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Autore: FioreDArgentoWattpad    11/08/2016    0 recensioni
Forse io mi ero sempre sentita diversa perché io il mio nome, a differenza degli altri, lo conoscevo. Quando ero sola, alcune volte lo sussurravo alle pareti grigie della mia stanza; lo ripetevo quanto bastava a ricordarmi di non essere solo una lettera simile alle altre.- Prologo
Nessuna origine.
Nessun nome.
Nessun appiglio.
Queste sono le caratteristiche che accomunano gli studenti dell'Heddem Institute, una scuola costruita su un'isoletta dell'arcipelago delle Bahamas, lontana da tutto e da tutti. Queste e un marchio nero sull'avambraccio.
Amira però è diversa, lo è sempre stata. Ha ricordi confusi della sua vecchia vita, ma il solo averli vissuti la separa inevitabilmente dai suoi compagni.
Riuscirà a soffocare le proprie emozioni o ne rimarrà sommersa?
Genere: Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo V

Capitolo V

"W, non pensi sia ora di spegnere la luce? Tra poco scatta il coprifuoco."

La mia compagna stava leggendo "Storia dell'Heddem Institute", sdraiata sul letto opposto al mio. Le spirali rosse del suoi capelli sparse sul cuscino, gli occhi verdolini intenti nella lettura.

"Come, all'improvviso sei una studentessa devota al rispetto del Regolamento?" ribatté acida, senza staccare lo sguardo dai fogli ingiallite.

Sapevo bene che stava fingendo, conosceva a memoria ogni parola di quel piccolo volume.

Tutti noi da piccoli avevamo speso tempo prezioso, imparando a decifrare quelle righe. Era l'unico libro che fosse concesso leggere agli studenti e, per quanto ne sapessi, anche l'unico presente nell'intero Istituto.

"Sono molto stanca." mentii.

"Avresti potuto riposarti prima di pranzo. In quel momento però non mi sembra che tu avessi così a cuore il Regolamento." Con noncuranza voltò un'altra pagina.

Ero scioccata.

I nostri litigi non erano mai durati più di mezz'ora. Di solito W si limitava a serrarsi in un silenzio offeso, tenendosi sempre lontana da un vero scontro.

Cosa le era successo? Aveva deciso di meritare un briciolo di rispetto nel momento meno opportuno?

Non sembrava nemmeno lei.

"Giuro solennemente che da domani riprenderò ad ignorare il Regolamento! Ora, per cortesia, potresti spegnere quella stupida lampada?" ironizzai esasperata.

"Non è tra le mie priorità."

La sua flemma era snervante.

"Spegnere la lampada o avere una compagna incosciente come me?" azzardai.

W chiuse di scatto il libretto e si mise a sedere, rivolgendosi finalmente a me. Mi squadrò in silenzio per qualche minuto, consapevole di star mettendo a dura prova i miei nervi.

La voglia di schiaffeggiarla cresceva di attimo in attimo. Ma non potevo darle quella soddisfazione.

"Entrambe direi. Mi sembra che invece siano tra le tue di priorità."

Avevo raggiunto il limite della sopportazione.

"Infatti. Vorrei tanto avere una compagna incosciente, al posto di una noiosa come te!" sbottai, la voce intrisa di veleno.

W s'irrigidì di colpo e gli occhi le si velarono di lacrime. Accorgendomi di averla ferita ebbi una stretta allo stomaco. Forse avevo esagerato.

"W..." la chiamai titubante.

"Hai ragione, anch'io sono stanca."

Mi diede le spalle mentre armeggiava con la lampada, una cortina di capelli rossi a scenderle sul viso.

"Ma..."

"Buonanotte." m'interruppe e una coltre di buio calò sulla stanza.

Mi rannicchiai sotto le coperte, reprimendo l'istinto di riaccendere la luce. In fondo il giorno dopo sarebbe tornata la solita W, accadeva sempre così.

"Avere una compagna di stanza incosciente non è facile. Parlo per esperienza."

Sussultai nell'udire la voce sottile di W. Pensavo si fosse già addormentata.

Sarebbe stato più facile se le avessi spiegato tutto.

Ma non potevo metterle in mano un'arma così preziosa. C me lo aveva fatto intendere, seppur non mi avesse mai vietato esplicitamente di tenere all'oscuro W.

Sospirai, gettando un'occhiata furtiva verso di lei.

Era chiaro che non desiderava davvero una risposta da me, perché il suo respiro si era regolarizzato. Doveva essere già avvolta dal calore del sonno.

Tuttavia trovavo rischioso uscire subito, avrei atteso ancora qualche minuto.

Involontariamente i miei pensieri si dirottarono verso il mio primo, strano incontro con W.

"Non essere così tesa!" eruppe C con una risata.

Io strinsi i denti, strofinando l'una contro l'altra le mani gelide per l'agitazione. Era ovvio che Corinne non comprendesse.

Quel giorno avrei cenato con gli altri alunni dell'Istituto, sarei scappata da quel buco inospitale in cui ero stata costretta negli anni passati.

E avevo paura, una di quelle paure che seccano la gola e mozzano il fiato.

Paura che quella volta potesse essere l'ultima.

C non lo sapeva, ma io avevo sentito i professori discutere riguardo al mio destino. La conclusione era stata brutale.

O quella sera avrei convinto loro che l'isolamento mi avesse addomesticata, o avrei trascorso il resto dei miei giorni tra quelle quattro pareti.

"Corinne... gli altri bambini come sono?" domandai d'un tratto.

La ragazza mi stava chiudendo la treccia con l'elastico, ma questo le sfuggì di mano nel sentirmi. Sbuffò e lo raccolse di nuovo, subendosi la mia risatina derisoria.

"Cosa dicevi?" s'informò ostentando indifferenza.

"Gli altri bambini..."

"Oh." Corinne ricominciò a separare le ciocche, in apparenza ignorando la mia domanda.

"Corinne...?"

"A, sono diversi da noi due." dichiarò con voce incerta.

Incuriosita mi girai d'istinto verso di lei, a cui di conseguenza risfuggirono i miei capelli.

"In che senso?"

C esalò un gemito insofferente e prese il mio capo, voltandolo con forza verso lo specchio.

"Rimani così." ordinò.

"Dunque..." Sospirò ripetutamente. "Dunque, sono diversi perché loro non conoscono il loro nome. O la loro terra d'origine."

"Be', io so di essere inglese, nulla più." Scrollai le spalle.

Corinne scoppiò a ridere e mollò la presa sulla treccia, che si sciolse. Di nuovo.

La ragazza si curvò su di me, gli occhi scuri brillanti di divertimento.

"A, tu non hai nemmeno idea di quanto sia vasto il mondo. Le persone sprecano la loro vita alla ricerca del loro posto su questa superficie immensa, infinita. Tu sai già di essere inglese. È un passo avanti."

Mi piaceva quando si abbandonava a quel fiume di parole, spesso per me incomprensibili. Mi piaceva ascoltarla, con la consapevolezza che avrei serbato nel cuore e nella memoria quelle conversazioni, fino a quando non avessero acquistato un significato anche per me.

"Non temere, andrà tutto bene." mi rassicurò C a bassa voce.

"Corinne..." Ebbi un sussulto e m'interruppi. "Noi non ci vedremo più. Se loro decideranno di assegnarmi, non avrò più bisogno che tu mi porti il cibo."

Mi rivolsi a lei, il cuore che batteva all'impazzata.

"Non voglio!" urlai e gli occhi mi si riempirono di lacrime. "Non voglio Corinne, mi comporterò male, io..."

"Piantala di dire stupidaggini e pensa ad impegnarti stasera! Qui non c'è solo in ballo il luogo in cui dormirai di notte!" m'intimò brusca C.

"Continueremo a vederci, te lo prometto." scandì, con un tono talmente sicuro da rasserenarmi subito.

Allora rilassai i muscoli, abbandonandomi sulla sedia di legno. Era importante che l'ansia non mi sopraffacesse, Corinne aveva ragione.

"Non trovi che i capelli sciolti ti stiano meglio?"

Divertita le lanciai un'occhiata e lei alzò le mani, uno stupore esagerato dipinto sul viso.

"Ehi, il mio era un consiglio totalmente disinteressato!"

"Certo, chi potrebbe mai avere dubbi!" la assecondai, costringendomi a non ridere.

Corinne guardò distrattamente l'orologio e si rabbuiò.

"È tardi. Devi andare." mormorò, aggiustandosi il grembiule mezzo slacciato.

Mi tese una mano gentilmente e io saltai su, pronta ad affrontare la cena.

Corinne mi accompagnò lungo la rampa di scale che scendeva verso il basso, stringendomi una mano sudata. La sicurezza che avevo provato nella mia stanza cominciò a sfumare, gradino dopo gradino.

Quando giunsi dinnanzi alla porta della Mensa, la fame era svanita per la tensione e il mio colorito non doveva essere dei migliori.

"A?" mi chiamò Corinne con dolcezza.

Spostai il mio sguardo su di lei in automatico.

"Ora devi proseguire da sola." Si morse un labbro mortificata. "Tutto bene?"

"Sì..." riuscii a rispondere con voce fiebile.

C mi guardò preoccupata un'ultima volta e sussurrò, facendomi l'occhiolino: "Ci vediamo dentro."

Poi si allontanò verso l'entrata destinata al personale con passo veloce.

Ero da sola. Completamente sola.

Non mi attardai ancora nell'osservare la porta chiusa e la aprii, con una spinta decisa.

Una folla di bambini vestiti con l'uniforme della scuola erano seduti intorno a tavoli bianco latte e addentavano dei rigatoni al sugo, in un innaturale silenzio. Qualcuno di loro mi notò e alzò gli occhi dal piatto ma nessuno sembrava porsi delle domande o avere un po' di curiosità nei miei confronti.

Da una parte ne fui rasserenata, dall'altra ne fui quasi intimorita.

A sbloccarmi dalla mia posizione fu l'irruzione di C nella Mensa, la quale mi dedicò un sorriso incoraggiante, prima che la perdessi di vista nel viavai dei camerieri.

Respirai a fondo e decisi di puntare verso una delle bambine che mi aveva fissato per più tempo. Spiccava per i suoi capelli rossi chiari, che fino a quel momento non avevo mai visto.

Scostai una delle sedie accanto a lei e mi sedetti, cercando di sistemarmi la gonna dell'uniforme. Erano passati quasi tre anni e ancora non mi ero abituata.

"È così scomoda!" mi lamentai, sperando di attirare la sua attenzione.

"Be', qualcosa dovremmo pur indossare." osservò in tono distaccato la bambina.

"In effetti non penso sia il caso di girare nudi per la scuola..." scherzai.

Lei non reagì e ingoiò un altro boccone.

"Io mi chiamo Am..." Mi bloccai, stavo già per combinare un disastro. "A. A e basta."

La bambina però non sembrava nemmeno avermi sentita, così ripetei a voce più alta: "Mi chiamo A."

Dei bambini udendomi si posero un dito sulle labbra, infastiditi, e la sconosciuta divenne rossa come il pomodoro che era rimasto nel piatto.

"Non si può parlare nella Mensa!" sibilò a denti stretti.

"Io volevo solo sapere il tuo nome." mormorai.

Era assurdo.

"W. Mi chiamo W, contenta?"

Non parlammo più fino all'arrivo del secondo.

Appena esaminò il contenuto la vidi storcere il naso.

Carne e spinaci.

Rimasi zitta e mangiai la mia porzione, finché non mi accorsi che W stava accantonando gli spinaci ad un lato del piatto seppur questo fosse vuoto.

"Non ti piacciono."

"Sì che mi piacciono!" mi contraddì lei stizzita, prendendo la forchetta e radunando un boccone sulle punte.

"È normale, non c'è nulla di cui vergognarsi."

Forse si sentiva a disagio perché a me piacevano e a lei no.

"Io odio le patate, ad esempio. E non gradisco molto il tonno." ammisi con sincerità.

"Ma a me piacciono. Devono piacermi." affermò testarda W. Poi si ficcò la forchetta in bocca e iniziò a masticare lentamente, inghiottendo infine con le lacrime agli occhi.

"Se vuoi posso finirli io." le proposi.

Indignata W scosse il capo: "Sarebbe un gesto molto maleducato verso chi ha cucinato."

Ma chi le aveva inculcato quelle idee in testa? C non si era mai offesa quando avevo lasciato qualcosa nel piatto.

"Ti assicuro che loro non si arrabbiano." riprovai.

"Basta A, stai zitta che altrimenti ci mandano nell'ufficio o peggio, in isolamento!"

Evitai di confessarle che io ci ero stata negli ultimi due anni e ricominciai a mangiare i miei spinaci, ammutolita.

Ritornai alla realtà. Quella era stata la prima volta in cui mi ero scontrata veramente con le norme rigide dell'Istituto. Andai con lo sguardo all'orologio appeso al muro e mi sforzai per guardare oltre le tenebre.

Trattenni un gemito.

Persa nei miei ricordi il tempo era sfuggito e mancavano solo due minuti allo scoccare dell'Ultima Campanella. Dovevo sbrigarmi.

Mi alzai in fretta e corsi verso la porta, pregando me stessa di non inciampare.

Lanciai un'ultima occhiata furtiva verso W. Dormiva profondamente.

"Scusami W." mormorai, prima di spalancare la porta.

I faretti del corridoio si stavano spegnendo l'uno dopo l'altro, lasciando che l'oscurità invadesse lo spazio. Presto Miss. Hedd sarebbe passata per vedere se il sistema automatico che monitorava le porte avesse funzionato.

Incominciai a salire, quasi correndo, le scale che portavano all'ultimo piano.

Il luogo dove riposavano i neomarchiati, il personale delle pulizie e in via del tutto eccezionale io.

Era proprio come lo ricordavo.

Il pavimento rovinato sepolto sotto un tappeto verde bosco, uno dei pochi arredi colorati dell'Istituto. Una finestra grande sulla parete destra, la serranda a mezz'asta, che dava sulla folta vegetazione intorno all'Istituto.

L'atrio si diramava in due corridoi: a sinistra i neomarchiati, a destra il personale delle pulizie.

Ero tentata di girare a sinistra per vedere se davvero la stanzetta, che per due anni aveva costituito il mio mondo, fosse diventata uno sgabuzzino.

Non ebbi modo di rifletterci tuttavia, perché d'un tratto avvertii distintamente il rumore di passi.

Provenivano dalle stanze del personale.

Seguendo l'istinto arretrai e ripercorsi i miei passi, correndo giù per qualche scalino.

Accadeva spesso che i camerieri andassero a controllare le condizioni dei neomarchiati, ma di solito io li udivo a notte fonda.

Era strano che lo facessero poco prima dell'Ultima Campanella.

Se avessi mantenuto la calma, non sarebbe successo nulla.

I passi si avvicinavano, più di quanto avessi supposto. Perché non andavano diritti verso i dormitori dei neomarchiati?

M'imposi di non agitarmi, ma il battito accelerò contro la mia volontà.

Erano troppo forti, troppo per trovarsi nel corridoio di sinistra.

Mi raggomitolai nell'angolo che segnava la svolta della rampa, schiacciata contro la parete liscia.

Goccioline di sudore m'imperlavano la fronte, il cuore vibrava nel mio capo stanco.

A quel punto potevo solo affidarmi alla fortuna.



   
 
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