La
storia inversa
«Fiori
d’arancio e improbabili complicazioni»
Mercoledì«
Vancouver,
Columbia Britannica, Canada.
16 luglio, ore nove e sedici del mattino.
Come
Duncan aveva sospettato, quella era stata la nottata più
lunga della sua vita.
John
non si era dimostrato solo un coinquilino piuttosto insidioso, ma anche
un
insopportabile compagno di letto.
Poiché
era tardissimo e se l’erano giocata in tutti i modi possibili
ed immaginabili,
non avevano avuto altra scelta che dormire assieme, con eterno orrore e
disgusto di entrambi.
Era
andata bene per circa dieci minuti; successivamente John aveva
cominciato ad
agitarsi e a riempire di calci il poverello che, per difendersi,
rispondeva con
colpi altrettanto forti, nella vana speranza di spostarlo o svegliarlo.
Siccome
non riusciva ad addormentarsi, tra l’una e le due e mezza di
notte non aveva
fatto altro che alzarsi e sdraiarsi, una volta per andare in bagno,
un’altra
per prendere una boccata d’aria, un’altra ancora
per bere un bicchiere d’acqua…
e così via. Tutto questo non era sfuggito a Duncan che, per
sua sfortuna, aveva
avuto sempre un sonno piuttosto leggero.
Quando finalmente
si era ambientato e calmato e quando Duncan aveva cominciato a sperare
che forse avrebbe dormito, ecco che
aveva
sfoderato l’arma più fastidiosa e più
letale di tutti: il russare.
Accompagnato
da quell’insopportabile sottofondo, Duncan capì
che avrebbe passato una notte
insonne, poiché il suo amico non dava segni di volerla
smetterla; dopo un tempo
indefinito, però, quel rumore conciliò
misteriosamente col suo sonno e cadde
nelle accoglienti braccia di Morfeo.
Stava
così bene, era così rilassato e profondamente
addormentato… Eppure parve che
fossero passati solo pochi minuti, quando fu svegliato da un continuo
rimbalzare sul materasso.
Col
senno di poi, si disse, avrebbe anche potuto sopportare quel rumore:
dopo una
nottata del genere quello era il minimo… peccato che circa
cinque secondi dopo
qualcuno spalancò le tende e i raggi del sole entrarono
dalla finestra,
illuminando perfettamente il suo volto.
Il
cigolio delle molle e la luce solare lo costrinsero ad alzarsi, mentre
il suo
cervello riusciva a formulare solo bestemmie, una più
creativa dell’altra.
«Finalmente
ti sei alzato!» esclamò qualcuno ad un centimetro
dal suo orecchio.
Ancora
in uno stato di semi-coscienza, quella stessa persona lo
inchiodò al letto,
mettendosi a cavalcioni su di lui. Quando i suoi occhi si abituarono
alla luce
del sole, il viso di John era insopportabilmente vicino al suo e lo
fissava con
un’espressione troppo felice.
«Oggi è
un giorno speciale, quindi alza il tuo sedere flaccido da questo
materasso e
vestiti» continuò, senza togliersi quel sorriso
dalla faccia.
Duncan
cercò di far funzionare gli ingranaggi arrugginiti del suo
cervello, cercando
di ricordarsi cosa potesse esserci di così importante quel
giorno. Ma non gli
veniva in mente nulla.
Notando
l’espressione interrogativa, John si affrettò ad
aggiungere: «Il 16 luglio non
ti dice niente? Ebbene, ti darò un indizio: è il
compleanno di una persona
speciale».
«Mi
spiace, ma per il mio compleanno manca ancora un
po’» aggiunse con un pizzico
di ironia e un grosso sbadiglio.
«Non
parlavo di te, inutile egocentrico» rispose quello.
«Si dà il caso che la
persona in questione sia mille volte più importante, e che
quella persona sia
io» e si portò una mano al petto.
Tra il
viaggio improvviso e il matrimonio imminente, si era completamente
dimenticato
del venticinquesimo compleanno di John. Okay, era fastidioso e con
qualche
rotella fuori posto, ma era comunque suo amico e si conoscevano da
anni. Uno
strano senso di colpa si impossessò per un poco di lui, ma
poi ricordò: nemmeno
John si era mai ricordato del suo compleanno.
In
fondo non erano poi così diversi, se ci pensava: nessuno dei
due dava
importanza a eventi frivoli come quello. Riteneva, infatti, che i
compleanni
servissero a ricordare solo che stai invecchiando, che hai un anno in
più
rispetto al giorno precedente.
«Bene,
auguri a te, dopo ti canto pure la canzoncina»
scherzò, sdraiandosi nuovamente.
«Ora voglio solo dormire fino a mezzogiorno, quando Courtney
mi verrà a
svegliare con qualche minaccia da due soldi».
Purtroppo,
non andò come si sarebbe aspettato: non appena aveva
poggiato la testa sul
cuscino, John lo aveva afferrato per le gambe e aveva cominciato a
spingerlo
prima giù dal letto e poi sul pavimento gelido, fino al
bagno, dove lo aveva
scaricato e minacciato di picchiarlo, se non fosse stato pronto entro
cinque
minuti, lanciandogli dietro gli stessi vestiti che aveva lasciato per
terra il
giorno prima.
In un
primo momento il suo cervello elaborò l’idea di
chiudersi dentro e di
utilizzare il tappeto come letto, anche se non era così
comodo come sembrava.
Purtroppo, la chiave l’aveva presa John, proprio per
prevenire questo pericolo,
e anche se fosse il ragazzo avrebbe potuto chiamare Courtney da un
momento
all’altro… e allora sì, sarebbero stati
affari suoi. Perciò, siccome alla sua incolumità
ci teneva, decise di prepararsi e di scendere dagli altri.
Quindici
minuti più tardi si ritrovò a varcare
l’enorme sala da pranzo e a servirsi la
colazione su un vassoio di metallo. Fu facile trovare il tavolo,
poiché una
cinquantina di testa guardavano in quella direzione con fare
disgustato: John
stava ingurgitando voracemente il settimo cornetto, mentre Courtney,
sentendosi
tutti quegli occhi addosso, avrebbe voluto sprofondare, ma si
limitò a
fulminarlo con lo sguardo e a borbottargli contro svariati insulti e
minacce.
«Eccoti,
ce l’hai fatta!» esclamò gioviale il
bruno, facendogli segno di sedersi accanto
a lui; nel frattempo qualcuno si era voltato a guardarlo.
Il più
velocemente possibile, fece scivolare il suo vassoio sul tavolo e si
sedette, cercando di ignorare tutta quella gente.
«Buongiorno,
principessa» esclamò, salutando la ragazza di fronte a lei con un ghigno.
«Buongiorno»
rispose, leggermente a disagio. «Dormito bene?»
aggiunse con un sorrisetto,
accennando alle occhiaie profonde sotto i suoi occhi.
«Meravigliosamente» ironizzò,
voltandosi verso la causa della sua insonnia. «Non ha fatto
che girarsi e
rigirarsi per tutta la notte».
Di tutta risposta, si limitò a mescolare
per bene il suo cappuccino con un cucchiaino. Sembrava vagamente
soddisfatta e
divertita.
«Comunque,» aggiunse Duncan poco dopo,
«il nostro amico qui presente sembra un poco eccitato per il
suo compleanno».
«Ehi, venticinque anni non si compiono
una volta sola!» disse quello, sentendosi chiamato in causa,
con la bocca piena
di pasta sfoglia e marmellata, cosa che suscitò il notevole
disappunto della
ragazza. Poi aggiunse: «Sappiate che mi aspetto una torta,
possibilmente al
cioccolato. E anche un regalo sarebbe gradito».
Di fatto, a John non interessava il
compleanno di per sé, ma i privilegi che ne avrebbe
ottenuto: anno dopo anno,
aspettava quel giorno solo per i regali e per ingozzarsi come un maiale
con
torta e schifezze varie.
«Sì, poi ci pensiamo» lo
liquidò
Courtney con un gesto della mano. «Ora, quello che mi
interessa è fare una
bella sorpresa a Gwen. Non vedo l’ora!»
«Ti brillano gli occhi» non poté non
notare Duncan, mentre lei sorseggiava il cappuccino lentamente.
Abbassò la tazza e si limitò a
sorridere. Un po’ di schiuma le impregnava il labbro
superiore.
Non avrebbe mai immaginato, dopo tutto
quello che era successo in quel reality, di poter tornare ad essere
amica di
Gwen così in fretta. La disprezzava così tanto
per pensare che fosse una
situazione plausibile. E adesso, a distanza di sei anni, si ritrovava
ad aver
percorso più di duemila miglia solo per essere presente al
suo matrimonio e
vederla felice con l’uomo della sua vita. Era così
fiera di lei.
Duncan invece stava pensando totalmente
ad altro, ovvero a quanto fosse adorabile con quel labbro macchiato. E,
quando
lei stava per pulirselo, la precedette.
«Lascia, faccio io» dichiarò con
nonchalance, prendendo il suo tovagliolo e sporgendosi verso di lei,
con
l’intento di tamponarle la macchia.
Mentre si muoveva in avanti, però, urtò
violentemente il tavolo con il corpo e la tazza col cappuccino,
pericolosamente
vicina al bordo del tavolo, cadde a terra infrangendosi in mille pezzi;
il
liquido, invece, si riversò sulla maglia di Courtney.
«Bravo, complimenti! Hai idea di quanto mi sia
costata?» urlò, scattando
in piedi e guardandosi la macchia che lentamente si espandeva.
«Non sai fare
altro che combinare guai».
E si allontanò a grandi passi verso la
hall, con aria offesa e al contempo infuriata.
Lui si limitò a commentare il tutto con
un’imprecazione così sonora che strappò
versi stizziti a qualcuno vicino.
Successivamente, si dette mentalmente dello stupido circa
un’infinità di volte.
John, che aveva assistito a tutta la
scena, si limitò ad ammiccargli e ad alzare i pollici in sua
direzione,
profondamente ammirato.
«Amico, lasciatelo dire» annunciò,
dandogli una sonora pacca sulla spalla. «Devi essere davvero
disperato, per
andare dietro alla stessa pollastrella da sei anni».
Duncan sfoderò il suo miglior ghigno:
«Disperato, ma non senza speranza».(1)
•
• •
Ore
undici e trentatré.
Dopo avergli tenuto il broncio
per
circa un’ora e mezza, Courtney sembrava aver deciso che,
quello del cappuccino,
era stato solo un incidente madornale e aveva deciso di perdonare
Duncan.
Dopotutto, la macchia sarebbe andata via e aveva ben altro a
cui
pensare, come la sorpresa ormai imminente.
Aveva organizzato
tutto nel minimo
dettaglio: dopo che Gwen le aveva assicurato che quella settimana
avrebbe
lavorato soprattutto da casa, aveva cominciato a studiare tutti i
tragitti
degli autobus che si fermavano davanti al loro albergo, per vedere
quale
passasse il più vicino possibile alla via in cui abitava, e
i rispettivi orari.
Optò per il 164/ delle undici e dieci, che aveva una fermata
giusto a seicento
metri dall’abitazione di Gwen e Trent.
«Dobbiamo
scendere alla prossima»
annunciò Courtney, dopo circa venti minuti di viaggio,
sporgendosi per
prenotare la fermata.
«Interessante»
commentò John, seduto
sul lato opposto affianco ad un’anziana. «E adesso
cosa si fa? Entriamo in casa
dalla finestra, ci nascondiamo dietro qualcosa e, non appena passano,
usciamo
dai nostri nascondigli, urlando “sorpresa!” e
sparando stelle filanti in aria?»
«O
magari,» lo interruppe lei, mentre
l’autobus si accingeva a fermarsi, «ci limitiamo a
suonare al campanello e
aspettiamo che qualcuno ci apra».
«Il mio
piano era più di impatto» si
giustificò con una scrollata di spalle.
«Certo, ora
sbrighiamoci!» lo liquidò,
cominciando a scendere dal mezzo di trasporto.
John, trovandosi
affianco al finestrino,
si voltò verso la vecchietta con l’intento di
passare, ma non vi era
sufficiente spazio.
«Mi scusi,
signora» la chiamò,
schiarendosi la voce. «Io sono arrivato. Potrebbe,
cortesemente, spostarsi?»
«Sposarmi?»
domandò confusa. «Non potrei mai tradire mio
marito, anche se è morto da un po’
ormai».
«Non ha
capito, io le ho chiesto se può
farmi passare» sillabò per bene, alzando un
po’ il tono per farsi sentire
meglio.
«Oh
sì, lo so cucinare il passato. Se
vuoi, ti invito a casa mia, così potrai provarlo tu
stesso».
«Non
passato, ma passare!» esclamò,
ormai sul punto di esplodere. «Si levi di mezzo e basta! Devo
scendere!»
«Come ti
permetti, piccolo
impertinente? Io non sono scema!» gli urlò contro
corrucciata, picchiandolo con
la sua borsetta rossa.
Intanto, fermo sul
ciglio della porta,
Duncan osservava attentamente la scena, ridendo sommessamente.
«Ti diverti,
cresta verde, non è vero?»
gli chiese John, cercando di schivare i letali colpi di borsa.
«Non
immagini quanto» ghignò,
asciugandosi una lacrima.
«Bambini,
volete muovervi?» la voce
leggermente irata di Courtney arrivò chiara dal marciapiede,
interrompendo la
scenetta comica.
Allora il nostro prode
John, avendo
capito che le parole non servivano a nulla, passò ai fatti:
si arrampicò sulla
vecchietta, la superò, mentre lei borbottava frasi riguardo
il comportamento
maleducato dei giovani d’oggi, e scese con passo solenne
dall’autobus, sotto
l’occhiata attonita di tutti i passeggeri.
Non appena ebbe messo
piede sul
marciapiede, fu letteralmente trascinato per tutto il viale da
Courtney, che
procedeva svelta fra gli appartamenti a schiera di Thompson Boulevard.
I tre si fermarono
davanti al numero
126, una casetta a due piani con i muri dipinti di rosso carminio, il
tetto a
punta e un piccolo giardinetto ben curato davanti. L’insieme
era estremamente
grazioso.
La ragazza, che
guidava la fila, si
infilò attraverso il cancelletto in legno, appena socchiuso,
e percorse
velocemente il sentiero ciottolato. Una volta davanti
all’ingresso, fece
saettare l’indice verso il campanello e lo fece squillare.
Qualche istante
più tardi, la porta
si aprì con uno scatto, rivelando la figura di Gwen. Non era
cambiata granché
negli anni, tranne che, ora, i suoi capelli erano di un unico colore,
nero.
Aveva delle profonde occhiaie sotto gli occhi e una matita dietro
l’orecchio
sinistro, il che lasciava presagire che aveva passato la notte in
bianco a
lavorare a qualche progetto. Sembrava anche leggermente sciupata,
magari a
causa dello stress lavorativo e pre-matrimoniale.
Prima che potesse dire
qualunque
cosa, Courtney si era già fiondata tra le braccia
dell’amica, mormorandole un
«Mi sei mancata tantissimo».
«E voi che
ci fate qui?» domandò
Gwen non appena riuscì a liberarsi dalla stretta, con
un’espressione sorpresa e
allo stesso tempo raggiante. «Non vi aspettavo prima di
venerdì».
Fece cenno loro di
entrare in casa,
scansandosi per farli passare.
«Era
l’unico volo disponibile prima
di domenica» spiegò prontamente la bruna,
appendendo la sua borsa
all’attaccapanni.
«Ehilà
Gwen, chi non muore si
rivede» la salutò amichevolmente Duncan, dandole
una leggera pacca sulla
schiena.
Non c’era
alcun tipo d’imbarazzo tra
di loro, sembrava che non fossero mai stati assieme: somigliavano,
infatti, più
ad amici di vecchia data, pronti a scherzare e fare battute.
«È
sempre un piacere rivederti»
ridacchiò, battendogli il pugno.
«Pensa un
po’, è la stessa cosa che
gli dico sempre io. Naturalmente nella mia voce
c’è molto più sarcasmo»
esclamò
John, superando i due. «Ad ogni modo, ciao Gwen».
«Vedo che
non hai abbandonato le
vecchie abitudini» gli sorrise lei di rimando, per poi
rivolgersi a tutti:
«Volete del caffè? L’avevo appena
preparato per me».
«Non si
rifiuta mai del caffè»
recitò solenne Duncan.
Il gruppo si
spostò nella zona
cucina, una piccola stanza dalle pareti color panna e una grande
finestra che
ridava sul giardinetto. Sul fondo era addossato un piano cottura,
affiancato
dal frigorifero strapieno di post-it, tutti che indicavano appuntamenti
più o
meno importanti. Al centro della stanza, un tavolo rotondo faceva la
sua bella
figura.
«Allora,
dov’è il futuro sposo?»
domandò
Courtney con un sorriso mellifluo, sedendosi su una sedia.
«È
sotto la doccia, immagino» rispose
l’altra, armeggiando con delle tazzine. «Si
è svegliato da poco, ieri sera ha
lavorato fino a tardi».
Trent gestiva un
locale della
periferia di Vancouver insieme ad un caro amico, nonché suo
testimone di nozze.
E, essendo per metà proprietario, poteva liberamente
esibirsi con la sua
chitarra in qualche mini concerto, facendo così
ciò che più amava.
«Rallenta un
secondo» la fermò
Duncan. «Trent è sotto la doccia e tu qui? Fossi
in te l’avrei già raggiunto.
Magari lo rendi anche felice».
Courtney gli
sferrò da sotto il
tavolo una potente gomitata in pieno stomaco, che lo fece rantolare per
un po’.
«Oh, ma
guardatevi» ridacchiò Gwen,
che aveva osservato tutta la scena. Versò il
caffè nelle tazzine e le mise su
un vassoio di metallo, assieme ad una zuccheriera e tre cucchiaini, che
poggiò
al centro del tavolo. «Sembrate proprio una coppia di
sposini. A proposito,
come va la vostra “relazione”?»
chiese, accennando per bene l’ultima parola.
Courtney per
poco non si strozzò con il caffè.
«Cosa?»
riuscì a balbettare, tra un colpo di tosse e un altro.
«Come, principessa, non gliel’hai
ancora detto?» scherzò Duncan,
cingendole le spalle con un braccio. «È la tua
migliore amica, dovrebbe venire
a conoscenza di questi dettagli».
La ragazza lo avrebbe
deliberatamente ucciso a mani nude davanti a tutti, se solo John non
fosse
intervenuto.
«Quali
dettagli?» domandò divertito.
«Dopo sei anni di corteggiamento, è già
tanto che tu sia riuscito ad avere un
appuntamento».
«Oh, andiamo
Court!» esclamò Gwen,
appoggiandosi contro il piano cottura e sorseggiando il suo
caffè fumante.
«Cos’altro deve fare questo povero ragazzo per
dimostrarti che è cotto di te?»
La diretta
interessata, che nel
frattempo aveva raggiunto una chiara sfumatura di rosso - non si sapeva
se per
la rabbia, oppure per l’imbarazzo -, si limitò a
versare dello zucchero nella
tazza e a mescolare per bene con il cucchiaino. Prima che potesse
formulare una
risposta adeguata, qualcuno entrò in cucina interrompendo il
discorso.
«Chi
è cotto di chi?»
A differenza della sua
compagna,
Trent aveva subito un mutamento più profondo. I suoi capelli
erano più
arruffati e più ribelli, aveva messo su un po’ di
massa muscolare e sulle
guance spuntava una deliziosa barbetta incolta. Sembrava molto
più adulto,
adesso.
«Ragazzi,
che gradita sorpresa!» li
salutò con un enorme sorriso.
«Ecco il
nostro Elvis!» disse
Duncan, ammiccando in sua direzione. «Mancavi solo
tu».
Trent batté
il cinque ai due maschi,
diede un fugace bacio sulla guancia a Courtney e poi si diresse verso
la sua
futura moglie, afferrandola per la vita e tuffandosi sulle sue labbra.
«Sì,
tutto molto romantico» disse
rapido John, rovinando tutto come solo lui sapeva fare. «Ma
noi siamo ancora
qui. Se volete un po’ di intimità, potete
trasferirvi-».
Ma non seppero mai
dove trasferirsi: un calcio al ginocchio, lo fece mugolare di dolore e
non riuscì a
continuare la frase.
I due si separarono
all’istante,
ridacchiando imbarazzati.
Poi Gwen
poggiò la sua tazzina sul
lavello e, avvicinandosi alla sua amica, la prese per un braccio.
«Vi dispiace
se ve la rubo un
istante?» chiese, aiutandola ad alzarsi. «Devo
farle vedere una cosa».
E le due scomparvero
al piano di
sopra, parlottando sommessamente tra di loro.
Nella stanza
calò così un silenzio
imbarazzante. Sebbene non fossero completamente soli e avessero
già chiarito i
loro antichi dissapori, Trent continuava a non sentirsi del tutto a suo
agio a
parlare con Duncan. Dopotutto, lui e Gwen avevano avuto una relazione,
per
quanto breve fosse stata.
«Ehm,
allora» cominciò, cercando di rompere il ghiaccio. «Quando siete arrivati?»
«Ieri
sera» rispose evasivo Duncan.
«Capisco…
cosa mi raccontate? È da
una vita che non ci vediamo».
«Oggi
è il mio compleanno, per
esempio» si intromise John, bevendo un lungo sorso.
Trent
sembrò sollevato che il bruno
avesse aperto una conversazione.
«Fantastico,
tanti auguri!» esclamò.
«Se vuoi, questa sera possiamo comprare una torta e
festeggiare nel mio locale.
Cosa ne pensi?»
«Non saprei,
non è il mio genere di
serata ideale».
Nel frattempo Gwen
aveva condotto
l’amica nella sua camera e, dopo averla fatta sedere sul
letto, aveva
cominciato a frugare dentro all’armadio, in cerca di qualcosa.
«Dai,
sbrigati, sono curiosa!» la
incitò Courtney, avendo già intuito quale fosse
la sorpresa.
«D’accordo,
non ti agitare» disse
lei, continuando a cercare dentro l’armadio.
«Però, chiudi gli occhi».
L’altra
obbedì e, quando li riaprì, non
riuscì a fare a meno di sorridere.
Il pallido corpo di
Gwen era
fasciato da un lungo abito nero con delle maniche a sbuffo. Il velo si
spandeva
leggero lungo il pavimento e il vestito aveva dietro la schiena una
piccola
scollatura a U. Emanava luce propria nel complesso.
«Sei
splendida» esclamò estasiata,
dopo una breve analisi. «Ma, non fraintendermi, come mai
nero?»
Non poteva di certo
negare che
l’amica sapeva indossare il nero con una grazia mai vista in
nessun’altra, ma
rimaneva comunque un’idea inusuale.
«Io e Trent
abbiamo deciso di
scambiare i colori. Io avrò un abito nero e lui uno smoking
bianco. Volevamo
fare qualcosa di diverso, di innovativo» rispose, come se
fosse la cosa più
normale del mondo. «Che c’è, non ti
piace?» aggiunse dopo un po’, vedendo
l’espressione dubbiosa sul suo volto.
Courtney si
alzò in piedi e prese a
sistemarle meglio le maniche.
«Lo
adoro» disse soltanto, e Gwen
sorrise.
«Sono felice
per te» dichiarò dopo
un po’, guardandola negli occhi con le mani poggiate ancora
sulle sue spalle.
«Davvero, te lo meriti».
E poi si abbracciarono.
Non sapeva
perché, ma le veniva
naturale dimostrarle il suo affetto con dei piccoli gesti o delle
parole
carine. Di solito, era una persona fredda e incline a lasciarsi andare,
ma con
Gwen era diverso, era come se la conoscesse da una vita. Le voleva un
mondo di
bene.
Quel bellissimo
momento fu
interrotto dal rumore di un oggetto di vetro che si infrange contro il
pavimento.
«Porco
Duncan!» imprecò sonoramente
John.
A quella frase,
Courtney uscì di
corsa dalla stanza, pronta a dirgliene quattro.
«Che cosa
state facendo?» urlò da in
cima alle scale.
«Oh nulla,
John non sa tenere
nemmeno una semplice tazzina in mano» rispose la voce di
Duncan, chiaramente
ironica, dalla cucina.
«Ci
riuscirei, se una scimmia
decerebrata come te non mi avesse tirato una manata in
faccia» disse il fautore del
danno, con ancora più ironia.
«Ma quale
manata, mi stavo
semplicemente stiracchiando!»
Inutile dire che si
aprì un’accesa
discussione e la ragazza decise saggiamente di lasciare perdere: era
una cosa
stupida, come al solito.
Prima che potesse
tornare in camera
da letto, vide materializzarsi Trent ai piedi della scalinata, con le
mani
sulle tempie come se la testa gli stesse per esplodere.
«La
smetteranno mai?»
chiese semplicemente, guardandola.
Lei scosse la testa,
mentre un
sorrisetto le nasceva in volto: «Mai».
Non
poteva fare a meno di quei due.
• •
•
Ore
ventitré e quindici di sera.
La cosa
sorprendente fu che John
accettò la proposta di Trent di festeggiare il suo
venticinquesimo compleanno
nel suo locale, quando aveva già progettato tutto da un
po’: due pizze extra
large e la prima stagione del suo telefilm preferito. Dopotutto, era
una serata
speciale.
E la cosa ancora più sorprendente fu
che Courtney acconsentì quasi subito di passare
l’intera serata in quel locale
di periferia, con tanto di alcol e la musica a palla, dopo che Gwen la
pregò
per cinque minuti interi. E se ne pentì amaramente.
Certo, doveva ammettere che era
stato piuttosto divertente vedere Duncan affondare la testa di John
nella torta
di compleanno, con seguenti imprecazioni di quest’ultimo. E
non poteva negare
che l’immagine esilarante di John che ballava il Gangnam
Style sul bancone,
dopo nemmeno tre bicchierini di brandy, le aveva strappato una
risatina. E
sicuramente si era sciolta un pochino quando Trent aveva dedicato
quella
sdolcinata canzone d’amore a Gwen, mentre Duncan
commentò il tutto con un verso
disgustato, beccandosi la seconda gomitata nello stomaco della giornata da parte sua.
Ma tutto era finito: Gwen era in
prima fila sotto il palchetto e ammirava il suo futuro sposo con occhi
sognanti, John chiacchierava del più e del meno con Adam -
il ragazzo con cui
Trent gestiva il locale, nonché suo testimone di nozze -, e
Duncan era sparito
da qualche parte in mezzo alla folla. E lei era
rimasta completamente sola, seduta su un
divanetto in fondo al locale con un milk-shake in mano.
Proprio mentre rifletteva su quanto
erano squallidi pub, discoteche et
similia,
le si avvicinò un tipo sulla trentina, avendola
vista spaesata ed isolata:
era enorme, con dei capelli bruni scompigliati e i denti un
po’ ingialliti, e
portava dei vestiti sciatti.
«Vorresti concedermi un ballo,
zuccherino?» chiese beffardo, sedendosi accanto a lei e
gettandole un braccio
attorno alle spalle.
La sua voce era strascicata e
puzzava di fumo.
«Zuccherino un corno» sbottò acida.
«E ti consiglierei di levare le tue sudicie manacce da me, se
non vuoi marcire
in galera. Sai, sono avvocato».
Sottolineare per bene il suo
mestiere ebbe l’effetto desiderato, poiché quello
roteò gli occhi e andò via. Courtney
poté giurare di averlo sentire dire: «Non
è abbastanza sbronza».
Quell’avance sessuale fu la goccia
che fece traboccare il vaso. Se prima non sopportava quei posti, adesso
li
detestava e non voleva passarci un secondo di più.
Poggiò il drink sul tavolino di
fronte e si alzò di scatto, facendosi spazio tra la folla
per raggiungere Gwen.
«Voglio andarmene» scandì vicino al
suo orecchio, in modo tale che la sentisse.
«Di già? Ma è prestissimo» si
lamentò lei delusa. «Non puoi aspettare cinque
minuti? Trent suona una nuova
canzone, devi sentirla assolutamente».
«Gwen, lo sai che ti voglio bene, ma
comincia a scoppiarmi la testa e quello che con tutta
probabilità era un
barbone ci ha provato con me. Voglio andarmene adesso»
spiegò, con un tono che non ammetteva repliche.
«Vi riaccompagno in macchina»
sospirò dopo un attimo di esitazione, consapevole di aver
perso. «Gli autobus
non passano più a quest’ora».
«Perfetto» disse l’altra con
l’aria
vittoriosa di chi aveva appena vinto un processo. «Io vado a
recuperare
Duncan».
Ma non dovette cercarlo a lungo. Non
appena riuscì a liberarsi da quella bolgia di persone, lo
ritrovò appoggiato
alla parete dinnanzi, avvinghiato ad una ragazza bionda dal
fondoschiena bello
pieno. I due erano impegnati a scambiarsi animatamente la saliva con
una foga, come
se il mondo dovesse finire da un momento all’altro, e niente
e nessuno avrebbe
potuto distrarli.
Quella scena fu un colpo al cuore.
Ovviamente sapeva che in quei sei anni Duncan aveva avuto numerose
donne, ma un
conto era solo saperlo e l’altro ritrovarlo a limonarsene una
davanti a lei. Faceva terribilmente male.
Doveva mettere subito quanta più
distanza possibile tra lei e loro, prima che potesse urlare, strozzare
quell’ochetta
con le sue stesse mani o prendere a schiaffi il ragazzo. Sentiva
fastidio alla gola. Pensò bene, quindi, di
tornare da Gwen.
«Ripensandoci, è ancora presto» si
giustificò Courtney, dopo averla trovata seduta al bancone
con John e Adam, che
a quanto pare avevano scoperto di amare la stessa serie tv e ne
parlavano
animatamente di fronte ad un drink fresco. Modulò per bene
la voce, tentando di
non farla tremolare. «E ho davvero voglia di sentire la
canzone di Trent».
«Ottimo» si intromise John, alzando
il bicchiere in loro direzione. «Perché il mio
amico qui è un grande estimatore
di telefilm e videogiochi. Non ci penso proprio ad andarmene!»
«Sei sicura?» la chiese invece l’amica,
un tantino preoccupata per il cambio repentino d’umore.
«Se vuoi andar via, non
c’è nessun problema, non preoccuparti».
Il
ricordo era ancora vivido.
«Ne
sono certa» rispose, cercando di
convincere più se stessa che Gwen, strattonandola per un
braccio e trascinandola
verso la pista. «Su, andiamo».
Doveva distrarsi, sfogarsi, non
pensare in alcun modo a ciò che accadeva a pochi metri da
lei. Ma l’immagine
continuava a ripetersi insistentemente nella sua testa, rischiando di
farla
impazzire di rabbia e gelosia.
Le
bruciava lo stomaco e le pizzicavano gli occhi.
E un
angolino remoto della sua mente
desiderò ardentemente di essere al posto della bionda, a
baciare le labbra di
Duncan.
Note:
(1)
Riprendendo il
primo verso di Murder City, canzone dei
Green Day
Angolo
dell’autrice
Non
posso credere di aver
aggiornato.
Nutrivo un sacco di dubbi su questa
storia, dubbi alimentati anche dal mio periodo di blocco, e avevo
pensato di
sospenderla più volte. La storia non riusciva più
a prendermi come prima e
trovavo questo capitolo piatto.
E, invece, alla fine l’ho fatto, l’ho
pubblicato. Sì, non è un capitolo molto dinamico
e non mi entusiasma, fin ora è
il peggiore; ma, anche il prequel aveva i suoi momenti statici che non
mi
facevano impazzire, quindi…
Finalmente abbiamo rincontrato Gwen
e Trent, più innamorati che mai. Ho voluto trattare per bene
l’amicizia tra lei
e Courtney, che personalmente adoro. Spero di non essere caduta troppo
nell’OOC.
E poi ci sono Duncan e John, che si
amano ed odiano sempre di più. Loro sono una gioia sempre e
comunque.
Non so da dove mi sia venuta l’idea
del compleanno di John, l’ho scritta e basta. Anche se ho
sempre pensato che il
suo compleanno fosse lo stesso giorno del mio, come J.K. Rowling e
Harry Potter
- insomma, tale madre e tale figlio -, oppure in inverno inoltrato.
E infine abbiamo anche qualche
sprizzo Duncney. Si ricominciano ad avvicinare, finalmente.
Spero che il capitolo non risulti
troppo pesante e di ricevere anche solo una recensione, dato che non
aggiorno
da fine dicembre. Conto di concludere la fan fiction entro settembre,
ma non
prometto nulla.
Inoltre, stavo pensando ad una
crossover. Il primo capitolo è quasi concluso e, se mi
soddisferà, voglio
davvero pubblicarlo.
Quindi, ci vediamo presto.
Un abbraccio,
Hayle
xx