Non
era poi così stupido. Anzi, era TUTT’ALTRO che
stupido. Era stupendo.
Ok,
non potevo saperlo con certezza, ma per me TUTTO era al posto giusto,
come in
un grande puzzle.
Pensandoci
bene, la vita è un puzzle. E la mia vita era completa, ogni
pezzo era finalmente
al posto giusto, per quanto potesse sembrare strano, o stupido, o
qualsiasi
altra cosa.
Erano
passati mesi in quel modo, racchiusi in un enorme bolla indistruttibile
e
bella. Allo stesso modo. Poteva sembrare anche monotono, ecco, ma non
lo era
affatto. Ogni giorno, quei 15 minuti di ogni giorno, quei 15 minuti di
ogni
giorno della settimana, feriali esclusi, era uguale ma diverso.
Una
mattina di primavera, con quell’aria frizzante, il sole
tiepido sul viso, il
profumo dei fiori appena sbocciati sugli alberi, nonostante ci fosse
tutto
quello splendore fuori, avevo solo una maledetta voglia di chiudermi in
casa. Non
si prospettava una giornata felice, come sempre.
Ma
qualcosa, non so ancora che cosa e non me lo chiedo nemmeno
più, mi fece alzare
dal letto e affrontare la vita. Quel qualcosa aveva deciso anche di
mandarmi in
un campo di battaglia dolce, donandomi ciò che
c’era di più bello in natura, ma
io non seppi apprezzare nulla di tutto quello.
Quasi
mi trascinavo per raggiungere la fermata dell’autobus che mi
avrebbe portata là
dove mai più sarei voluta andare. Eppure era la mia vita,
dovevo accettarla per
com’era: un puzzle riuscito male. Forse poteva essere un
puzzle decente, il
mio, ma non ero in grado di metterlo a posto.
Non
ci voleva molto per arrivare alla fermata, ma quel giorno mi
sembrò
lunghissimo, peggio di una traversata del deserto.
Quando
arrivai notai che quel qualcosa era intervenuto di nuovo.
Perché insisteva
tanto con me? Perché non mi lasciava semplicemente morire
della mia morte? Non
volevo agevolazioni, io, né favori. I favori dovevano sempre
essere ricambiati.
Comunque,
quel qualcosa aveva cambiato la monotonia odiosa che con il passare
degli anni
avevo odiato sempre di più. C’era un ragazzo,
seduto sulla panchina della fermata. Per
fortuna non si era messo nell’angolo nel
quale stavo io da sempre, sarebbe stato il colmo. Ma le
novità non mi erano mai
piaciute, anche se odiavo la monotonia. Era abbastanza complicato.
Portava
un paio di jeans larghi, una felpa grigia di cui il cappuccio gli
nascondeva in
parte i capelli dorati. I suoi occhi erano azzurri, ma non un azzurro
qualunque: l’azzurro del mare. Ed era strano,
perché io del mare avevo un
ricordo sfuocato. C’ero stata da piccola, quando ancora i
miei genitori… Beh, è
un’altra storia.
Aveva
una rosa in mano, rossa.
Mi venne il voltastomaco.
Altro che aiuto, quello era un invito al suicidio.
Mi
misi seduta nel mio angolo e nascosi il viso tirandomi sulla fronte il
cappellino che di solito stava al contrario.
Ogni
giorno era la stessa cosa: arrivavo alla fermata e lui era
lì, con la sua rosa
in mano. Ma la cosa strana era che non prendeva mai
l’autobus, quando arrivava.
Per molto tempo mi chiesi dove andasse, ma non lo capii mai.
Solo
sguardi e silenzi in quei 15 minuti di ogni mattina, ma mi piaceva, era
bello,
strano ma bello. Non riuscivo a spiegarmelo.
Non
ci parlavamo mai, non sapevo nemmeno se fosse capace, di parlare; forse
lui si
chiedeva la stessa cosa di me. Non sapevo com’era la sua
voce. Capitava, delle
notti, che me la sognavo. Non diceva nulla di particolare, ma era un
piacere
sentirla.
Una
mattina, successe un fatto che non dimenticherò mai e che,
nella sua
semplicità, mi aveva resa felice, dopo troppi anni in cui il
mio cuore non
aveva provato quella sensazione.
Il
cielo era terso e splendeva un sole bellissimo. Anche io ero di buon
umore, ma
lo sentivo solo io dentro di me, fuori ero la solita pietra dura e
inattaccabile.
Alla
fermata trovai la mia certezza seduta al solito posto, con la sua bella
rosa
rossa tra le mani. Quando mi sentì arrivare, non sapevo come
faceva ma non mi
importava, senza nemmeno girarsi, accennò un sorriso.
Mi
misi seduta e rimasi a guardarlo di nascosto, come facevo sempre.
Guardarlo
soltanto era… era rilassante. Ascoltare i suoi silenzi era
una cura per il mio
animo arrabbiato e trafitto dall’odio. Per quei 15 minuti,
sembrava
allontanarsi e lasciarmi più leggera. Ormai vivevo solo per
quei 15 minuti di
pace.
Arrivò
una signora, abbastanza anziana, che si mise seduta tra noi due. Andai
in
panico. Non riuscivo più a vederlo con quella vecchia di
mezzo. Mi sporsi sia
in avanti che indietro per cercare di vederlo, non mi importava se lui
se ne
sarebbe accorto. Io avevo BISOGNO di vederlo.
Forse
quella vecchia non lo sapeva, anzi, proprio non lo sapeva, che mi stava
togliendo parte dei miei 15 minuti di pace quotidiana.
Chiusi
gli occhi e lottai dentro per non essere sopraffatta di nuovo
dall’odio, nato
in me e mai sparito. Cercai un antidoto, ma l’unico che
conoscevo era dietro
una vecchia. Lei mi stava PRIVANDO della mia cura.
Quando
ormai mi ero arresa, lui si sporse dietro la vecchia e mi
guardò negli occhi
sorridendo in un modo… un modo che non aveva mai fatto in
quelle settimane. Era
come per rincuorarmi. Per dirmi: “Sono qui, non
preoccuparti.” Poi si alzò, lo
seguii rapita con lo sguardo, e si appoggiò con quel suo
leggero sorriso di
sempre al palo accanto a me.
Quell’episodio
mi era davvero rimasto impresso nella memoria e soprattutto nel cuore,
si
ripeteva impazzito nella mia testa ogni volta che si presentava
l’occasione.
Purtroppo,
come dovevo capirlo fin dall’inizio invece di illudermi di
avere sempre per me
quell’antidoto, com’era venuto, se n’era
andato. Senza dire niente, in
silenzio, ma con il suo stile.
La
mattina in cui scomparve lasciandomi sola anche in quei 15 minuti,
lasciandomi
al mio destino, al suo posto, sulla panchina della fermata, trovai una
rosa,
una rosa rossa.
Mi
si spezzò il cuore e allo stesso tempo ne rimasi
affascinata.
Il
cuore si era spezzato, davvero, ma solo perché sapevo che
non l’avrei più
visto, mai più. Ma era stato affascinante scoprire che
tenendo presente i suoi
sorrisi, i suoi silenzi, i suoi sguardi, potevo combattere
l’odio con maggiore
forza, vedendo la vita da tutta un’altra prospettiva. E
quella rosa… non sapevo
se era per me, ma quel giorno la presi e la portai con me.
Presi
l’autobus e arrivai al cimitero, con quella rosa in mano.
Camminai senza
pensare a niente, guardando dritto avanti a me, anche se la strada la
sapevo
ormai a memoria. La ghiaia bianca scricchiolava sotto i miei passi, il
cielo
era nuvoloso.
Di
fronte alle lapidi di marmo bianco dei miei genitori, rimasi a fissare
le loro
foto sorridenti, erano felici e soprattutto, avevano avuto
ciò che volevano: morire
assieme.
Mi
inginocchiai mentre le pioggia iniziava a cadere, bagnando tutto. I
capelli mi
si appiccicavano al viso, l’acqua si mescolava alle lacrime.
Appoggiai
la rosa sulla superficie fredda e sorrisi leggermente mormorando:
“Da parte di
un mio amico.”
Mi
alzai e girandomi lo vidi. Era appoggiato con la spalla ad una colonna
del
portico, il suo sorriso sulle labbra e una lacrima che gli lasciava un
solco
sulla guancia. Ma continuava a sorridere. Sorrisi anch’io e
si dissolse, senza
dire niente.
Nel
suo stile.
Anche
se il mio puzzle, la mia vita, era riuscita male, dovevo essere
contenta di
averla, una vita. E dovevo sorriderle , cercando sempre di migliorarla.
Nota: Quando ho scritto questa ff ero davvero tristissima, scusatemi, ma so che ad alcuni piacciono di più di quelle felici. Spero solo di non avervi intristito troppo e che alla fine vi sia piaciuta un pochino, non chiedo altro! Grazie a tutti quelli che leggono, di cuore <3 *.*