputo descrivere se non con la parola “violento”.
Un Jungkook decisamente spaesato era semi-sdraiato per terra e lo stava guardando con gli occhi spalancati, quasi impauriti, il respiro accelerato.
Jimin, agendo d’istinto, si inginocchiò subito accanto a lui e gli mise un braccio dietro la testa, preoccupato che si fosse fatto male.
- Ehi, tutto bene? – gli chiese subito. L’altro, un po’ confuso, per qualche secondo non disse niente, rimanendo semplicemente a guardarlo. Sembrava che stesse cercando delle risposte, annaspando – annegando nelle sue stesse domande.
- Sì... sto-sto bene...
- Riesci ad alzarti?
Jungkook chiuse gli occhi per qualche istante, cercando di regolarizzare il respiro. Quando li riaprì, disse con voce tremante: - Sì, tranquillo, ora... ora mi alzo.
Le ultime parole famose.
Il ragazzo non fece in tempo a mettersi completamente in piedi, che perse l’equilibrio, andandosi quasi a schiantare contro la parete. Quasi, perché Jimin, alzatosi prontamente, lo afferrò appena in tempo, conscio dell’instabilità dell’altro: gli mise avvolse un braccio attorno alla vita, e se lo premette contro per non farlo cadere di nuovo.
Certo, il suo intento non era di ridurre così tanto lo spazio tra loro: anzi, in un primo momento non si rese neanche conto di quanto fossero vicini. Una guancia di Jungkook era premuta contro il bavero del suo cappotto, tutta la linea del corpo pressata sulla sua. Fu questione di pochi istanti, però, perché Jimin si accorgesse della posizione in cui erano. Imprecò mentalmente contro se stesso, dandosi dell’idiota: aveva fatto tutto lui, e se ne sarebbe pentito al più presto. Come al solito, pensò Jimin, Jungkook si sarebbe scostato in fretta e furia e avrebbe interrotto il contatto – e forse quella volta sarebbe stato meglio per entrambi.
Non si aspettava certo quello che avvenne effettivamente.
Jungkook, seppur dopo alcuni attimi di esitazione, tese una mano tremante per aggrapparsi alla spalla di Jimin. Il suo respiro arrivava un po’ spezzato sul collo dell’altro, provocandogli un leggero solletico – ma lui cercò di non farci troppo caso, altrimenti avrebbe dato di matto e fatto qualcosa di tremendamente sbagliato che avrebbe rovinato tutto in maniera definitiva.
- Ti porto sul letto, prima che mi piombi di nuovo sul pavimento – cercò di ironizzare, strappando una risatina a Jungkook, che si tenne con un po’ più di convinzione all’amico. Una volta spezzata un po’ la tensione che si era venuta a creare, Jimin chiuse la porta con la mano libera e accompagnò il coinquilino nella loro stanza. Rischiarono di inciampare l’uno nei piedi dell’altro un paio di volte, ma riuscirono comunque a raggiungere sani e salvi la loro meta.
Il maggiore aiutò Jungkook a stendersi sul letto, soffermandosi a guardarlo con attenzione, cercando di capire se si fosse fatto male in modo serio quando era caduto. Senza che potesse farne a meno, i suoi occhi sostarono qualche istante di troppo sui lineamenti infantili del viso, sui capelli un po’ scompigliati, sulle labbra appena aperte...
Jimin, basta, si riprese mentalmente. Lui tecnicamente era ancora arrabbiato.
Si riscosse e sbatté le palpebre un paio di volte, credendo ingenuamente di poter scacciare i pensieri che gli affollavano la mente. – Vado un attimo a posare il cappotto.
Non poteva esserne sicuro, ma gli parve di vedere con la coda dell’occhio Jungkook che annuiva debolmente, come se non volesse che Jimin si allontanasse anche solo di pochi centimetri. Si disse che doveva smetterla di immaginarsi le cose e andò verso l’attaccapanni, ma mentre stava sfilando i bottoni dalle asole, si rese conto che il bavero era bagnato. Cercò di rammentare come fosse potuto succedere: fuori non pioveva, e quella mattina era stato solo nel seminterrato, poi era tornato a casa e...
L’immagine del viso di Jungkook premuto sul suo cappotto lo travolse con una violenza che non avrebbe creduto possibile: come aveva fatto a non accorgersene? Eppure, ora che ci pensava, i suoi occhi erano un po’ arrossati, e così le guance, come se avesse sfregato, e la sua voce talmente tremula...
Prima che i sensi di colpa potessero assalirlo, le sue orecchie subirono di nuovo la tortura delle parole biascicate di Jungkook. Stava dicendo il suo nome, lo stava chiamando. Finì rapidamente di sfilarsi il cappotto, lo appese all’attaccapanni e si precipitò nuovamente nella loro stanza da letto. Ciò che vide gli trafisse il cuore come una pugnalata: Jungkook era rannicchiato in posizione fetale, gli occhi chiusi che lasciavano passare le lacrime, e la sua bocca continuava ad aprirsi e chiudersi per formare le sillabe del suo nome.
Obbedendo nuovamente al suo istinto, Jimin si sedette accanto a lui e gli prese una mano tra le sue, accarezzandola piano.
- Ehi, ehi, tranquillo, sono qui... – iniziò a dire, ma fu ancora una volta sbalordito dalla reazione di Jungkook.
- Scusa, Jimin, mi dispiace tanto, non volevo farti stare male, davvero...
Gli occhi pieni di lacrime di Jungkook si aprirono per incontrare quelli di Jimin, che non si aspettava una risposta del genere. Tuttavia, decise di accantonare lo stupore, e si dipinse un sorriso che voleva essere rassicurante, ma che sembrava solo forzato.
- Non importa, Kookie, non importa... – mormorò mentre continuava ad accarezzargli la mano. – Non importa... basta che la smetti di piangere, okay?
Mentre pronunciava quelle parole gli asciugò le lacrime con il pollice. Jungkook non disse niente: si limitò ad accoccolarsi contro Jimin, come se stesse cercando di salirgli in braccio.
- Ti prego, non lasciarmi più da solo, non te ne andare. – La sua voce era così bassa che quasi non sentì le sue parole, ma comprese. Comprese ciò che Jungkook gli aveva detto, e anche se Jimin era stato lasciato da solo più volte, guardando il viso dell’altro rigato di lacrime, seppe che non avrebbe mai più rischiato di farlo soffrire tanto. Aveva bisogno che Jungkook stesse bene, ne aveva bisogno per la sua salute mentale.
Devi fare in modo che faccia pace con il suo cervello.
Le parole di Yoongi risuonarono nella testa di Jimin. Si stese accanto a lui e lo abbracciò come quando Jungkook aveva paura di qualcosa: anche se era poco più basso, le sue braccia riuscivano ad avvolgerlo rassicuranti. Non ci volle molto tempo prima che si assopisse – Jimin ipotizzò che, come lui, non avesse chiuso occhio per parecchie ore. Prima di seguirlo tra le braccia di Morfeo, pensò che forse più tardi avrebbe potuto parlargli della festa ideata da Yoongi, ovviamente omettendo alcuni dettagli.
Più tardi.
 
***


Yoongi guardò le persone riunite nello studio di Namjoon con una certa soddisfazione.
- Allora, avete capito cosa dovete fare?
Tutti annuirono, tranne un ragazzo dall’aspetto un po’ gracile, portato da Seokjin. Yoongi l’aveva soprannominato “il nuovo elemento”. Quello, un po’ perplesso, disse con voce insicura: - Quindi io dovrei andare a sbattere volontariamente contro una persona che nemmeno conosco?
O Dio, ma questo è scemo. – Il piano è quello, Gu Ran.
- Lu Han – lo corresse lui, ma Yoongi non ci prestò troppa attenzione. Piuttosto, riprese a guardare i presenti, che ancora non gli sembravano del tutto convinti di ciò che stavano per fare. Appoggiò le mani sulla scrivania di Namjoon.
- Sentite, questa è una cosa davvero importante. Immagino che tutti voi abbiate qualcuno di davvero importante nella vostra vita, no? L’amico che dovete proteggere a ogni costo, quello per cui fareste di tutto. Ecco, quello che vi ho chiesto di fare è per quell’amico. È stato davvero troppo male, e... e penso che anche lui si meriti di essere felice ora. Sono stanco di doverlo consolare ogni volta, sono stanco di vederlo piangere, l’amore non dovrebbe portare solo sofferenza, no? Tutti hanno bisogno, almeno una volta nella vita, di amare e essere amati.
Yoongi teneva lo sguardo fisso sui suoi ascoltatori. A ogni parola, ciascuno sembrava acquistare sicurezza; qualcuno faceva dei gesti di approvazione con il capo. Quando smise di parlare, il silenzio calò sullo studio. Cercò istintivamente Namjoon: quando vide che lo stava guardando orgoglioso, si sentì rincuorato.
- Va bene. Yoongi ha ragione: quello che dobbiamo fare domani è importante. – Uno dei ragazzi si era alzato dal divano, rispondendogli con sicurezza. Se non si sbagliava, era Sehun, uno di quelli che aveva fornito a Namjoon l’elenco degli invitati.
- Allora siamo d’accordo. Domani sera al Dark & Wild?
Gli altri risposero in coro, come una persona sola. – Domani sera al Dark & Wild.
 
Spiegare le dinamiche del piano e convincere tutti a metterlo in atto. Fatto.
Prossima mossa: mettere effettivamente in atto il piano.
Quando e dove? Domani sera al Dark & Wild.










Angolo autrice (parte 2):
Allora, vi è piaciuto? Ci sono state altre bizzarre apparizioni, e continueranno nei prossimi capitoli (l’ottavo è work in progress). Spero che la storia continui a piacervi, ormai siete in parecchi sia a seguire che a preferire questa fanfiction, e mi fa molto piacere!
Come al solito, se avete tempo e voglia lasciate una recensione, che qua fa sempre piacere.
Ci vediamo al prossimo capitolo,
Ireth

 
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Bangtan boys (BTS) / Vai alla pagina dell'autore: IrethTulcakelume