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Autore: SashaJohnson    10/08/2016    0 recensioni
Amo il modo in cui mi sorride. Mi fa sentire tenera.
Amo il modo in cui mi guarda. Mi fa sentire sexy.
Amo il modo in cui mi tocca. Mi fa sentire desiderabile.
Amo il modo in cui mi bacia. Mi fa sentire una brava ragazza.
Amo il modo in cui si stende lentamente sopra di me. Mi fa sentire preziosa.
Amo il modo in cui si china per sfiorarmi con le labbra ogni parte del mio corpo possibile. Mi fa sentire protetta.
Amo il modo in cui mi sussurra cose dolci all'orecchio. Mi fa sentire amata.
Mi sono sempre sentita sexy e desiderabile. E' quello che sono sempre stata negli ultimi due anni. Ma con lui è diverso. Perchè lui non mi fa sentire come la puttanella di turno. Lui mi fa ritornare indietro, a quando ero ancora la piccola di papà, quando c'erano ancora Pete e Jack, quando avevo ancora una famiglia. Matt mi fa sentire come la ragazza che ero due anni fa.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
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5 mesi prima 

“In un modo o nell’altro bisogna iniziare. Alcune persone iniziano facendo partire la giostra, altre facendola fermare. La giostra è intrigante, con le sue luci colorate e le canzoncine che ti entrano in testa facendoti il lavaggio del cervello. Da bambina andai alla fiera con i miei genitori, e ricordo che tra tutte le attrazioni che c’erano volevo provare a tutti i costi la giostra. C’era un cavallo bianco, e io ho sempre amato i cavalli bianchi, ed era vestito come un cavallo principesco, e quale bambina da piccola non ha mai sognato di essere una principessa? Se non ci pensano le favole e le fiabe della buonanotte ci pensano i cartoni della Disney a farti entrare questo malsano sogno in testa. Si, perché è un malsano sogno quello di sperare di poter diventare una principessa. Anche perché, contando quante monarchie ci sono nel mondo, ci sono veramente pochi principi in giro, e purtroppo non tutti sono la Kate di turno che ha la fortuna di capitare nella stessa università del principe William per poi farlo cadere ai suoi piedi e sposarlo. Quando una ragazza, una donna, una bambina, si accorge che non sarà mai una principessa, fa male. Possiamo farvi credere che non ci interessa niente, che tanto lo sapevamo che essere una principessa era solo un’illusione, solo un bellissimo sogno. Ma non è così. Una qualsiasi persona del gentil sesso spera fino alla fine che dietro l’angolo spunti il principe azzurro in groppa al suo cavallo bianco, che lui ti porga la mano e ti porti via con lui, in direzione del grande castello pieno di domestici. Che vita, quella delle principesse. Ecco perché “le altre” odiano le principesse. Perché loro hanno tutti i comfort di questo mondo: un castello enorme, dei domestici che lavorano al suo posto, un marito ricco e bello, un popolo ai loro piedi, e tanti, tanti soldi. Si, soldi. Non credete che i soldi facciano molto? Che i soldi facciano la felicità? Beh, la prima persona ad aver detto una cosa del genere di certo non doveva essere una donna, perché niente rende più felice una donna di un uomo bello e soprattutto ricco. Perché alla fine si potrebbe sorvolare sull’aspetto fisico nel momento in cui l’uomo si rivelasse un ultramiliardario. Insomma, potrebbe essere stempiato, con le rughe sulla faccia e delle pustole schifose sulla schiena e alla donna non importerebbe, non importerebbe perché comunque quell’uomo avrebbe così tanti soldi da poterla mantenere anche quando sarà cibo per vermi. Pensateci bene… Ariel non si è mica innamorata di un marinaio qualunque su quella nave, ma del dolce e bellissimo principe Eric; pensate che Anastasia si sarebbe fatta fustigare e legare come una salamandra se Christian non fosse stato un sexy stramiliardario? E quindi si, i soldi fanno la felicità. I principi fanno la felicità. E scoprire che il mondo è a corto di principi è un colpo basso per il debole cuore di noi donne, e per questo ripieghiamo su uomini che amiamo ma che non ci renderanno mai felici. 

Ma ritorniamo alla giostra. Vidi quel regale cavallo bianco che continuava a girare intorno e decisi che dovevo salirci, che quel quadrupede doveva essere mio. Mio padre allora mi ci fece salire e io mi ci aggrappai con tutta me stessa. E mentre la giostra girava sempre più veloce ciò che mi circondava iniziava a diventare sfocato e diverso, come se stesse subendo una metamorfosi. All’improvviso ero diventata una principessa, con indosso un elegante e lunghissimo abito rosa e una tiara in testa, e le persone che mi circondavano erano il mio popolo: i miei genitori, i miei fratelli, gli altri bambini, gli altri genitori, il ragazzo con i brufoli che stava di guardia alla giostra e il barbone che andava chiedendo in giro qualche spicciolo. Erano tutti miei sudditi e io ero la principessa amata e venerata da tutti. Non ricordo quanti giri feci, ricordo solo che non volevo scendere più, e che piansi quando mio padre mi sollevò di forza e mi portò lontana dal cavallo. Nemmeno lo zucchero filato che mi comprò in seguito mi risollevò il morale. Allora mi promise che ci saremmo ritornati il giorno dopo, che avrei fatto il doppio dei giri. Ma, quando il giorno dopo io e lui tornammo, la giostra non c’era più. Non c’era più niente. Avevano smontato tutto. Mio padre era mortificato, e continuava a chiedermi scusa, sentendosi in colpa per avermi trascinata via dalle giostre e per avermi promesso qualcosa di falso, ma io non ero triste. Già, non lo ero per niente. Perché, quando guardai il punto dove fino al giorno prima c’era montata la giostra, rividi me stessa con la corona e il vestito rosa in groppa ad un cavallo bianco che girava intorno, e un pubblico adorante ai miei piedi. Sorrisi, e trascinai lontano mio padre, convincendolo a comprarmi un gelato. Ero felice, perché avevo capito. Nel profondo del mio cuore lo sapevo: non avevo mai lasciato la giostra.”

Continuo a rileggere l’ultimo tema che ho scritto per il corso di scrittura creativa. Non mi ricordo nemmeno più quale fosse la traccia da rispettare, ma credo di aver centrato il punto, vista la A rossa in alto a destra. Lo rileggo, più e più volte, e non posso fare a meno di pensare che quel tema mi appartiene. Non è uno di quei temi di cui mi vergogno, uno di quei temi in cui non mi riconosco. In questo tema è come se stessi osservando un riflesso di quello che sono diventata. Il cinismo e il sarcasmo sono marcatissimi, soprattutto nella parte in cui parlo dei principi azzurri, che, non per vantarmi, ma è stata una vera genialata. E poi c’è la metafora della giostra, tra l’altro bellamente ispirata da un episodio di Grey’s Anatomy. Già, una metafora. Perché mio padre non mi ha mai portato alle giostre, le credeva troppo rumorose e non adatte alle persone del nostro rango, come se noi fossimo qualche gradino più in alto nella scala sociale. E forse era anche così. Sta di fatto che in realtà io non mi sono mai sentita di appartenere a quel mondo, e invidiavo da piccola tutte le mie compagnette che raccontavano del bel pomeriggio passato alle giostre con i loro genitori, e mi immaginavo al posto loro, seduta su uno di quei cavalli, o magari su una macchinina. Le giostre venivano montate solo durante il periodo di dicembre e agosto. Stavano lì per un mese intero, ad attirare l’attenzione su di sé con i pagliacci, le varie bancarelle, le varie attrazioni per adolescenti, lo zucchero filato, il tunnel degli orrori, la ruota panoramica, il tizio che ingoia il fuoco, il furgoncino ambulante che ti serve gli hot-dog e le patatine… Tutte cose che io ho sempre visto solo nei film. Non ho mai mangiato lo zucchero filato, ne ho mai mangiato un hot-dog dal primo furgoncino ambulante che mi capitava, perché “Tesoro, è una cosa di cattivo gusto”. E quindi ci si comportava sempre come i nostri genitori volevano che ci comportassimo, ed eravamo rinchiusi in questa gabbia d’oro, in questa giostra che continuava a girare e che non finiva mai. Una giostra dalla quale credevo di essere scesa ma in cui sono rimasta ancora bloccata. Perché una parte di Rose è rimasta dentro di me, perché Rose sono io, e Rose avrebbe continuato a dare retta a certe raccomandazioni dei genitori. Per quanto Hailey tenti di staccarsi, di ribellarsi, di opporsi a questa sorta di prigionia, Rose è sempre lì. Questo spiegherebbe perché in due anni io non sia mai andata alle giostre, o a mangiare una schifezza di hot-dog da quei carretti con le mosche che ci girano intorno. Dio, è frustrante parlare di me in terza persona, e soprattutto parlare di me in terza persona con uno sdoppiamento della personalità.

Al mio fianco, Matt ha finito di rileggere il suo tema, che questa volta presenta una A-, al posto della solita A, ma lui sembra pienamente soddisfatto di sé. Lo piega e lo infila in mezzo al quadernetto nero che no, non ho ancora avuto l’occasione di leggere, e mi lancia un sorriso sbilenco. -Vedo che il tema ti è andato bene, come sempre d’altronde.- constata lui accennando al mio voto e al fatto che quei pochissimi temi che Peters ci aveva fatto scrivere mi fossero andati più che bene, con somma gioia di quest’ultimo e di Miss Brent, che ora ogni volta che entro in aula mi guarda come se fosse fiera di me. Io scrollo le spalle in risposta al commento del ragazzo, come a fargli capire che non mi importa più di tanto. E in effetti dovrebbe essere così, non dovrebbe importarmene, ma non riesco a nascondere una punta di soddisfazione nascente dentro di me. -Me ne farai mai leggere uno?- mi domanda avvicinandosi per lanciare un’occhiata a quello che ho scritto. Io mi volto dall’altra parte, ficcando il tema in malo modo nella borsa. Certo che non gli farò mai leggere nulla. O per lo meno nulla del genere, nulla che lo faccia penetrare così dentro la mia anima. E poi io non do senza prima aver ricevuto. Mi volto verso di lui. -Tu mi farai mai leggere il tuo quadernetto?- gli domando indicandoglielo con un cenno della testa. Lui abbassa lo sguardo su quell’oggetto rettangolare, iniziando a torturarne gli angoli, piegandoli e raddrizzandoli, piegandoli e raddrizzandoli. Come se ci stesse pensando su seriamente. Come se la domanda gli stesse divorando il cervello. -Un giorno, forse.- esordisce alla fine, ancora combattuto. Posso sentire le rotelline della sua testa continuare a girare. Io annuisco e proprio in quel momento la campanella suona. “Un giorno, forse”. Quella risposta continua a rimbombare nella mia testa. Quella risposta mi ha dato una minima speranza. “Un giorno, forse.” Mi alzo senza nemmeno salutarlo, perché è così che facciamo noi due, non ci salutiamo se non vogliamo salutarci, e la cosa non ci ha mai dato fastidio. Non siamo amici, no che non lo siamo, non facciamo nulla di quello che fanno dei comuni amici, non ci comportiamo come tali. Non siamo nemmeno una coppia, nè facciamo in modo che qualcuno possa pensarlo. Non siamo neanche conoscenti, anzi, siamo qualche passo avanti. Siamo però in una fase di stallo, una fase che non è amicizia né nient’altro. Una fase del tutto sconosciuta, indefinibile. 

Lo ammetto, dopo averlo mollato ubriaco all’interno della sua auto avevo pensato che lui mi avrebbe odiato e che non avrebbe più voluto rivolgermi la parola, invece lunedì ha provato ad avvicinarmi. E io chiaramente l’ho respinto. Perché avrei potuto accettare un suo rifiuto silenzioso: mi avrebbe fatto male, ma quella sarebbe stata una scottatura che sarei stata in grado di medicare a dovere. Ma non sarei riuscita ad ascoltarlo mentre lui mi accusava di averlo abbandonato quando aveva bisogno di aiuto, proprio come una canaglia; non avrei retto nel sentirgli dire che non voleva più saperne nulla di me. E quindi lo avevo evitato. Per tre giorni interi non lo avevo calcolato minimamente: se provava a fermarmi io mi scansavo subito correndo via, durante le lezioni di letteratura inglese e scrittura creativa lui provava ad avvicinarmi, ma con scarsi risultati. Durante l’ora di pranzo io mi buttavo fuori in cortile con Trevor e Brody, e quando Matt veniva a cercarmi e vedeva che con me c’erano i miei migliori amici ritornava dentro, perché aveva capito che quando c’erano loro era meglio tenersi alla larga da me. Quindi, per tre giorni avevo fatto finta di non conoscerlo, anche se era difficile fare finta che non esistesse, visto e considerato che si trattava di un Adone, e che i miei ormoni fremevano impazziti ogni volta che lo vedevo. Ma, a prescindere, ero stata parecchio brava, e mi ero complimentata più volte con me stessa, dandomi anche delle immaginarie pacche sulla schiena perché si, alla fine ero riuscita a cavarmela. Poi arrivò mercoledì. Ora, molto probabilmente me lo sarei dovuta aspettare, ma da quel poco che conosco Matt non pensavo che lo avrebbe mai fatto. Insomma, l’ho sempre visto come un tipo dolce e carino, incapace di attirarti in luoghi bui e spaventosi. Comunque, mercoledì mattina, un’ora prima del pranzo, mi aggiravo nei corridoi semi deserti per dirigermi, in ritardo come sempre, alla lezione di miss Brent, e lo avrei fatto, se non fosse stato per Matt che da dietro mi aveva presa per le spalle e condotta dentro lo sgabuzzino dei bidelli prima ancora che io potessi anche solo emettere un suono o reagire. Ora vi domanderete: come è possibile che io glielo abbia permesso? Onestamente non lo so. In quel momento ho dato la colpa alla mia distrazione, perché si, ero letteralmente distratta, la mia mente era troppo presa a pensare al niente più assoluto. In un secondo momento avrei potuto giustificare la mia non-reazione dicendo che in fondo aspettavo che lui uscisse un po' dal guscio e reagisse in quella maniera. Ora come ora l’unica risposta sensata che vi so dare è che non ne ho la più pallida idea. So solo che, senza se e senza ma, mi feci trascinare all’interno di uno di quegli sgabuzzini, che era uno dei posti più squallidi della scuola, e più volte mi ero ripromessa di non fare sesso con qualcuno lì dentro. Ma l’idea di me e Matt soli lì dentro mi eccitava, e non poco. 

Comunque, avevo ancora il mio orgoglio da difendere, quindi, una volta lì dentro, mi scatenai contro di lui. -Che diavolo ti è preso?- gli urlai, cercando di scansarlo, senza riuscirci. Dio, odiavo la mia bassa statura e la mia incapacità nello spostare cose e persone più grandi di me. -Perché?- chiese lui solo, senza provare nemmeno a difendersi. -Perché? Perché te lo dovrei chiedere io! Mi hai trascinata in questo buco senza neanche lasciarmi il tempo di protestare! E ti definisci un gentiluomo? Ma vaffanculo!- gli ringhiai contro. Lui mi prese delicatamente per le spalle, e il suo tocco mi fece rabbrividire, tenendomi saldamente ferma. -Perché mi eviti da giorni?- mi chiese, questa volta entrando nello specifico. Rimasi di sasso. Pensavo volesse sapere come mai lo avessi abbandonato nel momento del bisogno, ma a quanto pare non era questo che gli premeva. Io mi divincolai, allontanandomi da lui. -Pensavo fosse ovvio.- gli risposi riparandomi dietro le mie braccia prontamente incrociate al petto. Lui mi fissava intensamente, proprio come se stesse cercando di scavare dentro di me. -Ti riferisci al giorno della festa?- mi chiese ancora. Io abbassai lo sguardo, imbarazzata, incapace di affermare le sue supposizioni. -Senti, a proposito di quello…- iniziai io, e stavo per dirgli che mi dispiaceva, che avevo fatto un errore, che avevo sbagliato a portarlo lì e che una cosa del genere non sarebbe più accaduta. Ma prima che potessi continuare, lui mi aveva interrotta. -Grazie.- aveva detto. Se a me costava una forza immane chiedergli scusa, a lui era sembrato quasi una liberazione. Come se si stesse tenendo questa cosa dentro da troppo tempo. Ma non fu questo a sorprendermi, tanto più quello che disse. -Grazie?- ripetei sbalordita. Lui annuì. -Si. Grazie per avermi accompagnato a casa dopo essermi ubriacato. E grazie anche per avermi portato alla festa.- L’ultima frase la disse come se fosse una sorpresa pure per lui. Io lo guardavo scioccata, incapace di credere che lui mi stesse ringraziando per averlo portato ad ubriacarsi. -Mi stai seriamente ringraziando per averti portato in un covo di drogati e ubriaconi dimenticati dal mondo che ti hanno fatto sbronzare a loro volta?- gli chiesi scettica appoggiando le mani sui fianchi. Lui sorride, grattandosi la nuca. -Certo, detta in questa maniera sembra una cosa abbastanza brutta.- disse. Da dietro le lenti spesse degli occhiali, i suoi occhi emettevano un calore lieve, come un fuocherello che deve ancora accendersi per bene. Dio, avrei voluto vedere un incendio divampare in quegli occhi. Avrei voluto vedere quelle fiamme far ardere l’occhio castano, mentre il ghiacciaio dell’occhio sinistro si scioglieva in una pozza profonda d’acqua. -Ma è stato divertente.- continuò  lui. “No, non è stato per niente divertente, non mentre vomitavi, né tantomeno quando ti ho dovuto riaccompagnare.” Pensai, ma non lo dissi. Piuttosto lo guardai con un sopracciglio inarcato. -Divertente? Credi che sia stato divertente? Di grazia, cosa ti ricordi di quella serata?- gli domandai con fare saccente, alzando il mento, aspettandomi già un’ovvia risposta. -Non molto a dire il vero.- rispose lui con un certo imbarazzo, e io sorrisi soddisfatta. -Ricordo di aver bevuto, e poi i visi sfocati della gente mentre cantavo “We are the champions” dei Queen.- disse con un sorriso. Sorrisi anch’io al ricordo. Certo, mi ero incazzata di brutto quando lo avevo visto sui tavoli che cantava a squarciagola rovinando un pezzo della storia della musica, ma ripensandoci era stata una scena molto comica, soprattutto per quelli che erano gli standard di Matt. -Poi ho un vuoto di memoria.- continuò. Dentro di me tirai un sospiro di sollievo. Non volevo si ricordasse di avermi quasi vomitato addosso, né tanto meno il profondo monologo sulla vita che avevo fatto davanti a casa sua mentre lo credevo un moribondo incapace di intendere e di volere. Ma queste furono chiaramente le ultime parole famose. -Ricordo un’ultima cosa.- disse, iniziando ad avvicinarsi. I passi erano cadenzati, felpati e lenti. Organizzati. Come se mi stesse dando il tempo di realizzare quello che stava facendo, come se volesse dire “Ora mi avvicinerò a te e tu non devi avere paura”. Come se lui fosse il cacciatore e io la preda. Io non ero mai stata la preda, ma la cacciatrice, la volpe che affonda i denti nel collo del povero coniglio. Ma il tempo di realizzare questi pensieri che lui si era già avvicinato a me. In quel momento pochi centimetri ci separavano. Mi sarebbe bastato fare un passo per ritrovarmi con la faccia schiacciata contro il suo petto, e a quel punto mi sarebbe bastato fare il piccolo sforzo di alzarmi in punta di piedi per baciargli il collo, il pomo di Adamo, mordicchiargli leggermente il punto in cui la carotide era ben visibile, proprio come una cacciatrice con la sua preda. Ma non ero io la cacciatrice, e lo sapevamo entrambi. Quella volta era lui ad avermi in pugno, e forse la cosa gli andava anche a genio. -Ricordo…- iniziò a dire, sollevando la mano in direzione del mio viso, ma non seppi mai cosa ricordava. Mentre i suoi occhi magnetici mi tenevano incatenata a lui la porta dello sgabuzzino si aprì, facendomi sobbalzare indietro, facendo così cadere i vari scopettoni. Ad aver aperto era stato il signor Oh, il bidello cinese che viveva in America da dieci anni e che solo da quest’anno lavorava con noi. Tutte le scuole della nazione se lo stavano passando, perché nessuno sembrava volerlo veramente. -Ah, blutti lagazzini! Andate via! Queste polchelie a casa vostla! Schifo, schifo, schifo!- iniziò ad urlare, mandandoci fuori a suon di colpi di scopa, che finirono tutti in testa a Matt dato che io, ingegnosamente, mi ero riparata dietro a lui.

Corremmo via, ridendo come dei malati, questa volta senza tenerci per mano e quando ci fermammo fuori, nel cortile, ridevamo ancora, nonostante fossimo a corto di fiato. Ci guardammo ancora una volta negli occhi, e capimmo (forse non so lui, ma io lo capii sicuramente) che era nata una certa complicità tra di noi, come una sorta di magia estatica. Passammo il resto dell’ora a parlare del più e del meno, anche se nessuno dei due toccò mai l’argomento famiglia. Lui mi disse che sognava di andare ad Harvard per diventare un chirurgo, come sua madre; io di contro gli risposi che come una sbandata come me non aveva tempo per sognare e fare progetti, ma che piuttosto preferivo vivere alla giornata. Arrivò la pausa pranzo, e noi rimanemmo ancora seduti sul muretto, il mio muretto, a parlare. Non mi ero neanche resa conto di averlo portato nel mio posto speciale, ma era stata una cosa talmente naturale da sembrare giusta. Forse Brody e Trevor vennero a cercarmi, non lo so, so solo che non li vidi neppure per quell’ora. Nel frattempo Matt mi raccontava delle poche marachelle che faceva da bambino, come quando da piccolo aveva chiuso a chiave la maestra nel ripostiglio della scuola, e io ribattevo che invece i miei ricordi d’infanzia erano parecchio offuscati. Ovviamente non era vero. Avevo solo ricordi belli della mia infanzia, fatta eccezione per quei momenti in cui mi sentivo prigioniera, e mi faceva male ricordare i bei tempi ormai andati. Continuavo a ripetermi che se me li fossi immaginata sfocati, questi ricordi alla fine sarebbero diventati tali, ma ancora non era successo. Con il suono dell’altra campanella ci ridestammo, e sempre parlando ci recammo all’ora di educazione fisica, e dopo all’ora di scrittura creativa. C’erano argomenti che entrambi volevamo evitare e che abilmente cercavamo di sviare: infatti, così come lui aveva sviato il tema del divorzio, io ero riuscita a sviare il tema dell’omosessualità, e questo solo perché entrambi avevamo consentito all’altro di farlo. Ognuno accettava che l’altro avesse dei segreti, e questa cosa mi piaceva. Quando arrivammo al parcheggio della scuola, una volta finite le ore di lezione, mi accorsi che i nostri argomenti di conversazione non si erano esauriti. Anzi, era come se ne cercassimo sempre di nuovi, ed è questa una di quelle cose che ricordo con piacere di quella giornata. Con lui potevo continuare a parlare senza problemi. Arrivati alla mia Jaguar avevo già appreso che il suo colore preferito era il verde, che ascoltava musica jazz, che aveva visitato più posti di quanti volesse e che il suo film preferito era Forrest Gump; lui di contro aveva appreso che il mio colore preferito era il nero, che ascoltavo le band rock anche se nascondevo un amore segreto per la musica country, che avevo visitato veramente pochissimi posti perché secondo i miei genitori “nessun posto è più bello di casa mia” e che il mio film preferito era L’attimo fuggente. Alla fine fummo costretti a fermarci, altrimenti non avremmo più spesso di parlare. Lui mi passò un bigliettino, prima di dirigersi in direzione della sua Volvo, con sopra scritta una serie di numeri. “Il mio numero. La prossima volta che vuoi portarmi ad una festa avvisami ”. Tenevo ancora quel bigliettino dentro il cruscotto della macchina, nonostante avessi memorizzato il suo numero sul cellulare e avessi trascorso le ultime due notti sveglia nell’indecisione di chiamarlo o meno. Alla fine non lo avevo chiamato, perché non mi sarei comportata come una di quelle ragazzine che muoiono dietro a qualcuno. Perché io ero Hailey Thomas, ed Hailey Thomas non corre dietro a nessuno. Era questo il mantra che continuavo a ripetermi, insieme a quello secondo cui tutto ciò che facevo con Matt era per quella scommessa contro me stessa. Il poveretto era un giocattolino nelle mie mani. 

Per questo motivo oggi cerco di tenerlo a debita distanza e di essere più fredda e distaccata con lui. Ho bisogno che lui creda che tra noi non sia cambiato nulla. Non deve pensare che può avere un potere su di me. Ma la sua risposta “Un giorno, forse” continua a ronzarmi in testa anche mentre sono dentro la Jaguar diretta a casa mia. Questo vuol dire che ho qualche possibilità di prendere in mano quel libriccino e di poter controllare cosa ci ha scritto in queste settimane. L’idea mi rende parecchio nervosa ma entusiasta allo stesso tempo. Arrivo a casa, e smontando dalla mia Jaguar noto che in cortile non ci sono le macchine dei miei genitori. Mio padre sarà sicuramente con gli altri membri del circolo di golf, mentre mia madre col suo club del libro, o meglio ancora “club per donne represse che cercano l’amore in figure mitologiche come quella di Mr. Darcy perché no, non esisterà mai nella vita reale qualcuno come Fitzwilliam Darcy”. Entro in camera e mi butto sul letto, leggendo poi i messaggi che mi sono arrivati sul gruppo di whatsapp. 
“Ehy ragazzi, oggi festa?” Propone Richie sul gruppo del Devil’s Knot.
“Come sempre, amico” A rispondere è Brody.
“Perfetto, io porto la roba.” Richie.
“Non ti azzardare. Oggi viene pure Lexie.” Trevor.
“Ma non doveva venire già la scorsa settimana?” Carrie
“Si.” Trevor
“E non avevate litigato?” Brody 
“Si, ma abbiamo fatto pace.” Trevor
“Uffa, e io che credevo di averti tutto per me!” Fanzie 
“Va bene fratello, uscirò la roba quando lei se ne sarà andata. Ce lo avrà pure un coprifuoco la principessina, giusto?” Richie
“Non ti preoccupare Richie, ti lasceremo il tempo di strafarti a dovere.” Trevor
“Grazie bro, perché mi capisci.” Richie 
“Ma vaffanculo!” Trevor. 
Alzo gli occhi al cielo, leggendo quella discussione. Già, Lexie e Trevor a quanto pare avevano chiarito le cose. Lei durante il weekend si era accorta di aver commesso una grande cazzata nel lasciarsi scappare qualcuno di meraviglioso come Trevor e allora era andata da lui per rimettere le cose a posto. Non so di preciso cosa sia successo tra loro due, perché non avevo per niente voglia di farmi raccontare nel dettaglio i loro atti d’amore, ma da domenica sera sono una coppia ufficiale. Certo, lui non ha conosciuto i genitori di lei e viceversa (che cavolo, sono passati solo 5 giorni), ma almeno non si trovano più in quella “fase di stallo”, così la definiva Trevor. Bene, se ci sarà questa Lexie questo vorrà dire che Trevor passerà la maggior parte del tempo con lei, e io non ho voglia di stare a guardare. Certo, ci penserebbero gli altri, soprattutto Brody a tenermi compagnia e a farmi distrarre, ma so che stando con loro finirei per mostrare il lato più cattivo di me, che poi è la me di sempre. Ma Trevor mi ha fatto più volte capire quanto ci tiene a questa ragazza, e gli ho promesso che il giorno che me l’avrebbe presentata mi sarei comportata bene. Quindi, ho bisogno di qualcuno che sappia a tenere a freno la mia parte malvagia, qualcuno con cui poter fare buon viso a cattivo gioco. E c’è solo una persona in grado di farlo. 
“Stasera festa” gli scrivo dopo essermi presa di coraggio. Passano cinque minuti, cinque minuti in cui sto nell’ansia più totale perché non so se mi risponderà, e poi finalmente mi arrivo un messaggio di risposta. 
“Sei Hailey, vero?” mi domanda con uno smile che fa l’occhiolino. Io sospiro.
“L’unica e sola.” 
“Ok, quindi stasera festa. Passi a prendermi tu?”
“Si, e stavolta guido io.”
“Sissignora”
“Perfetto. Sempre al Devil’s Knot?
“Sempre al Devil’s Knot.”
“Perfetto.”
“Matt, vedi di non ubriacarti questa volta” Ora sono io a mandargli lo smile con l’occhiolino e l’emoticon verde che vomita. 
“Va bene, mamma!” mi risponde lui poco dopo.
“Forse pioverà.”  Lo avviso, vedendo dalla finestra i nuvoloni neri che si stanno avvicinando.
“Tanto non dobbiamo stare fuori, giusto?” 
“Giusto” 
Stringo il cellulare tra le mani all’altezza dello stomaco, che mi si è improvvisamente chiuso, mentre le mie dita si arricciano al pensiero di me e Matt al Devil’s Knot questa sera. Chiudo gli occhi e inevitabilmente penso a lui. Penso a tutte le cose che ho imparato sul suo conto negli ultimi giorni. So che quando affrontiamo un argomento spiacevole lui distoglie lo sguardo da me, e fissa un punto indefinito dello spazio che ci circonda; se è nervoso inizia a battere il piede per terra a tempo di una qualche canzone che canticchia fra sé e sé; quando e ansioso inizia a torcere la prima cosa che gli capita tra le mani, dura o molla che sia; quando è entusiasta gli si illumina il viso con quel sorriso strepitoso che ogni volta mi toglie un battito e che mi fa fremere da capo a piedi. Ho trascorso gli ultimi due mesi a osservarlo, a cercare di capire qualcosa di più di lui, e credo che alla fine me lo abbia permesso. Insomma, nonostante cercassi di non farmi scoprire era palese il mio guardarlo ostinatamente, e quindi penso che lui se ne sia accorto, e che alla fine me lo abbia consentito. Riprendo il cellulare tra le mani e scrivo sul gruppo che porterò un amico. 
“E di chi si tratta?” Brody
“Matt.” Io
“Intendi Queen?” Richie. Lo ha ribattezzato Queen dopo la sua performance con “We are the champions”, cosa che io trovo alquanto ridicola, ma non posso impedire a Richie di inventare soprannomi a destra e a manca. 
“Sul serio Hailey, dopo l’ultima volta?” domanda Brody, e mi sembra un po' incazzato.
“Questa volta lo terrò d’occhio.” Lo rassicuro io.
“Brody, amico, non rompere. Queen è stato una forza l’altro giorno.” Richie. 
“Fermi un secondo… chi diavolo è Matt?” Fanzie.
“Non te lo ricordi? L’amico stupido di Hailey che si è messo a cantare una canzone dei Queen” Brody
“Non è stupido!” Io.
“No, non ricordo…” Fanzie. 
“Dai, Fanzie, ti ci sei strusciata contro di brutto!” Richie.
“Mh… ora che ci penso ricordo una notevole… presenza.” Fanzie
“No mia cara, quello ero io!” Big Jim, che nel gruppo su whatsapp è quello che spunta all’improvviso. 
“Bleah, che schifo” Fanzie. 
Chiudo la conversazione esasperata per mandar un ultimo messaggio a Matt, dove gli raccomando di farsi trovare pronto per le 9, dopo di che lascio il cellulare sul comodino e mi dedico alla mia siesta pomeridiana. 

Quando alle 9:15 arrivo davanti a casa di Matt lo trovo fuori dalla veranda che mi sta aspettando. E’ bellissimo, come sempre. Indossa una camicia bianca con le maniche arrotolate fino ai gomiti, un paio di pantaloni marroni chiari e delle Timberland. I capelli sono portati disordinati come sempre, così qualche ciuffo gli ricade sugli occhi, protetti come al solito da quegli occhiali tremendi. Sogghigno, immaginandomi la faccia che far quando vedrà cosa gli ho portato. Mi fermo e lui entra in macchina. -Alla buon’ora.- mi saluta sedendosi sul sedile passeggeri. Io sorrido. -Regola numero uno per conoscere una donna: se lei ti dà un orario, tu aspettati sempre almeno 15 minuti di ritardo.- lo rimbecco, accendendo la macchina e lasciando andare la frizione. Da dentro casa spunta la madre di Matt che ci saluta con un gesto della mano. Imbarazzata abbasso lo sguardo e ricambio, imitando Matt. Una volta lasciataci alle spalle casa di Matt mi lascio andare. -Piaci a mia madre.- dice lui, mentre io aumento la velocità. -Sul serio?- domando stupita, vista la mia fama di “ragazza poco raccomandabile”. -Si, anzi a questo proposito…- inizia lui, leggermente in imbarazzo. Glielo leggo dalle sue guance che stanno improvvisamente prendendo colore. -Cosa?- gli chiedo incuriosita. -Beh sai, non ho molti amici, e io e mia madre siamo sempre soli a casa. Quindi lei voleva sapere se ti andava di passare il ringraziamento con noi.- dice lui, senza mai guardarmi, ma tenendo lo sguardo fisso sul cruscotto. Io mi irrigidisco sul sedile, cambiando bruscamente marcia mentre svolto a sinistra. Non festeggio il ringraziamento, Natale o Capodanno da quasi due anni ormai. Non ho mai avuto motivo di festeggiare qualcosa. Niente ha più senso senza i miei fratelli. -Non lo so…- dico io stringendomi nelle spalle. Non voglio dargli un “no” secco, ma non voglio nemmeno lasciargli credere che possa avere una speranza. -Lo capisco, se non vuoi venire.- dice subito lui, come se volesse tranquillizzarmi, come se avesse avvertito il mio cambiamento di umore, nonostante non si sia mai girato a fissarmi. Io non dico nulla, e per tutto il tragitto rimanente fino al pub rimaniamo in silenzio, ascoltando il disco country che ho in macchina. Una volta arrivati lui fa per scendere, ma io lo blocco. -Mettiti queste.- gli dico prendendo dal cruscotto il pacchetto di lenti a contatto che gli ho comprato. Lui le guarda scettico. -Lenti a contatto? Sul serio?- mi domanda squadrandole. -Non fare storie. Se vuoi uscire con me devi toglierti quegli occhiali orrendi.- lo rimprovero io, sbattendogli sotto al naso il pacchetto. Lui lo guarda e dopo aver sbuffato lo prendo tra le mani. So quanto detesti i suoi occhi, e so che forse gli stia costando uno sforzo psicologico tutto ciò, per questo decido di scendere dalla macchina e di lasciargli cinque minuti da solo.

Quando ha finito sento lo sportello sbattere e mi giro verso di lui. Non indossa più gli occhiali, e l’effetto che le lenti a contatto hanno sui suoi occhi è incredibile. E’ come se li avesse resi delle pozze liquide di colore, un colore caldo e avvolgente. Anzi, in questo caso due colori. Lo osservo meglio, alla luce del lampione, e noto che il leggero strato di barba che aveva questa mattina è sparito, facendo spazio alle sue mascelle lisce. E’ un peccato, perché quel velo di peluria sul viso gli dà un’aria ancora più mascolina, ma è inutile dire che è sempre bello. Il suo petto si abbassa e si alza un po' più leggermente del normale, forse perché teme nella reazione degli altri. Io gli sorrido rassicurante. -Ecco, così va meglio.- io dico, avvicinandomi. -Sicura? E se mi trovano strano?- mi domanda lui in apprensione. Io lo prendo a braccetto, conducendolo verso l’interno. -Ti svelo un segreto: al Devil’s Knot siamo tutti un po' strani.- e detto questo gli lancio di sbieco un sorriso malizioso. Una volta dentro, nessuno ci accoglie. E’ tutto normale. Big Jim è sempre seduto al tavolo da gioco; Fanzie fuma una sigaretta strusciandosi su dei ragazzi che non ho mai visto (dei poveretti che saranno capitati lì per caso); Carrie e Garret sono impegnati a giocare a biliardo e Brody è seduto al bancone pronto a bere una birra. Conduco Matt lì vicino, ondeggiando i fianchi al ritmo di “Whole lotta love” dei Led Zeppelin. Arrivati ci sediamo entrambi e io mi tolgo la giacca di pelle nera, iniziando a sentirmi già accaldata. Quando lo faccio, Matt spalanca gli occhi. Già, forse prima non lo aveva notato, ma indosso qualcosa di abbastanza provocante, giusto per far colpo su di lui e non su quella Lexie: ho indossato dei pantaloncini con dei collant neri e degli stivaletti dello stesso colore; sopra sono coperta solo da un top verde petrolio che tra l’altro mi lascia scoperta la fascia di pelle che comprende l’ombelico. Gli lancio un altro sorriso malizioso, gettando indietro i capelli (che hanno urgente bisogno di una tinta) e lasciando così che mi ricadano indomiti sulle spalle. Sto cercando di sembrare una dea del sesso? Probabile. Anzi, sicuramente. Noto che la stessa espressione da pesce lesso di Matt si è dipinta pure sul viso del mio migliore amico. -Ti piace quello che vedi?- chiedo al biondo sedendomi su uno sgabello. Lui si riscuote (cosa che Matt ancora non fa) e scrolla le spalle. -Non molto, a dire il vero.- mi risponde, sorseggiando ancora la sua birra. -Da come mi guardavi, non sembrava.- rispondo, e lancio un’occhiata languida in direzione di Matt, che finalmente si è ripreso e sta origliando bellamente la conversazione. Dal retro del locale spunta Richie, reggendo tra le bracci esili una cassa di alcool. -Hailey, dolcezza!- mi saluta con un gesto fiacco della mano. -Ehy, Rich.- dico solo. Lui posa sotto il bancone la cassa e poi si volta a guardare Matt. -Bella, Queen! Come butta?- dice appoggiandosi al bancone con un gomito. Matt lo guarda senza capire, mentre io alzo gli occhi al cielo. -Dopo l’ultima volta Richie ha deciso di ribattezzarti Queen, e quando Richie ti dà un soprannome è fatta, non si torna più indietro.- gli spiego io. Matt annuisce, e poi si gira verso di me. -Tu che soprannome hai?- mi chiede. -Niente soprannomi. Richie non ha ancora avuto le palle per darmene uno.- rispondo con una scrollata di spalle. -Tesoro, tu fai paura, e a proteggerti ci sono due scimmioni come Trevor e Brody, è ovvio che non ti ho dato un soprannome. Ci tengo al mio bel visino.- dice lui, muovendo la testa in maniera abbastanza vanitosa e femminea. -Queen sa molto da gay, sai?- esordisce Brody ad un certo punto, dopo aver buttato giù tutto quello che rimaneva della sua birra. Matt fa per aprire bocca, ma io lo precedo, infastidita dal commento pungente del mio amico. -E allora?- gli chiedo aspramente. Brody mi guarda, stupito che stia prendendo le difese di qualcuno. A me non importa che l’offesa sia stata rivolta a quel ragazzo, ma è stato il commento in sé che mi ha fatto imbestialire. Lui non dice nulla, forse per non perdere la dignità, e poi si dirige al tavolo da biliardo, da Carrie e Garret. -Non dovevi…- inizia Matt, ma io lo zittisco alzando una mano. Mi massaggio le tempie, con la testa che sembra volere scoppiare. -Senti, perdonalo. Non è sempre così, o almeno non con tutti.- gli dico, lanciando un’ultima occhiata in direzione del mio migliore amico che nel frattempo non ci ha tolto gli occhi di dosso. -Quindi da questo devo dedurre che gli sto palesemente antipatico.- dice lui, buttandola sul ridere. Io mi limito a sorridere e annuisco. -Oh quanto adoro queste scene. Ok, cosa vi porto ragazzi?- chiede Richie, del quale ci eravamo dimenticati completamente. -Niente per ora.- rispondo parlando pure per Matt che ha promesso di non toccare un solo goccio d’alcool. -Sicura di voler affrontare la cosa senza un po' di birra in circolo?- chiede Richie prendendo la pinta vuota di Brody. -Ce la posso fare.- gli dico, mentre lui pulisce il bancone. -Fa come vuoi. Poi ci sei per il solito giro della roba?- dice lui con tranquilla non calanche. Io mi irrigidisco, guardandolo torva, perché questa volta non posso sperare che Matt non abbia sentito. Pure un sordo lo avrebbe fatto. -Non lo so.- rispondo, poi volto le spalle per fargli capire che la conversazione è chiusa. Dopo un minuto, un minuto in cui non sono in grado di girarmi in direzione di Matt per l’imbarazzo, lo sento avvicinarmisi. -Non devi trattenerti perché ci sono io. Comportati come hai sempre fatto.- mi dice lui. Lo sento avvicinarsi ancora fino a quando non siamo spalla contro spalla, anche se la sua è più grande della mia. Lo guardo, stupita da quello che ha detto. -Davvero? Non ti importa minimamente? Non te ne esci con qualcosa della serie “la droga fa male”?- gli domando. Lui alza le spalle. -Credo di non poter fare nulla a riguardo.- mi risponde calmo. Poi si gira a fissarmi, con uno sorrisetto ironico. -Ma tu lo sai che la droga fa male, vero?- mi domanda. Io, con un sorriso altrettanto ironico, gli faccio il dito medio. Rimaniamo un po' in silenzio, muovendo entrambi i piedi a tempo di musica, dopo di che lui domanda: -Richie ha detto che ti sarebbe servito dell’alcool per affrontare la cosa. Quale cosa?- mi domanda. Io sbuffo. -Trevor oggi porterà qui la sua ragazza, Lexie. Quando l’ho saputo non l’ho presa tanto bene. Per questo sei qui.- gli spiego stringendomi nelle spalle e incrociando le braccia al petto. -Io? Cosa c’entro io?- chiede, sorpreso. -Con te riesco a tenere a bada la mia parte peggiore.- gli rispondo soltanto, senza guardarlo. Non tocchiamo più l’argomento, e passiamo la restante mezz’ora a parlare dei vari tizi del Devil’s Knot, di come li ho conosciuti e dei miei rapporti con loro. Gli sto giusto raccontando di quella volta quando Big Jim si è finto il padrone di Fanzie per farsi dare dei soldi da uno che era andato a letto con lei, quando da fuori arriva Brody (che nel frattempo era uscito per andare a fumare, nonostante la pioggia) e urla: -Sono arrivati!- come se a qualcuno importasse. Di fatti tutti fanno spallucce e riprendono a fare quello che stavano facendo e io mi volto verso il bancone, dando le spalle all’entrata. -Sei pronta?- mi chiede Matt. Si è girato pure lui. -Per niente.- dico io passandomi le mani tra i capelli.

 La porta del locale sbatte, e capisco che Trevor è entrato. Sento tutti gli altri salutarlo, facendo dei commenti di apprezzamento alla biondina (BIONDINA! PURE BIONDA SE L’E’ CERCATA!). Ad un certo punto li sento dietro di me. -Ehy, Hailey!- dice Trevor. Io respiro profondamente, mettendo su il sorriso più finto che si sia mai visto sulla faccia della terra, sorriso che scompare immediatamente quando, insieme a Matt, mi giro nella loro direzione. A sinistra c’è Trevor, alto come sempre e fresco di doccia, con un sorriso che gli illumina la faccia. A destra c’è Lexie. La sua Lexie. La MIA Lexie. Già, la Lexie che si presenta davanti a me non è una sconosciuta, ma la mia ex migliore amica. Quella verità mi arriva forte come uno schiaffo in pieno viso. Mi raggelo, mentre non posso fare a meno di guardare la ragazza, con la bocca aperta a O e un magone che mi si sta formando in gola. Porta dei lunghissimi capelli biondi perfettamente lisci, e una frangetta perfettamente dritta che le copre tutta la fronte; i suoi occhi verdi sono contornati da un sottile strato di mascara, e le sue labbra piccole a forma di cuore sono rosee; indossa una gonna che arriva al ginocchio, con dei collant bianchi e delle ballerine nere, mentre la camicetta bianca che indossa è leggermente sbottonata. E’ proprio come me la ricordavo. Solo i suoi lineamenti sono diversi, più marcati e maturi, ma per il resto è uguale a due anni fa, l’ultima volta che l’ho vista. Lei invece stenta a riconoscermi. All’inizio mi guarda incuriosita, proprio come si guarda un’estranea che continua a fissarti, poi i nostri occhi si incrociano, verde contro verde, e anche lei mi riconosce. Non mi stupisce che non mi abbia riconosciuta subito. Io stessa non mi riconosco più nella persona che ero due anni fa. -Rose…- sussurra solo, e con quel sussurro è in grado di riportarmi indietro, all’ultimo giorno che l’ho vista. “Mi dispiace…” aveva detto, prima che io la cacciassi da camera mia. Scuoto la testa, cercando di non pensarci, cercando di sotterrare quei ricordi. -No, Lexie. Lei è Hailey, la mia migliore amica. Ti ho parlato di lei.- le dice Trevor circondandole le spalle con un braccio, ma lei non risponde. E’ immobile di fronte a lui, più come una bambola di pezza attaccata al muro che come una statua. Qui la statua di ghiaccio sono io. -Rose…- ripete di nuovo lei, gli occhi che le si stanno inumidendo, e più ripete il mio vecchio nome, più i ricordi cominciano a tornare a galla. Guardo tremante di rabbia prima lei, poi Trevor, incazzata con entrambi, con me stessa e con il destino, perché qualcuno deve volermi per forza male. -Andate al diavolo, tutti e due.- ringhio per poi spintonarli entrambi e uscire dal locale. Sento più voci chiamare il mio nome, Hailey, mentre non sento più Lexie. In realtà, non sento più niente. Sotto la pioggia incessante corro a perdifiato in direzione della foresta. Il rumore dei tuoni e la pioggia che batte contro le foglie degli alberi rende tutto ovattato nelle mie orecchie. Sento ancora quel nome, quel dannato nome… 

“-Rose! Rose apri la porta!- E’ Lexie, che continua a bussare. E’ arrivata da un quarto d’ora e ancora non se ne è andata. Non ho la minima intenzione di aprirle, non voglio che mi veda ridotta in questo stato. -E’ inutile che fai così, tanto io di qui non mi muovo!- dice ancora lei irremovibile. Lentamente mi alzo dal letto e vado ad aprirle. Ora è davanti a me, qualche centimetro più alta, con i lunghi capelli biondi legati in una coda e la frangetta che le copre le palpebre. -Ehy.- dice solo. Io non dico nulla, ma la faccio entrare ed entrambe ci stendiamo sul letto. Immagino quello che lei sta vedendo in questo momento: una povera disperata che in questo momento vorrebbe soltanto morire. Ho i capelli pieni di nodi ed arruffati, gli occhi rossi di pianto, il naso gonfio e gocciolante, e vivo dentro al mio pigiama a forma di Winnie The Poo da giorni ormai, senza nemmeno una cavolo di doccia e senza nemmeno aver mangiato. -Sto uno schifo.- con la voce arrochita dal troppo singhiozzare. -Sh, va tutto bene.- mi dice lei. No, non va tutto bene. Lei non può capire, nessuno potrà mai capire. Ho perso i miei due fratelli, le persone a cui volevo più bene le ho perse, ma questo lei non lo saprà mai. Prende il mio computer portatile, se lo mette sulle gambe e fa partire Mean Girls. Adoro quel film, ma non sono in vena di ridere in questo momento. So che lo fa solo per tirarmi su di morale, ma proprio non ci riesco a ridere di fronte alle battutine acide e da stronza di Regina George. Quando il film finisce, lei richiude il computer e lo poggia sul comodino. -Promettimi che almeno tu non mi lascerai mai.- sussurro poggiando la testa sulla sua spalla. La sento sospirare. -A questo proposito…- dice lei, ma io la interrompo alzando lo sguardo su di lei, assottigliando lo sguardo mentre altre lacrime iniziano a salire. Una vocina dentro di me dice che devo mandarla via, che non devo sentire quello che lei ha da dirmi, ma non lo faccio, non le do retta. -Rose, io e la mia famiglia ci trasferiamo.- dice lei tutto d’un fiato, come se le stessero togliendo un cerotto. Io rimango ferma, immobile, mentre sento che qualcosa, l’ultima parte di me, mi viene strappata via dal petto. Tutto ciò che nella mia vita era una costante indissolubile e indistruttibile è andato in pezzi. -Come puoi farmi questo? Dopo tutto ciò che è successo…- sussurro, mentre una lacrima silenziosa scende sulla mia guancia. -Mi dispiace. Hanno offerto un lavoro a mio padre a Boston e lui ha accettato. Lo so da giorni ormai…- dice ancora. Scuse, scuse su scuse. Le persone non sanno fare altro che scusarsi inutilmente. Smetto di fissarla e mi asciugo furiosamente quella lacrima. -Vattene via.- dico piano. -Rose…- sussurra lei, cercando di farmi cambiare idea, ma non ci riuscirà. -Và via.- ripeto a voce più alta. Sono dura, la mia voce è atona e piatta, priva di qualsiasi sentimento. Lei si alza e si avvicina alla porta. Prima di uscire sussurra un altro ‘mi dispiace’ prima di uscire, portandosi dietro la porta, portandosi dietro l’ultima parte di me. Dopo di che rimango sul letto, mentre le lacrime ritornano a scorrere copiosamente sul mio viso, e dentro sento di essere spezzata in due”

I ricordi si affollano dentro di me, mentre continuo a correre, le mie lacrime che si confondono con la pioggia. Ricordo Lexie, che ritornò una seconda volta prima di partire per lasciarmi un biglietto con su scritto che sarebbe partita la settimana seguente e che voleva che la andassi a salutare. Bruciai il bigliettino e non ci andai. Lo stesso giorno in cui lei montava in macchina, pronta per andare a Boston, io ero nel retro di casa mia, a fare un falò. Avevo dato fuoco a tutte le foto di me e Lexie, insieme a quelle di me e i miei fratelli. Volevo dimenticare tutto quanto, dovevo dimenticare le persone che mi tenevano ancorata a quella parte di me debole che si era persa, dovevo dimenticare le persone che mi avevano lasciata. Si, perché tutti ti lasciano prima o poi. E Rose era troppo ingenua e stupida per capirlo. Corro, corro, e corro. Per scappare da tutto e da tutti: dal mondo, da Lexie, dal dolore, da me stessa. Sono così impegnata a correre e a cercare di dimenticare che non sento dei passi attutiti dietro di me, e pochi secondi dopo qualcuno mi afferra per il polso e mi fa voltare. Mi aspetto di trovarmi Trevor, Brody, perfino Lexie, di certo non mi aspetto di trovarmi lui. Matt sta davanti a me, con il petto che si abbassa e si alza velocemente contro la camicia che ormai gli fa da seconda pelle, talmente tanto aderisce contro il suo petto. Io non dico nulla, troppo stupita nel ritrovarmelo davanti mentre continuo a essere scossa dai singhiozzi. Neanche lui parla, rimane in silenzio, continuando a stringermi il polso con delicatezza e a guardarmi con circospezione. -Lasciami.- gli dico, cercando di divincolarmi. La presa si fa ferrea, ma non sento alcun dolore. -Lasciami!- urlo più forte, dandogli degli schiaffi sulla mano, graffiandogli il braccio, tutto purchè molli la presa. -No, non ti lascio!- dice lui afferrandomi anche l’altro polso, cercando di tenermi a bada. Ma la mia reazione è proprio l’opposto: inizio ad agitarmi di più, tempestando di pugni il suo petto. -Tanto lo farai comunque! Siete bravi, voi altri, ad andarvene. Mi lasciate tutti, tutti!- urlo in maniera isterica, senza avere più un controllo sulla mia bocca. Quando mi rendo conto di ciò che ho detto mi blocco, come pietrificata. Le mie braccia crollano lungo i fianchi e le mie spalle si curvano verso il basso, come se il burattinaio avesse tagliato all’improvviso i fili che mi tenevano tesa. -Io non ti lascerò.- dice lentamente, poi fa un passo nella mia direzione, misurato, come se volesse darmi il tempo di realizzare e reagire. Ma non lo faccio. Non sento più niente dentro di me, l’energia che fino a pochi secondi fa scorreva dentro di me sembra essere sciamata via. Sono stata completamente svuotata di ogni emozione. Fa un altro passo, e all’improvviso mi ritrovo con il viso schiacciato contro il suo petto, mentre le sue mani prendono lentamente ad accarezzarmi da sopra la maglietta. Mi culla, come si culla un bambino neonato che ha appena avuto un incubo. Mi culla come si culla una persona a cui si tiene, alla quale stai assicurando che niente di male potrà accadere fino a quando starà con te. Ma io non sento niente, la mia pelle insensibile non avverte il tocco delle sue dita, e non sento questa rassicurazione attraversa i pori del mio corpo. Sono così insensibile da non fermarlo quando mi prende in braccio, veramente come una bambina, per condurmi dentro ad una struttura. Potrei rimanere stupita nel constatare che c’è un edificio in mezzo al boschetto, ma in realtà non lo sono. Quella è solo il rifugio del taglialegna, un taglialegna che però non si fa vivo da decadi ormai, eppure quel piccolo rifugio è rimasto lì, intatto. Ci rifugiamo lì dentro, ma è buio pesto. Non esiste la corrente elettrica in questo dannato posto. E’ un rifugio di pochi metri quadrati, con un armadio, un divanetto, un camino e un secchio, che posso solo immaginare a cosa sia servito in passato. Matt si guarda intorno, dopo di che mi poggia delicatamente sul divanetto tutto scassato: è pieno di polvere, le molle scricchiolano sotto il mio peso e si tendono verso l’alto facendomi male al sedere. Lui si inginocchia davanti al caminetto e prende della legna accatastata lì accanto. Si volta verso di me. -Hai un accendino?- mi domanda. Istintivamente faccio per cercarlo dentro le mie tasche, anche se con molta lentezza. Lo estraggo, pur nutrendo poche possibilità su un suo funzionamento, visto quanto è umido. Glielo lancio fiaccamente e lui lo prende al volo. Prova ad accendere e, fortunatamente, ci riesce. 

Rimaniamo qualche minuto in silenzio, mentre lui cerca di ravvivare il fuoco, poi si gira verso di me. Mi scruta con sguardo attento, cercando di capire di cosa abbia bisogno. -Vedo se c’è una coperta.- mi dice alzandosi e andando a controllare dentro l’armadio. Mi accorgo solo ora di star tremando da capo a piedi. I capelli mi si sono appiccicati sul viso e sul collo e i vestiti ora aderiscono talmente tanto alla mia pelle che sento avrei delle grosse difficoltà a togliermeli. Batto pure i denti in una maniera mostruosa. Con uno sbuffo Matt richiude l’armadio, a mani vuote. -Non c’è niente.- mi dice sconsolato. Io non gli rispondo e mi limito a fissarlo. Alla tenue luce del fuoco riesco a vederlo meglio. I capelli sono zuppi di pioggia, ma deve sicuramente averli mandati indietro con una mano mentre pensava al fuoco, questo spiegherebbe il loro sembrare sempre sbarazzini e indomiti; la camicia bianca è praticamente diventata trasparente, e posso vedere con chiarezza la linea decisa dei pettorali e quella un po' più debole degli addominali; i pantaloni aderiscono perfettamente nei punti giusti. Deglutisco e torno a fissare la nostra unica fonte di luce. -Dovresti avvicinarti, se vuoi riscaldarti.- mi avverte lui, rimanendo fermo immobile, come se si volesse mantenere a debita distanza da me. Io annuisco e scendo dal divano (e le mie chiappe ringraziano) per avvicinarmi alle fiamme. Subito mi penetra nelle narici l’odore di legna bruciata e la mia pelle formicola avvertendo il calore emanato dal fuoco. Mi giro verso il ragazzo, che continua a stare in piedi in tutta la sua bellezza. Batto la mano sul pavimento, proprio al mio fianco, per fargli capire che voglio che si sieda vicino a me. In questo momento vorrei pure che si togliesse quella camicia, che tanto per ora è pressoché inutile, ma lascio perdere. Lui, sempre con calcolata lentezza si avvicina e si siede al mio fianco, e le uniche parti dei nostri corpi che si toccano sono le gambe, ma anche quello non è che un lieve tocco. Rimaniamo in silenzio, ascoltando la tempesta che infuria là fuori: il vento che fruscia tra gli alberi fischiando, la pioggia che si abbatte contro il rifugio con la stessa forza di tante piccole pietruzze. -Facciamo un gioco.- se ne esce lui alla fine. Io lo fisso con lo sguardo un po' perso, e aggrotto le sopracciglia cercando di capire dove voglia andare a parare. -Io ti faccio delle domande e tu, solo se te la senti, mi rispondi. Se vuoi puoi fare lo stesso.- mi spiega. Io sbuffo. -Questo non è un gioco, ma un interrogatorio.- lo rimprovero con voce bassa e roca. Mi accorgo che queste sono le prime parole che pronuncio da quando mi sono messa ad attaccarlo lì fuori, e dal sorriso dolce e leggermente divertito che gli spunta capisco che era questo il suo intento. -Chiamalo come vuoi.- dice solo. -Pronta?- domanda poi, e io scrollando le spalle mi volto verso il fuoco acceso. -Ok… da quanto tempo ti tingi i capelli?- chiede. Mi irrigidisco e d’istinto mi passo una mano tra i capelli. -Si nota così tanto?- domando in risposta. -Tranquilla, solo un occhio attento come il mio se ne accorgerebbe.- dice, dandomi una piccola spinta spalla contro spalla. Mi tiro le ginocchia al petto, poggiando su di esse il mento. -Da quasi due anni ormai.- rispondo cauta. Rimaniamo in silenzio per un po'. Lo so che toccherebbe fare a me le domande, ma non ne ho proprio voglia. Non ho voglia di stare a sentire quello che deve dire. -Perché la ragazza di Trevor ti ha chiamata Rose?- mi domanda, fissandomi. Io arriccio le labbra in segno di protesta. -Non lo so, forse si sarà sbagliata.- rispondo guardando con occhi di ghiaccio le fiamme. -E allora perché sei corsa via?- domanda ancora, ma non con un tono spazientito. Io sbuffo e mi volto verso di lui, mettendomi in ginocchio. Anche lui lo fa, e la mia testa ancora una volta si trova all’altezza del suo petto. E’ lì come a volermi sbarrare la strada, come se temesse un mio nuovo tentativo di fuga. -Tu parli troppo.- gli dico. Lui non dice nulla, perché sappiamo entrambi che non è vero. Lui è sempre stato una frana nel fare discussione con gli altri, è come se ogni volta che qualcuno prova a parlargli venisse scosso da un attacco d’ansia. Succede con tutti, ma non con me. Con me parla come se questa fosse una cosa naturale, come se ci conoscessimo da sempre.

-Ora te lo propongo io un gioco.- gli dico, leccandomi le labbra che nel frattempo si sono asciugate e screpolate. Peccato non possa dire lo stesso dei vestiti e dei capelli, che sono ancora umidicci. -Tu ora chiudi gli occhi: io guiderò la tua mano in diverse parti del mio corpo e tu dovrai indovinare di quali parti si tratta.- gli spiego. Lui si tira leggermente indietro, guardandomi in maniera scettica. -Non credo sia una buona idea.- fa per allontanarsi sul divano, ma io lo afferro per un braccio e lo tiro giù. Mi rendo conto di non averlo più toccato così da quella volta in cui siamo corsi via mano nella mano per scappare da Brody e Trevor. Il suo braccio si tende, mettendo in mostra le vene del polso, mentre le mie dita si artigliano di più sul suo arto. Alzo gli occhi al cielo. -Finiscila, non siamo dei tredicenni che stanno giocando al dottore.- gli dico, cercando di tranquillizzarlo. Mi rendo conto solo dopo che forse ho peggiorato la situazione. Lui infatti sbatte più volte gli occhi, come se non avesse capito. Io mi faccio più vicina. -Chiudi gli occhi.- sussurro, soffiando alla fine sulla “i” e coprendogli quelle gemme con una mano. Aspetto che si calmi, che il respiro si regolarizzi e che smetta di tendere tutti i muscoli. Appena si lascia andare levo la mano e constato se i suoi occhi sono veramente chiusi. Gli stringo forte una mano, pronta a dare il via. -Mano.- dice lui istintivamente. Io ridacchio. -Non abbiamo nemmeno iniziato.- lo rimprovero. Dopo di che guido il suo palmo in diversi punti, prima l’avanbraccio, poi il naso, le orecchie e le tempie. Ne indovina due su quattro. Su di me questo gioco però sta avendo effetti devastanti, perché mi accorgo che mi piace da morire avere le sue mani su di me. Me ne sono resa conto quando le sue mani ruvide e callose hanno tastato con fermezza e gentilezza per un minuto buono il mio avanbraccio, cercando di capire di che parte si trattasse. Mi ha toccato come qualcuno a cui si tiene, qualcuno a cui si riconosce una certa forza ma al quale non faresti mai del male. Quindi, spinta dall’eccitazione che mi sta causando il suo tocco, poggio la sua mano sulla mia coscia, nella parte in cui finisce la stoffa dei pantaloncini e inizia quella dei collant. A quel punto le cose cambiano, e l’aria intorno a noi si riempie di elettricità. Posso quasi vedere le scintille di tensione alla luce del fuoco che nel frattempo continuo a scoppiettare nel camino. Lui deglutisce e a voce bassa indovina. Poi guido la sua mano sul mio ventre, lì dove la pelle è completamente scoperta e leggermente umida, e passa ripetutamente il pollice intorno al mio ombelico, facendomi il solletico. Indovina ancora una volta, questa voce con voce flebile, appena udibile. Mentre mille centrali nucleari si accendono dentro di me, io continuo il viaggio della sua mano. Gliela poggio all’estremità di un seno, in modo però che il suo palmo possa toccare la gentile curva della mia prosperosità. Trattiene a stento un sospiro di sorpresa quando si rende conto di cosa sta toccando e il suo respiro ritorna irregolare. Fa per tirare indietro la mano, ma io glielo impedisco. Me la porto al viso, lasciando che le sue dita mi esplorino tutta. Quando il suo pollice inizia a muoversi in maniera quasi impercettibile, come un alito di vento, io chiudo gli occhi, sopraffatta dalle mille emozioni, alcune conosciute, altre del tutto nuove. Socchiudo le labbra, solleticando con un breve respiro il polpastrello del suo pollice. Quando le sue dita si bloccano io apro gli occhi d’istinto e noto che lui li ha già aperti, chissà da quando, e che si è fatto più vicino. Ora pochi millimetri ci separano, mentre la punta del suo naso sfiora la mia. -Hailey, cosa stiamo facendo?- domanda, un bisbiglio appena udibile, ma la sua voce roca mi arriva fin dentro le ossa, scuotendo le fondamenta del mio essere. -Baciami, ti prego.- sussurro a mia volta, senza rendermene conto. Si, perché ho perso ogni mia volontà. In questo momento non rispondo di me stessa, è il mio istinto che mi guida, e questo mi va più che bene. Gli chiedo di baciarmi, e lui mi guarda come se non avesse capito. Glielo domando di nuovo, e questa volta chiude gli occhi, aggrappandosi con la mano al mio viso come se io fossi la sua unica ancora di salvezza. Glielo chiedo ancora, e lui apre gli occhi, occhi che bruciano di desiderio trattenuto, ma che allo stesso tempo mi implorano di smettere. Mi avvicino ancora di più, i nostri nasi che si toccano e i nostri respiri che si mescolano, eppure le nostre labbra non si toccano. Gli chiedo di baciarmi, questa volta con la voce strozzata. E lui mi bacia.

 In un nano secondo le sue labbra sono sulle mie, premendo dolcemente. Sa di pioggia, di muschio e di acqua di colonia. Mi dà alla testa. Si erge su di me accarezzando lievemente la curva del collo con cinque dita, mentre le altre si vanno a infilare tra i miei capelli. Io afferro i suoi bicipiti, forti e possenti, e non li lascio andare, perché sento che cadrei se non ci fosse lui a farmi da sostegno. Continuiamo così per un po', prendendoci il tempo di esplorare con le dita il corpo dell’altro mentre le nostre labbra continuano a premere tra loro con dolcezza. Per quei pochi minuti fingo. Fingo di meritare quel genere di attenzioni, fingo di essere quel tipo di ragazza che andrebbe baciata così, fino di essere la ragazza giusta per Matt. Ma quando diventa troppo anche per me decido di riprendere in mano le redini della situazione. Gli apro piano le labbra e le nostre lingue si incontrano con esitazione, e a quel punto il fuoco della passione, che prima si era alimentato lentamente, divampa. Lo stringo forte a me, per le spalle e per i capelli, talmente tanto lo spingo contro di me che finisco per perdere l’equilibrio e cadere a schiena in giù, ma non mi importa. Non sento dolore. Sento solo me, e lui, noi. Siamo più vicini di quanto non lo siamo mai stati. I nostri corpi si toccano nei punti giusti e sento ogni fibra del mio corpo fondersi con lui. Ci mettiamo seduti e lui smette di baciarmi le labbra, dandomi così il tempo di riprendere fiato, ma la sua bocca non si stacca dalla mia pelle e continua lungo la mandibola e già per il collo. Trattengo un gemito quando sento i denti sfiorare la pelle. Si sposta ancora più in basso, lasciando una scia di fuoco su ogni parte di me toccata da quelle labbra, si ferma sulla scapola, e come guidato da un istinto animale abbassa la spallina del top. Molto probabilmente se ne avesse avuta l’occasione mi avrebbe tolto anche quella del reggiseno, ma oggi ne indosso uno a fascia, e penso sia a dir poco perfetto. I suoi movimenti non sono lenti e calcolati, non ci sta andando piano. Abbiamo perso entrambi il controllo, e le nostre teste si ritrovano svuotate da un qualsiasi pensiero razionale. Siamo solo due corpi che hanno bisogno di mettere a tacere quel bisogno carnale. Spinta da quella consapevolezza gli sbottono la camicia, così velocemente che non gli do il tempo di realizzare quello che sto facendo. Quando se ne rende conto gliel’ho ormai sfilata da tempo, e mi prendo il mio tempo per godermi una volta per tutte la vista del suo petto. Neanche le mie più fervide immaginazioni si avvicinano alla realtà. E’ solo un petto, un dannato e stupidissimo petto, ma è sexy da morire. I muscoli sia degli addominali che dei pettorali sono perfettamente delineati, nonostante quest’ultimi siano particolarmente marcati; questo spiega le sue spalle larghe, molto più larghe rispetto al resto del corpo, tipico fisico da giocatore di football. All’altezza degli addominali si intravede una leggera peluria chiara che segue la linea della muscolosa V per poi scomparire sotto il tessuto dei pantaloni. Riporto lo sguardo verso l’altro. Amo il riverbero della luce del camino sulla sua pelle, il gioco di luce e ombra che sembra rincorrersi per un tempo indefinito, dando così una sfumatura ambrata per quella sua pelle imperfetta. Già, perché quando lo tocco, all’altezza del costato, mi accorgo che la sua pelle non è liscia come me la sarei aspettata. E’ ruvida, proprio come la sua mano. Mentre la mia mano vaga sul petto e sulle spalle, sento delle imperfezioni, come le protuberanze di nei, o minuscole, invisibili cicatrici che non avrei mai notato se i miei polpastrelli non vi fossero passati sopra con delicatezza. Lascio un bacio su una di queste cicatrici, che si trova tra le spalle e il collo, un bacio umido, che gli fa uscire dalla bocca un gemito strozzato. Sorrido sulla sua pelle, fiera di me, poi mi tiro indietro velocemente, il tempo di togliermi il top, e lo attira di nuovo a me. Lo bacio, passando le unghia sulla mandibola sbarbata. -Non dovresti rasarti. Mi piaci di più con la barba.- gli sussurro sulle labbra per poi ritornare a baciarlo. Ci baciamo affamati, e crolliamo di nuovo per terra, lui sopra di me, e fremo al contatto della nostra pelle nuda: i suoi addominali che toccano il mio ventre, il suo petto che tocca le curve prorompenti del mio decolté. Molti pezzi di stoffa ancora ci separano, eppure sento di non essermi mai sentita così vicina a nessun altro ragazzo fino ad ora. L’aria continua a vibrare attorno a noi e, lasciandomi guidare dall’istinto abbasso la mano all’altezza dei suoi pantaloni, per sbottonarglieli. Lui a questo punto si riscuote, come se si fosse risvegliato all’improvviso da uno stato di trance. Si allontana bruscamente dalle mie labbra, lasciandomi mugolare di protesta. Allontano la mia mano da lì e lo guardo mentre si solleva sui gomiti, per potermi osservare meglio. I suoi capelli sono ancora più scombinati del solito, merito mio, e mi accorgo come sarebbero ancora più selvaggi e indomiti dopo una scopata. A questo pensiero le mie gambe si contraggono. Lui si guarda attorno, spaesato, senza fiato, le labbra rosse e gonfie per i troppi baci. -C… Che stiamo facendo?- balbetta lui, e con estrema lentezza prova ad alzarsi. Io lo afferro per le spalle, impedendogli di muoversi. Lo fisso negli occhi, cercando di farlo tornare da me: le fiamme si proiettano nell’occhio castano, mentre l’altro sembra una pozza di lava azzurra. Lo attiro di nuovo su di me, il suo corpo che fa ombra sul mio, e lo bacio, ancora, ancora e ancora. E siamo di nuovo noi, pelle contro pelle.
  
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