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Autore: MaxB    08/08/2016    3 recensioni
Un castello abbandonato, nascosto nel bosco insieme ai suoi segreti.
Un ragazzo senza memorie.
Un gruppo di fantasmi che lo faranno sentire a casa per la prima volta dopo anni.
Ma c'è solo una cosa che Gajeel vuole più della sua memoria: Levy.
La ragazza che ama, che amava, e che sembra essere la chiave del mistero che gira intorno al castello.
Lo scopo di Gajeel è quello di salvarla, ma l'impresa potrebbe rivelarsi più oscura del previsto.
Tra ricordi riportati a galla da un lontano passato ormai dimenticato, amori e macabre scoperte, riuscirà Gajeel a salvare il suo futuro?
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gajil Redfox, Levy McGarden, Mirajane, Pantherlily
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Epilogo
Quando vivere non ha più un senso



 
Levy fu pronta per la partenza una settimana dopo.
Aveva preparato i bagagli, dove aveva messo tutti i suoi vestiti e alcuni dei libri che aveva letto e che erano diventati i suoi preferiti, in quella nuova vita.
Gajeel aveva sbirciato, di nascosto, mentre disfaceva l’armadio, e aveva sentito il suo cuore svuotarsi come quel mobile, lentamente e inesorabilmente.
Non avevano parlato molto in quella settimana. Polyushika era venuta a salutarla, le aveva preparato alcuni unguenti medicinali nel caso in cui avesse sentito male a qualche muscolo o articolazione, e le aveva augurato buona fortuna.
Gajeel pensò che, a modo suo, Polyushika era stata dolce. Lo negava, ma si era davvero affezionata a quella ragazza che aveva curato per molto tempo. E che, le andava riconosciuto, aveva contribuito alla salvezza di Fairy Taill, ponendo fine alla minaccia di Acnologia.
Gajeel cercò a più riprese di parlare a Levy, di convincerla, di persuaderla che potevano tornare ad essere felici come un tempo, insieme. Potevano riscoprirsi a vicenda, iniziare una nuova storia.
Ma Levy fu inamovibile, certa del fatto che in quel modo Gajeel si sarebbe solo ferito. La ragazza che lui cercava era morta da tempo, glielo ribadiva sempre, ma questo non rendeva certo più dolce il boccone di veleno da ingollare.
La sera del sesto giorno gli comunicò che sarebbe partita l’indomani, senza aspettare oltre. Si sentiva soffocare dai ricordi non suoi e non gli aveva dato la notizia con un grande preavviso per evitare sue ulteriori pressioni.
Levy pianse quando glielo disse, perché anche se non era più la sua Levy, quella di cui Gajeel si era innamorato, restava pur sempre buona come il pane, e dagli album di foto e dagli atteggiamenti di Gajeel aveva capito che l’amore che avevano condiviso era quello che si trova una sola volta nella vita.
Ma lei non poteva farci nulla, non voleva stare in quella casa troppo vecchia a cercare di essere all’altezza della persona che era stata un tempo e che non sarebbe più tornata. La vita le stava dando una seconda chance quando in realtà sarebbe dovuta morire, e lei non l’avrebbe sprecata.
Gajeel non fece niente tutto il giorno, restò sdraiato sul divano a fissare il soffitto mentre Levy andava in giro per casa per ammucchiare i suoi effetti, depositandoli nelle valigie che poi sistemò nell’ingresso di casa. Gajeel si alzò solo per bere e andare in bagno, e per cucinare, anche se lui di tutto il cibo che preparò non toccò niente. Levy si fece un panino sia a pranzo che a cena e scappò in camera.
Era così vigliacca da non avere nemmeno la forza di guardare a viso aperto il ragazzo che stava distruggendo.
Gajeel non la vide mai quel giorno, e forse era meglio così, o forse era terribilmente sbagliato. Lui, se avesse potuto, avrebbe goduto di ogni istante in sua compagnia, anche se lei non lo avesse considerato. Voleva solo sentire accanto a sé la sua presenza, viva, il suo calore, e illudersi che fosse la stessa di sempre.
La sera, prima di andare a dormire, bussò in camera sua.
- Che c’è? – chiese una voce irritata al suo interno.
Levy non era mai stata sgarbata, mai. Men che meno con lui. E Gajeel non sapeva che anche a lei faceva male pronunciare con finta nonchalance quelle parole piene di astio. Perché lei veniva colpita dall’ingiustizia quanto lui.
- Posso… posso entrare? Non voglio insistere, devo solo dirti una cosa finanziariamente importante.
Levy prese un respiro profondo e in fretta e furia nascose la foto su cui aveva pianto negli ultimi minuti. La foto ritraeva lei, una se stessa in cui non si riconosceva, mentre leggeva un libro sotto un albero in fiore. Molto probabilmente era il ciliegio che aveva visto passeggiando, quello di cui Gajeel le aveva sempre parlato. Nella foto stava indicando alla telecamera di fare silenzio, perché sulle sue gambe giaceva la testa di Gajeel, profondamente addormentato, con Lily acciambellato sul suo ventre. Era l’unica foto in cui il ragazzo era visibilmente rilassato, e il cipiglio che lo contraddistingueva sembrava essere stato cancellato con photoshop.
Levy l’aveva fissata ogni notte prima di dormire, strappandola agli album di fotografie. Si addormentava con la foto tra le dita e la mattina dopo si affannava per cercarla. Era tutta sgualcita, ma non le importava, perché il sorriso che aveva dipinto sulle labbra sembrava amore puro. Levy aveva passato diverso tempo davanti allo specchio, ma non era riuscita ad imitare quel sorriso. Aveva sperato di sognare quel ricordo, quel pomeriggio tranquillo passato a leggere con un ragazzo che russava.
Ma la memoria non era migliorata, e la sua speranza di tornare ad essere la ragazza innamorata della foto era sparita per sempre.
- Entra pure – disse, dandosi da fare per sembrare indaffarata.
- Scusa se… disturbo – mormorò Gajeel grattandosi la testa, a disagio sulla soglia della camera che per lungo tempo era stata anche sua.
- Vorrei andare a letto presto, dimmi – lo incalzò lei, avendo cura di nascondere bene gli occhi.
- Ah, sì. Ehm… ho parlato con Makarov prima della sua… dipartita. Makarov era il nonno… cioè il proprietario del castello. Aveva lui i soldi, insomma. Mi ha fatto sapere cosa devo fare per entrarne in possesso e dove trovare il testamento. Essendo l’unico vivo il… patrimonio era automaticamente passato a me, ma dato che ci sei anche tu e che… stai andando via…. Io…
Levy si bloccò. – Mi stai dando metà patrimonio?
- Non sono io che te lo sto dando. È già tuo – rispose Gajeel. – Ho comprato un cellulare nuovo e… se vuoi posso darti il mio numero così appena avrò sistemato la questione del testamento potrai chiamarmi e… senza venire qui io… sì, insomma, posso darti i soldi. Non penso che tu voglia la casa, giusto?
La ragazza scosse la testa e piegò per la decima volta una maglia già perfettamente piegata.
- Tutto qui? Be’, grazie per l’onestà.
- Sì… - borbottò lui. Poi indugiò sulla porta, e Levy si irrigidì involontariamente. - Senti, io…
- Mi dispiace Gajeel, devo proprio andare a dormire. A domani.
Levy lo spinse fuori e, una volta chiusa la porta, si appoggiò ad essa con la fronte e si tappò la bocca per non farsi sentire. Le lacrime le inzuppavano le dita e cadevano al suolo come piccole bombe, chicchi di grandine proveniente dal suo cuore freddo e vuoto.
- Ti amo, Gajeel – sussurrò, conscia del fatto che era vero, probabilmente, ma che nessuno dei due avrebbe potuto far nulla in proposito.
Voleva solo sentire come suonavano quelle parole sulle sue labbra. Chissà quando la Levy del passato gli diceva che l’amava, in che circostanze. E chissà come reagiva lui.
Trattenendo i singhiozzi a stento, si trascinò fino alla finestra e fissò le stelle, che immerse nel buio del bosco splendevano con forza inaudita.
In due parti diverse della casa, senza saperlo, chiusi nel loro dolore e nella loro incapacità di vivere, Levy e Gajeel guardavano lo stesso, identico cielo.
Solo che lo guardavano da due angolature diverse, e sembravano due cieli divisi.
 
Gajeel quella notte non chiuse occhio, letteralmente. Lily dormiva placidamente accanto a lui, come nel passato lontano che ormai sembrava appartenere ad un’altra persona.
Quando riusciva ad assopirsi, uno scricchiolio o un refolo di vento lo svegliavano, e lui rizzava le orecchie temendo una fuga improvvisa di Levy.
Voleva, doveva, almeno salutarla, ma non sapeva cosa aspettarsi da quella nuova persona che viveva nel corpo della donna che amava.
Così restò vigile, attento a captare ogni scricchiolio rivelatore, ma niente gli suggerì che Levy fosse già partita.
La mattina arrivò troppo presto, mentre la nebbia della nuova primavera si faceva largo nel bosco, permeando ogni cosa. Era già passato un anno e mezzo da quando era tornato a vivere nel castello, nella sua vera casa. Sembravano passati secoli, oppure solo pochi giorni.
Quando Gajeel uscì dalla camera, Levy fece lo stesso, e si ritrovarono fermi in mezzo al corridoio, a scrutarsi, senza ben sapere cosa fare.
- Ciao – disse Levy, in un modo che suggerì a Gajeel che se avesse potuto fare a meno di salutarlo, lo avrebbe fatto.
- Ehi – rispose lui, con un briciolo in più di convinzione. Tutta la forza che lei gli aveva lasciato. Praticamente nulla.
- Preparo la… colazione buona? – chiese lui sorridendo, ricordandosi di quando lei lo svegliava chiedendogli proprio quello, di avere una ‘colazione buona’. Non gli aveva mai spiegato cosa fosse, però.
- Oh, no. Grazie. Parto subito, non ho molta fame. Magari mangerò qualcosa dopo…
Levy strinse convulsamente le cinghie della borsa che aveva a tracolla, e si trascinò dietro la valigia mentre avanzava verso le scale. Imboccò i primi gradini che trovò, scendendo dall’altra parte rispetto a Gajeel. Era la prima volta che venivano usate le due rampe contemporaneamente. Lui e lei erano sempre saliti e scesi dalla stessa scala, insieme.
La loro imminente separazione sembrava concretizzarsi lì, in quel momento, con Levy che scendeva e Gajeel che, dall’altra parte, la osservava impotente, con le mani calate bene in tasca.
Dalla parte opposta. Lontane, le due estremità. Lontani, i loro cuori. Il loro futuro insieme… lontano.
Pantherlily sbucò dalla sala da pranzo miagolando, e trotterellò verso Levy sedendosi ai suoi piedi. La giovane sorrise al gatto e, posando l’ultima valigia vicino alle altre, si chinò per accarezzare il micio. – Ehi, amico – mormorò, consapevole del fatto che Gajeel le si stava avvicinando in silenzio. – Prenditi cura di… di questo posto, va bene? Sono certa che lo farai.
Lily le leccò le punte delle dita, per poi alzarsi e andare a strusciarsi contro le gambe di Gajeel, che se ne stava fermo come una statua a fissare il pavimento, le mani in tasca.
Levy si alzò lentamente e, per una volta, lo osservò. Lo guardò davvero.
Con le grandi mani nascoste nei pantaloni, lo stile che lei avrebbe riconosciuto ovunque come suo, il groviglio di capelli corvini che lo rendevano simile ad un mal riuscito tentativo di civilizzare un selvaggio, la stazza imponente e i muscoli ben definiti, i piercing che brillavano sotto alla chiara luce delle candele.
Lo aveva amato, lo aveva amato tanto da essere disposta a sacrificare se stessa pur di salvarlo. Ma il suo sacrificio le aveva chiesto in cambio un prezzo troppo alto.
- Io, allora… ehm… - farfugliò lei, infilando una mano nella tasca della giacca leggera. Le sue dita strinsero la foto consunta che era diventata il suo cammeo, il suo aggancio al passato, il suo disperato tentativo di ricordare una storia d’amore a cui desiderava prendere parte. Fu la foto a darle coraggio.
- Grazie, Gajeel. Davvero, hai fatto per me più di quanto avrebbe mai fatto chiunque. E… mi dispiace ripagarti così, ma io… davvero, io… - balbettò, mentre le lacrime la deridevano e minacciavano di sopraffarla.
- Non… - la interruppe Gajeel, sospirando. – Non fa nulla.
Quante bugie possono contenere tre parole?
A volte le frasi più brevi sono le più menzognere di tutte, ci traggono in inganno facilmente mentre la verità viene occultata da poche lettere.
“Come stai?”
“Bene”. Quattro lettere. Un mondo di bugie. La falsità più grande del mondo.
Levy strinse i pugni, accarezzò la foto di nascosto e si avvicinò a Gajeel, alzandosi sulle punte dei piedi per lasciargli un bacio d’addio sulla guancia.
Sorpreso dalla sua vicinanza, il ragazzo girò la testa di scatto, una scintilla insopportabilmente dolorosa dipinta negli occhi: speranza. L’ultima.
I loro respiri si mescolarono, i loro occhi si incrociarono e le loro bocche si fermarono a pochi millimetri di distanza. Come i loro cuori.
Levy si ritrasse, impaurita, quando si rese conto che stava per baciarlo sul serio, e si schiarì la voce per cercare di darsi un tono. Il momento era passato, e non sarebbe più tornato.
- Addio, Gajeel. Scusami, grazie, ti auguro una vita felice e soddisfacente.
Il ragazzo annuì, fissandola intensamente. Non voleva, non lo voleva assolutamente, ma sapeva che quell’immagine si era già impressa a fuoco nella sua mente e sarebbe tornata a salutarlo ogni notte fino alla fine della sua insignificante esistenza. Il suo incubo peggiore. La partenza di Levy.
Silenziosa come il fantasma che era stata, Levy portò le valigie sul portico d’entrata e Gajeel la sentì chiamare un taxi.
Non c’era più niente da fare, aveva perso tutto. Con il cervello vuoto, decise di approfittarne per andare a recuperare la notte passata insonne. Finché il cervello fosse rimasto in stato di incredulità e mancanza di accettazione, forse sarebbe riuscito a dormire.
Così Gajeel prese Lily e si diresse verso le scale, girando le spalle all’entrata.
Girando le spalle a Levy.
 
Il taxi sarebbe arrivato dopo mezz’ora perché la città di Magnolia, di cui a quanto pare il vecchio Makarov era stato un tempo proprietario, era completamente disabitata, e dunque priva di qualsivoglia servizio.
Levy si sedette su una panchina, in attesa, ma era troppo inquieta per riuscire a fare alcunché.
Lasciò vagare lo sguardo per il giardino, soffermandosi sulla stradina che Gajeel aveva ripulito per permettere l’accesso alle macchine. Macchine che nessuno ormai possedeva più, in quella casa. Però sarebbe tornata utile per il taxi, e Levy non avrebbe dovuto trascinare le valigie nel bosco. Ancora non sapeva cos’avrebbe fatto. Probabilmente si sarebbe fermata in un hotel qualche giorno, a fare ricerche in merito a quel mondo che non conosceva: chi governava, che cosa stava succedendo, guerre, innovazioni. Così tante cose erano state perse in quegli anni.
Di fianco alla stradina, l’orto che lei e Gajeel avevano ripiantato stava germogliando, e già qualche pianta iniziava a dare i suoi frutti. L’idea era venuta al ragazzo che, stanco di dover sempre uscire di casa e fare un sacco di strada per procurarsi verdura fresca, aveva usato la scusa dell’orto per far fare esercizio a Levy. Sembrava una presa in giro, all’inizio, ma l’aria fresca, l’attività fisica lieve e il contatto con la natura l’avevano davvero aiutata a riprendersi. Avevano lavorato in silenzio, e Levy era sempre stata consapevole degli sguardi che Gajeel le lanciava, senza nemmeno premurarsi di nasconderli.
L’amava così tanto da ferirsi da solo.
Sospirando, Levy si alzò e si appoggiò al parapetto del portico. La primavera era davvero clemente con il castello, donando gioia ai quei muri grigi con gli alberi in fiore e la vivacità dei colori.
La ragazza si soffermò a ripensare a tutta quella storia di cui lei era stata protagonista senza nemmeno saperlo. Posseduta. Usata. E poi svuotata.
Il tutto per colpa di una spada. Spada che, per altro, non aveva mai visto.
Gajeel, quando le aveva fatto fare il tour della villa, mostrandole angoli segreti e quadri dei suoi vecchi amici, non le aveva mai fatto vedere l’armeria di cui le aveva parlato. Da quanto aveva capito, però, era vicino alla lavanderia, e vi si accedeva attraverso la sala giochi.
Chissà perché Gajeel non l’aveva mai portata lì. Probabilmente per lui sarebbe stato troppo entrare in quella stanza con lei, quella stanza che era l’inizio e la fine di quella tragica avventura. E forse sarebbe stato troppo anche per lei.
Però voleva vederla. Doveva.
Prima di sparire per sempre, voleva toccare quella Spada con cui si era maledetta e con cui Gajeel l’aveva salvata.
Levy aprì la porta d’entrata silenziosamente, ed entrò nell’anticamera. Attenta a non far rumore, aprì una delle due porte che conducevano al soggiorno, al salone, e si accertò della mancanza di Gajeel. Doveva essere tornato a letto.
Levy si diresse a sinistra e varcò la porta della sala giochi, senza accendere le luci. Fuori la luce era abbastanza forte da illuminare gli ambienti, ma la sala giochi era stata progettata per avere poche finestre dal momento che fungeva anche da sala cinema. Chiudendo gli occhi, la ragazza lasciò che fosse il suo corpo a guidarla: il suo subconscio conosceva quel luogo, sapeva dove andare e cosa fare. Svuotò la mente e lasciò liberi i suoi piedi. Dopo alcuni istanti aprì gli occhi e scoprì di essere arrivata in fondo alla sala. Nella penombra poteva scorgere la porta della lavanderia, sulla sinistra, e a destra una porta pesante e intagliata.
Senza esitare, Levy si avvicinò e l’aprì, spingendola con forza.
L’ambiente era cupo e completamente buio, ma un bagliore si diffondeva nella stanza partendo da un puto proprio davanti all’entrata, davanti al tavolo dove il corpo Levy aveva giaciuto tutto quel tempo.
Meccanicamente, la ragazza allungò una mano e accese l’antiquato lampadario che pendeva dal soffitto. L’armeria era pulita e i pavimenti ancora profumavano di detersivo: Gajeel doveva averla pulita da poco. Le lame delle armi che splendevano sui muri, gloriosi, riflettevano la luce creando piccoli caleidoscopi luminosi, e Levy ne rimase incantata.
Si diresse lentamente verso la teca che, da quanto le aveva detto Gajeel, conteneva la Spada dello Spirito, aggirando il tavolo di cemento che la inquietava.
L’arma era adagiata su un cuscino rosso dentro ad una teca di vetro oblunga che sembrava essere stata scavata dall’interno, e non plasmata su misura. La lama era nascosta, al sicuro dentro il fodero blu, ma le decorazioni erano così ben fatte da far sembrare fodero ed elsa un unico gioiello blu e argento.
Era una delle cose più belle che Levy avesse mai visto. L’arma sembrava chiamarla a sé, invitarla a toccarla, e… respirare.
La vita di Mastro Zeref era ancora lì dentro, probabilmente, pronta a fare del bene a chiunque avesse reputato degno.
La luce sacra della Spada si rifletteva negli occhi puri di Levy, facendoli brillare, e la ragazza allungò le dita per sollevare la teca. Le parve di sentire un sospiro, così si guardò intorno, spaventata.
Ma in quella stanza c’era solo lei.
Trattenendo il respiro, prese coraggio e allungò l’indice per percorrere con il polpastrello gli intarsi argentati di quella meraviglia.
Levy si sentì bene, si sentì bene dopo… anni. Chiuse gli occhi e sorrise, e senza pensare prese il fodero e lo fece uscire dalla teca. Impugnando l’elsa della Spada, la sfoderò, perché voleva sentire…
Voleva sentire l’effetto che faceva tenere in mano l’arma con cui si era condannata. Peso, forma, dimensione.
Era pesante, ma nel giro di qualche secondo la sentì più leggera, più corta, perfetta per lei. Che fosse solo una sua impressione?
E poi successe.
Successe nel momento in cui si portò la lama di fronte al naso, per osservarne la lucentezza.
I suoi occhi incontrarono il suo riflesso nella lama lucida e liscia, e Levy li vide spalancarsi.
Fodero e Spada colpirono il pavimento con un tonfo cristallino, ma lei non se ne accorse.
Chiuse forte gli occhi e iniziò a tremare, abbracciandosi.
Un respiro strozzato le uscì dalla gola, e quando riaprì gli occhi pieni di lacrime, calciò la Spada inavvertitamente e scappò da quella stanza.
Scappò via senza più voltarsi indietro.




MaxB
Chiedo scusissima per il capitolo molto corto. Mi rifarò con il prossimo.
La verità è che questo cap sarebbe dovuto essere parte di quello precedente, ma ho voluto tenervi sulle spine perché sono una persona cattiva.
E voglio tenervi sulle spine pure ora muahahaha.
Scherzi a parte, se penso al fatto che questo è il penultimo capitolo, rabbirividisco.
Questa storia ha rappresentato moltissimo per me, ed è la prima e unica storia che per ora ho concluso. Sono riuscita a dimostrare a me stessa che se voglio, posso concludere le storie, perciò ora mi rimboccherò le dita (?) per LNVI, perché metterò il flag "storia conclusa" anche su quella, dovessi morire.
Grazie a chi mi ha seguita fino a qui e a chi lo farà anche lunedì prossimo.
A presto!
MaxB
  
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