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Autore: Mirin    12/08/2016    0 recensioni
Yoshino Yukinohana, un brillante procuratore distrettuale della misogina e razzista Tokyo. Shikaku Nara, geniale fisico teorico le cui idee sono inevitabilmente destinate a cambiare il mondo in modo radicale. Shibi Aburame, uno dei migliori avvocati della capitale nipponica, l'anima nera quanto il colore della pelle, o così pare, l'esemplificazione vivente secondo la quale nulla deve per forza rimanere com'è.
Dal capitolo quarto:
“L’avvocato Aburame non è stupido” Yoshino ribatté, cercando di trattenere un ringhio, “di certo non si farebbe infinocchiare in questo modo.”
“Yoshino, io sono un uomo” Tarou si inclinò verso di lei, gli occhi scuri, non particolarmente belli, brillavano, “ed un uomo non guarda così tutte le donne. Una bella donna la si fissa, ci si compiace della sua fisicità, ma lui era… ipnotizzato da te.”
[...]
“Lei vuole che io lo seduca” Yoshino tradusse, un cipiglio da falco inaspriva la dolcezza orientale dei suoi connotati. “Lei vuole che io giochi con lui come il gatto col topo."

[ShikakuXYoshinoXShibi - ispirato a Rinne, Your Other Self di Kiarana]
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Shibi Aburame, Shikaku Nara, Yoshino Nara | Coppie: Shikamaru/Ino
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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SOLITI AVVERTIMENTI: LINGUAGGIO SCURRILE, PRESENZA DI SCENE LIME, ECCETERA ECCETERA. PER LE FRASI IN INGLESE, PER I MENO ESPERTI, CREDO CHE GOOGLE TRANSLATE VI POSSA DARE RISULTATI ABBASTANZA SODDISFACENTI: NEL CASO PREFERISTE UNA PRESENZA MAGGIORE DI TRADUZIONI ALL'INTERNO DEL TESTO, FATEMELO PURE SAPERE IN UNA RECENSIONE!

6 giugno 2015, Aeroporto Internazionale di Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 9.58

Shikamaru tamburellò con le dita sul volante della sua Toyota di seconda mano, inspirando profondamente. Il parcheggio coperto era quasi pieno, l’unico posto che era riuscito a trovare era lontano dall’uscita, rivolto verso il muro grigio. C’era ombra, ma essendo interrato e costruito da asfalto e cemento armato, faceva caldo comunque. Lo avrebbe ucciso, sicuramente: ‘mi fai camminare per così tanto tempo su questi trampoli dopo dieci ore di volo con queste valigie enormi?!’
E non era solo per le valigie, per carità. Aveva sicuramente almeno una ventina di buste e pacchetti provenienti dai negozi più in della Città degli Angeli, di Sephora, Victoria’s Secret, Gucci, Micheal Kors… oh, sentiva già la schiena fargli male al solo pensiero di dover portare tutta quella roba su in casa.
Non gli riuscì di uccidere il sorriso che lentamente gli nasceva sulle labbra sottili, asiatiche. Quattro settimane. Quattro settimane senza di lei, che era scappata nella sua terra alla ricerca di nuove promesse da spezzare, nuovi fantasmi da esorcizzare. Ricordava di essere stato geloso, tanto tempo prima, di quelle sue fughe down the East Coast, dove si divertiva con i suoi amici attori, modelli, giocatori di football professionisti. Oh Dei, quanto avevano urlato entrambi a quei tempi, feriti, spaventati dalla grandezza del loro sentimento, inconsapevoli di quanto profondamente aveva inciso nelle loro vite. Alla fine, Shikamaru aveva imparato a fidarsi: lei lo amava, sia a Tokyo che a Miami. Non lo avrebbe mai, mai, mai tradito.
Aspettò una decina di minuti contro la colonnina, le braccia conserte, quel sogghigno che proprio non ne voleva sapere di andarsene. Fremeva.
Alla fine, fra la folla, comparve. Un delizioso cappellino di paglia poggiato sulla nuca, gli occhiali da sole modello aviator con montatura dorata e lenti marrone, un vestitino bianco di macramè, in equilibrio perfetto sugli zatteroni panna e beige che richiamavano la paglietta. Era così bella da riempire il cuore e la mente di Shikamaru. Non riusciva a pensare ad altro.
Lei aguzzò gli occhi da dietro i sunglasses alla ricerca del suo codino demodé. Quando finalmente lo individuò, le labbra rosa a cuore si incurvarono in un sorriso emozionato. Oh, sì, anche lui le era mancato.
Nessuno dei due corse dall’altro. Lei camminava dritta ed elegante, lui la aspettava senza muovere un dito. Era il loro modo di sfidarsi.
“Nara” lo salutò lei, fermandosi dritta davanti a lui. Era così dannatamente bella…
Airinu” ribatté lui. Non si degnò neanche di chiedere se volesse una mano con la valigia, o con il bagaglio a mano. “Airinu Noriko”.
“Oh, piantala con questo ‘Irene’, dumbass” la sua voce risentiva ancora del gradevole accento del Sud America. “Qui sono Ino. Ino e basta.”
“Ino” Shikamaru non cedette, il ghigno gli si allargava sul volto a vederla corrucciarsi sempre di più. “Bentornata nella patria del Sol Levante. Did you enjoy your stay?” ‘ti sei divertita?’
“Il tuo accento in inglese fa schifo.”
“Sono giapponese” Shikamaru rispose, come se quello risolvesse tutta la questione. Ed in effetti, era proprio così.
“Quanto ancora vuoi fooling around, giocare, Shikamaru?” Ino adorava giocare, ma odiava perdere. In quel momento, la voglia che aveva di saltargli addosso era palpabile, mentre Shikamaru stava gestendo tutto molto meglio di lei. Si sentiva messa all’angolo.
“Oh, ancora un po’” promise il Nara, dopo essersi caricato in spalla la borsa della ragazza. Come previsto, pesava almeno due tonnellate e mezzo. “Devo darti il bentornato.”
Il ragazzo uscì in retromarcia dal parcheggio, guidando nella luce del sole. Irene era nervosa, Shikamaru lo percepiva; era sempre così, ogni volta che tornava in Giappone. Era certa di poter scappare, ma alla fine, tornava sempre lì, nel posto che l’aveva accolta da bambina e che le aveva curato lo spirito, a costo della sua vita.
“Hai qualche incarico?” le chiese, cauto. Ad Ino non capitava spesso di avere la giornata libera, aveva sempre qualcosa tra le mani: un drama da girare, un copione da imparare, una pubblicità in cui fare da protagonista. I sacrifici imposti dalla vita di una idol così famosa come lei.
“No, no” rispose lei, sforzando un’espressione rilassata, “oggi sono tutta per te.”
“Ed è questo che ti fa innervosire?” Shikamaru domandò, senza inflessione particolare nella voce. Era sinceramente curioso.
“Un po’” confessò Ino a cuore aperto. “Ho aspettato tanto questo momento, ma… ora non so come comportarmi.”
“Non dovresti stare così sulle spine a causa mia, lo sai, vero?” Shikamaru ridacchiò. “Ci conosciamo da una vita, Aireen, e dopotutto sei sempre la mia ragazza.”
Questo la fece arrossire. Almeno ora pareva più tranquilla.
Shikamaru sapeva perché Ino era agitata: stavano insieme da quattro anni, da quando entrambi ne avevano quindici. Con il passare del tempo, la questione dell’intimità aveva iniziato ad essere un problema, sia per lui che per Ino. Tra i due c’era innegabile attrazione e chimica, i baci che si scambiavano erano infuocati, ma lei era riluttante a concedersi a lui; non perché voleva conservarsi, semplicemente non si sentiva pronta. E non si sentiva pronta perché anche quando lei e Shikamaru erano quasi sul punto di fare l’amore, lei non sentiva nessuna spinta da dentro che la guidasse o che almeno le suggerisse cosa fare. Non era ingenua: ogni altra coppia di diciannovenni separata per un mese, al ritorno si sarebbe chiusa in casa per almeno altrettanto tempo, ma lei proprio non riusciva a vedersi in quella situazione e Shikamaru non voleva metterle pressione. L’amava, e anche se quell’astinenza gli costava molto, l’avrebbe aspettata.
“Ci prendiamo un milkshake?” suggerì lei, con un sorriso più dolce. Avrebbe fatto di tutto per quel sorriso.
“Va bene.”

6 giugno 2015, Quartiere di Shibuya, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 10.25

Oi, Mushi!” Kiba abbaiò al suo compagno incappucciato. Erano da poco scesi dalla Ginza Line, diretti verso la statua di Hachiko. “Non dovremmo aspettare Hinata?”
Mushi si girò indietro con la testa verso Kiba, senza smettere. “Ha mandato un messaggio mezz’ora fa. Ha un impegno con Hanabi-san e Neji-san, oggi non c’è.”
“Eh?” Kiba lo guardò con tanto d’occhi. “E che cazzo ci sono venuto a fare io qua?”
“Sei libero di andartene” Mushi -soprannome di Aburame Shino- lo freddò, punto nel vivo dall’osservazione dell’amico “tanto la gente non si ferma se tu fischi a tutte le belle ragazze. Anzi, in realtà sarebbe preferibile se tu mi lasciassi solo.”
“Oh, e dai, non fare il permaloso!” si lamentò l’Inuzuka, mugolando come un cane sgridato dal padrone, “sai che vengo per vederti ballare. Hinata è solo un bonus molto gradito.”
Hentai” Mushi scosse la testa, aggiustandosi gli occhiali da sole sul volto.
Questa sua seconda identità, Mushi, era la valvola di sfogo migliore che avesse mai escogitato nella sua vita. Gli permetteva di rifugiarsi dalla pressione di essere un Aburame, il figlio di una stirpe di avvocati di successo, il figlio del grande Shibi, il più affermato legale di tutto il Giappone.
Suo padre era a conoscenza di questo suo passatempo e non gli aveva messo limiti, a parte quello di non farsi intralciare negli studi. “Duty before pleasure” gli ripeteva spesso, “anche se il piacere è imprescindibile per svolgere bene il proprio dovere, non deve mai surclassarlo. Imponitela come regola d’oro, Shino.”
Seguendo il suo esempio, Shino era riuscito a rendere Mushi una delle parti migliori della sua vita. Perfezionandosi nell’hip hop durante ogni momento libero e impegnandosi a fondo nello studio, era riuscito ad ottenere risultati brillanti in entrambe le discipline. Ogni volta che si trovava tra le mani un libro della facoltà di Giurisprudenza, spremeva a fondo le sue energie mentali, in modo da ricavarsi del tempo per esercitarsi nel lazy vault. Ora, Shino era uno dei migliori allievi dell’Università Senju, mentre Mushi era nei trend giapponesi per tutto quello che concerneva hip-hop, breakdance e parkour, con quasi 5.000 followers su Instagram e Snapchat.
Arrivati sotto la statua del fedele cane Hachi, Mushi e Kiba iniziarono a montare l’attrezzatura. Fortunatamente, Shibuya era meno affollata a quell’ora del mattino, quindi nessuno si fermò ad osservare ciò che stavano facendo: i capannelli di gente attiravano la polizia e la polizia esigeva i permessi, che ovviamente non avevano. La Hachi no Sukuoddo -the Eight Squad, come si facevano chiamare- preferiva esibirsi in luoghi meno frequentati, dove si riunivano i b-boys ed i traceurs. Oggi però Mushi se la sentiva di rischiare: aveva bisogno di un’iniezione di adrenalina, visto il disastro combinato all’ultimo test scritto. Non se l’era sentita di confessarlo a suo padre, almeno non ancora. Voleva distrarsi, sentire il calore del pubblico, la stretta allo stomaco che solo la nudità del palcoscenico sapeva generare. Era nervoso all’idea che nulla, quel giorno, si frapponeva tra lui ed i suoi fans, nessuno schermo, niente camera angle.
“Hai fatto?” chiese a Kiba, che stava appunto collegando il suo MP4 alla cassa portatile, entrambi oggetti molto piccoli e facili da trasportare, ma anche molto potenti.
“Sì, è pronto” Kiba rispose con un ghigno ferale, facendo partire la Track 1. “Dacci dentro, Mushi.”

Ino stava sorseggiando il suo caramel latte, appoggiata sulla spalla di Shikamaru, che invece aveva optato per un matcha latte. Nella busta di carta al suo fianco c’erano le loro due classiche donuts, confettura alle more con glassatura al cioccolato per lui e ripieno al cioccolato bianco con copertura di ganache fondente colorata di rosa per lei. Seduti su una delle panchine più riparate del quartiere cosicché Irene non venisse riconosciuta dai fan, parlavano del più e del meno.
“Come sta Sheesh?” chiese la ragazza, guardando all’insù verso il Nara. “E Shikaku-ojiisan?”
“Mamma sta bene, un po’ stressata per via del lavoro” rispose Shikamaru, scostandole pigramente qualche filo d’oro dal volto con la mano che aveva attorno alle sue spalle, “e papà lo conosci, si lamenta sempre fino a quando qualcuno non gli dice di stare zitto.”
Lei ridacchiò. “E tu, stai bene?”
Shikamaru sorrise. “Meglio di ieri a quest’ora di sicuro.”
Ino scostò la cannuccia per dargli un bacio a fior di labbra, che Shikamaru, irrequieto, non tardò ad approfondire. I sapori nelle loro bocche si mischiavano alla perfezione, dolce e tipico quello sulla lingua di lui, esotico ed addictive quello che si assaggiava nel respiro di lei. Nonostante la voglia che avevano entrambi di prolungare quel momento, si staccarono dopo qualche secondo: erano in pubblico e non era educato baciarsi così sfacciatamente. Gli occhi di Irene brillavano mentre leccava via quello che rimaneva del matcha latte dalle sue labbra.
“Sakura mi ucciderà” si lamentò con voce leggermente arrochita, stringendosi di più al suo innamorato. “Avevo detto che l’avrei chiamata non appena fossi atterrata, ma mi sono scordata del tutto. Colpa tua.”
“Colpa mia?” Shikamaru ridacchiò. La voce era più profonda di prima, probabilmente perché ora era molto più eccitato. “Sei tu che hai il cervello di un pulcino, Aireen.”
Hey, you!” ribatté piccata, tirandogli uno schiaffo sul petto, “sei tu che hai la testa troppo grossa e piena di stronzate!”
Shikamaru rise, divertito, facendo sorridere anche lei. “Sei scurrile ed inappropriata.”
“Tu invece sei fin troppo polite” Ino lo rimbeccò con decisione, “troppo nipponico, ecco.”
“Io sono il purosangue meno nipponico che ci sia” Shikamaru rispose tranquillo, “e tu lo sai benissimo.”
Ino sospirò. Purosangue, già. Una parola scomoda, per lei, ma che purtroppo non poteva essere evitata: non quando esistevano persone come Irene Noriko. Purosangue, nel senso di nato da due genitori giapponesi… mentre lei invece era solo una hafu, nata da padre giapponese e madre americana.
Sua madre… una delle migliori attrici dagli anni novanta, bionda come il sole, due occhi blu come schegge di lapislazzulo. Perdita Santarelli, tre golden globe come migliore attrice in un film drammatico, una nomination agli oscar, protagonista di tanti film che avevano sbancato ai botteghini di tutto il mondo, che aveva fatto letteralmente impazzire suo padre da giovane e con il quale aveva avuto una figlia bellissima, Irene. Sembrava l’inizio di una paradisiaca favola, ma bastava precisare una sola, minuscola postilla, per smontare del tutto l’idillio: sua madre era afflitta da un grave disturbo psichico, noto come Cluster B o anche disturbo borderline della personalità. Il suo compulsivo desiderio di tenere vicini Inoichi ed Irene, la paranoia generata dal rapporto stretto che avevano i due durante la tenera infanzia della figlia, secondo la quale entrambi stavano tramando contro di lei, la gelosia, il gioco d’azzardo, le medicine, avevano guidato Ino lontana da lei, nelle braccia di un’altra famiglia, amici del padre.
Irene era cresciuta come una seconda figlia di Yoshino e Shikaku, amata dai due proprio come se fosse stata loro. Allontanatasi sempre di più da un Inoichi incapace di capire i bisogni della figlia, alla fine era diventata l’unica cosa possibile in quel mondo così austero come quello giapponese: una idol, strumentalizzata per il suo bell’aspetto e per i suoi tratti misti, su tutti gli occhi cerulei leggermente affusolati. Era una modella richiestissima in entrambe le sue patrie, ma nonostante il successo, non si sentiva bene con sé stessa. L’unico punto fermo in quella vita sempre così caotica, oltre alla sua famiglia adottiva, era proprio Shikamaru, insieme con il loro amico d’infanzia, Choji.
“Mi dispiace” Shikamaru si scusò, abbracciandola più stretta, “non avrei dovuto dirlo. Mi è scappato di bocca, io…-”
“Non importa, davvero” Ino lo fermò con uno splendido sorriso, un po’ distante, pieno di quella dolcezza riservata solo a lui. “So cosa intendevi. Sei di mente aperta e guardi all’Occidente non con diffidenza, ma con entusiasmo e voglia di scoprire. È quello che mi ha fatto prendere una sbandata così forte per te.”
“Non perché sono attraente ed ho un grande cervello?” il Nara la punzecchiò.
Lei finse di pensarci un attimo. “No, nemmeno un po’.”
“Oi!”
Ino rise forte, divertita dalla sua irritazione.
Continuarono a chiacchierare liberamente per almeno un altro quarto d’ora, prima che Shikamaru venisse distratto dal suono soffocato di bassi potenti. Alzando gli occhi da Irene, notò una ressa di ragazzi che aveva più o meno la loro età, intenti a schiamazzare e fare foto con il loro smartphone.
“E quello?” chiese Shikamaru, accennando alla stranezza in piazza.
“Non lo so, ma voglio vedere!” Ino era già esaltata. Lo trascinò per il polso a guardare lo spettacolo, nonostante gli sbuffi di Shikamaru su quanto fosse problematica e seccante l’intera faccenda.
Non appena Ino si fu affacciata per comprendere l’entità di tutto quell’entusiasmo, si lanciò in un gridolino. “Oh my God, Shika, it’s crazy! È Mushi!”
“Mushi?” ora Shikamaru doveva ammettere di essere molto sorpreso. Mushi, per quanto ne sapeva, non si faceva vedere spesso in pubblico, anzi era persino difficile da beccare in giro, nonostante fosse così popolare ultimamente. Lui non era un suo fan, non gli interessava quel mondo, ma era così tanto famoso da aver solleticato il suo interesse. Avesse fatto un vlog su quella giornata, avrebbe avuto un botto di visual.
La folla scandiva “Mu-shi! Mu-shi!”, in delirio per quel tizio con il cappuccio. Shikamaru si chiese cosa sarebbe successo se avesse tolto gli occhiali da sole ad Ino in mezzo a tutta quella gente, si sarebbero distratti dal b-boy per assalire la idol? Non ne era proprio sicurissimo.
Mushi chiuse con eleganza la traccia, finendo con un passo di break. Il suo compagno con i capelli corti allontanò il pubblico troppo vicino, facendo segno di lasciare spazio all’artista per farlo esibire.
Shikamaru diede un’occhiata all’orologio del suo cellulare, tirando poi il polso ad Ino. “Dai, dobbiamo andare.”
“Cosa?” Irene protestò, “siamo appena arrivati! Dai Shika, solo un’altra canzone!”
“Irene, sono già le undici e Chou ci aspetta per pranzo” lui fu irremovibile nella sua replica, accompagnandola via. “Nel frattempo che passiamo al tuo appartamento e ti sistemi, saremo già in ritardo. Forza, su, muoviti.”
“Va bene, va bene, arrivo!” si arrese lei con un sospiro greve, facendogli una linguaccia. Certe volte odiava che fosse così responsabile.
Shikamaru si voltò a guardare di nuovo Mushi, che nel frattempo beveva una bottiglietta d’acqua naturale. Si chiedeva chi fosse dietro quella maschera, se si assomigliassero. Cosa potevano avere in comune, due come loro? Forse il percorso di studi, forse solo l’età, forse soltanto quel desiderio di evadere dalla vita comune e diventare qualcuno di diverso, qualcuno che potesse essere ammirato. Non era per quello stesso motivo che aveva aperto il suo canale YouTube, insieme ad Ino e Chouji? E allora perché lui sembrava fare di tutto per nascondersi, per non farsi trovare? E perché proprio quel giorno aveva smesso di essere invisibile?
“Smettila di stare lì impalato, hai detto tu che dovevamo sbrigarci!”
“Ah, sì, hai ragione… andiamo.”

6 giugno 2015, Quartiere di Shinjuku, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 12.25

Yoshino si era appena fermata per riprendere fiato. Di norma, andava ad allenarsi al mattino presto, intorno alle sei e mezza, ma negli ultimi giorni gli impegni l’avevano tenuta fuori dai giochi. Si era ritagliata una parentesi di tempo solo quell’oggi, dopo essere stata da Ayame. Il racconto della ragazza le era ancora nella mente, spaventoso e terribile.
Secondo la sua versione, Tokuma l’avrebbe drogata con un potente sonnifero e poi trascinata in un bagno del locale, dove aveva abusato del suo corpo senza che lei potesse opporgli resistenza. Il fatto che lo Hyuuga non solo l’avesse effettivamente violentata, ma anche che le avesse somministrato Rohypnol a sua insaputa, avrebbe reso l’accusa ancora più grave. Come provarlo, però?
La famiglia Hyuuga era nota agli inquirenti per aver trafficato, almeno fino alla metà degli anni novanta, droga in tutto il Giappone. Il denaro veniva pulito attraverso una fitta rete di industrie varie di proprietà di vari membri della famiglia più stretta -la ‘Casata Principale’, o ‘Main House’, come la chiamavano i servizi segreti- mentre gli altri cugini e zii figuravano come azionisti all’interno di banche e business molto quotati in Borsa -la ‘Casata Cadetta’ o ‘Branch House’. Nonostante tutto, però, la polizia non aveva in mano niente per poter incriminare gli Hyuuga. Si erano infiltrati bene nella politica, avevano legami importanti con la Sumiyoshi-kai di Tokyo (uno dei più grandi gruppi Yakuza del Giappone) … nemmeno con l’aiuto di Asuma avrebbe potuto smontare gli Hyuuga. Tokuma, però, avrebbe pagato. Yoshino lo aveva giurato a sé stessa.
Corse sul posto, aspettando che il semaforo pedonale diventasse verde. Sentiva gli sguardi addosso di alcuni salarymen fermi dietro di lei: una bella donna con addosso leggings grigi e una canottiera sportiva non passava mai inosservata, soprattutto se non indossava la fede. Quelle occhiate la facevano imbestialire, si sentiva un oggetto in vetrina, una macchina di lusso che solo in pochi potevano permettersi.
Envy is something even the greatest man is prone to.” ‘La gelosia è qualcosa che anche il migliore degli uomini è propenso a provare.’
Sussultò al ricordo della voce di Shibi che le mormorava quelle parole nell’orecchio. Quando era successo, vent’anni prima? Sì. Parlava di Shikaku e di come lui le ronzasse troppo intorno.
Si domandava cosa avesse provato lui a vederla lì, in quella stanza, dopo vent’anni dall’ultima volta. Era felice? Arrabbiato? Confuso? L’aveva dimenticata? Lei era convinta di averlo fatto.
Quando era entrato, il giorno prima, aveva portato con sé una ventagliata del profumo della giovinezza di Yoshino. Lui sapeva di calore, di passione, di tormento, di trasgressione, di comprensione, di bellezza, di abbondanza, di fierezza, di carnalità, ed era ancora così affascinante. I giorni passati nelle sue braccia, sopra le sue labbra, le avevano annebbiato la mente per una frazione di secondo ed era stato troppo. Aveva preso il sopravvento e spinto lei da parte.
Non sarebbe più dovuto accadere. Quella nostalgia era comprensibile, gli anni con Shibi erano stati pieni ed importanti a modo loro, ma ora Yoshino viveva un’altra vita, non era più una ragazzina con tanti sogni, ma una donna con molti obiettivi. Non era più il suo snowdrop, il suo bucaneve.
Sorrise amara al ricordo: Yukinohana -bucaneve, appunto-, il suo cognome, era una delle prime parole che Shibi aveva imparato a pronunciare correttamente senza l’influsso pesante del suo accento americano. Ciononostante, lui preferiva chiamarla così, a modo suo, nella sua lingua amata.
Il verde scattò e Yoshino riprese a correre. Dopo avrebbe allenato gambe e braccia, poi un’altra sessione di jogging per tornare a casa. Stava proprio pensando a quello, quando il cellulare squillò.
“Yukinohana” rispose dall’auricolare.
“Yosh” era la voce di Shikaku. “Quando torni a casa?”
“Volevo finire di allenarmi” spiegò la donna, stringendosi la coda, “è successo qualcosa?”
“No, no, è che mi manchi” disse lui con la sua migliore voce suave. Ovviamente, Yoshino non ci cascò.
“Ti ho lasciato degli avanzi della zuppa di ieri in frigo, cretino.”
“Ah, davvero? Ho provato a farmi un po’ di quel ramen precotto, ma è troppo difficile!” si lamentò lui, “il tuo uomo è affamato.”
“L’acqua la devi bollire prima di versarla, Shikaku” perché era così intelligente e così stupido allo stesso tempo?, “ormai buttalo, non mangiarlo.”
“Certo, tesoro.”
“Lo hai già mangiato, vero?”
“Avevo tanta fame. La zuppa la posso riscaldare in microonde?”
“Sì, ma cambia il piatto, quello non va in microonde” si raccomandò la donna, a metà tra lo spazientito ed il divertito.
“Tu ne hai ancora per molto?” Yoshino sentì le molle del divano scricchiolare mentre Shikaku si alzava, “sei via da stamattina, mi sento trascurato.”
“Sono venuta a casa per cambiarmi” gli ricordò lei, giusto per il gusto di contraddirlo, “comunque, arrivo tra un’oretta. Lasciami un po’ di zuppa.”
“Ora stai pretendendo troppo.”
“Dai Shika, non fare l’idiota!”
“Sì, sì, non ti preoccupare” lui ridacchiò dall’altra parte del telefono, “a dopo.”
“A dopo” Yoshino non riuscì a non sorridere, mentre riagganciava. Quello era il suo presente; Shikaku, Shikamaru, Aireen: il suo compagno e i loro due figli, ognuno a modo loro. La sua famiglia perfetta che aveva curato con amore e dedizione per diciannove anni e che si era presa cura di lei in risposta. Con Shibi, quel sogno non si sarebbe mai potuto realizzare.
Correndo, avvistò lo Shinjuku Skyscaper District, l’area dei grattacieli del quartiere.
In lontananza, vedeva luccicare la Byakugan Tower, il simbolo indiscusso del potere degli Hyuuga, costruito con i loro soldi sporchi e che fruttava, lordo, almeno mezzo miliardo all’anno. Per capire quanto fosse esorbitante la cifra, bastava pensare che il Keio Plaza Hotel nella stessa zona, uno degli alberghi più cari di tutta Tokyo, faceva un miliardo all’anno. La disponibilità economica di quella famiglia era illimitata: cosa erano quei pochi spiccioli che spendevano per mantenersi un avvocato del calibro di Aburame Shibi? Nulla.
Yoshino promise a sé stessa che, se proprio non fosse riuscita ad abbatterli, sarebbe perlomeno stata una delle più grandi seccature legali accadute a quei mafiosi nell’ultima decade. Avrebbe incriminato Tokuma e gettato fango sulla loro reputazione, poco le importava se avesse dovuto spendersi giorno e notte per raggiungere quello scopo: Hyuuga Hiashi sarebbe caduto in ginocchio e lei avrebbe avuto la soddisfazione di imbarazzare uno Yakuza permanentemente. Aburame Shibi non le avrebbe impedito di raggiungere quello scopo.
Ringraziando il cielo, non era da sola in quell’impresa. C’era qualcun altro che l’aiutava nell’ombra e, proprio in quel momento, stava agendo silenziosamente.

6 giugno 2015, Quartiere di Ueno, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 18.25

Era raro di Asuma che stesse in silenzio, i suoi colleghi avrebbero commentato con un sorriso sarcastico. Il gatto gli aveva mangiato la lingua? Doveva essere dura, visto quanto lavorava ad ogni ora del giorno.
La sigaretta tra le sue labbra pendeva, la cenere era in bilico pericolosamente. Stava consultando alcuni documenti che era riuscito a ‘prendere in prestito’ dall’ufficio riguardo alla famiglia Hyuuga, possedimenti, conti bancari, illeciti recenti che però non erano mai riusciti a passare oltre la fitta rete di canali giudiziari e politici da loro controllati.
Il traffico di droga gestito da Hyuuga Hiashi, il capo famiglia, era aumentato negli ultimi anni, triplicando i profitti su una vasta area. Sicuramente, non era in affari con i piccoli spacciatori controllati dalle famiglie Yakuza, ma a molti dei suoi parenti erano intestati locali a luci rosse, gestiti poi da membri della Casata Cadetta o da persone esterne, nei quali coca, ero, crack e meth erano facilmente vendibili. La discoteca più grande, Takamagahara, in Shinjuku, era affidata proprio a Tokuma, che la amministrava per conto di uno zio di Hiashi.
Quello sarebbe stato un buon posto per iniziare la sua caccia. A quell’ora del giorno, il Takamagahara era chiuso, ma si sarebbe presentato quella sera con una delle sue false identità. Conservava ancora il passaporto e il koseki di Shinohara Naoki, sarebbe andato bene. Il piano da lì in poi sarebbe stato improvvisato, come al solito. Asuma era un uomo a cui pensare faceva male, soprattutto perché gli era difficile rispettare un copione prestabilito; era un buon attore, ma era ribelle.
Per molti anni, aveva fatto l’agente sotto copertura alla PSIA -la Public Security Intelligence Agency, uno dei servizi segreti giapponesi- prima di passare alla polizia. Lì, un inconveniente sorto proprio con la famiglia Hyuuga ed il cioccolatino lo aveva portato agli affari interni; soltanto grazie all’aiuto di Miss Tacchi a spillo, Sarutobi era riuscito a mantenere il distintivo. Le doveva molto.
Asuma non aveva ancora parlato dell’incarico a Konohamaru. Da quando i genitori del nipote erano morti in un incidente d’auto, la custodia legale del pargolo era passata a lui, unico parente prossimo ancora in vita. Aveva venticinque anni quando il giudice aveva emesso la sentenza, praticamente ancora un ragazzino; Konohamaru non era mai stato un bambino difficile, ma Asuma non aveva voglia di giocare al genitore, soprattutto con la testa di merda che si ritrovava a venticinque anni. Non che ora, da trentacinquenne, si sentisse più saggio.
Il piccolo si era cresciuto da solo e, nonostante gli screzi occasionali, zio e nipote si volevano un bene dell’anima. Era stato proprio per Konohamaru che Asuma aveva rinunciato ad un lavoro pericoloso come l’agente sotto copertura, seppure gli piacesse molto. Ora, Yoshino gli stava chiedendo di rituffarsi in quel mondo, facendo immersioni in una delle famiglie più potenti di Tokyo. Konohamaru sarebbe impazzito dalla preoccupazione.
La sigaretta si era consumata. Frugò nella tasca posteriore dei pantaloni, prima di rendersi conto che aveva buttato il pacchetto vuoto poco prima. ‘Merda’.
Con uno scricchiolio di ghiaia, Asuma si incamminò verso la tabaccheria più vicina. Quello era il suo quartiere, dove con Hiruzen e suo fratello Aoi era diventato un ragazzino pieno di sogni. Era rimasto lì fino all’arrivo di Konohamaru, poi aveva optato per cambiare zona. Tokyo in generale non era una città pericolosa, ma Ueno di notte non era adatta ad un bambino di cinque anni, soprattutto visto che il suo unico genitore era sempre assente. Passò davanti allo zoo e ad uno dei parchi, dirigendosi lentamente verso una delle tabaccherie.
Distratto, non si accorse di andare addosso a qualcuno. I due si scontrarono ed Asuma perse i fogli che aveva rubato al distretto. “Porca-!”
Era pronto ad imprecare contro quell’idiota di un passante che non aveva fatto nulla per evitarlo, ma una folta chioma di capelli scuri lo dissuase. Era una donna l’oggetto delle sue ire e, seguendo la sua etichetta, non avrebbe potuto mai urlare contro una donna. La borsa le era caduta per terra e molte delle sue cose erano ora sparpagliate sul marciapiede.
“Oh, merda mi dispiace” si scusò Asuma, raccogliendo l’agenda della signorina e riponendola di nuovo all’interno della borsa di pelle bianca, “colpa mia, non stavo facendo attenzione. Ti sei fatta male?”
La donna raccolse i fogli cascati dalle mani di Asuma, impilandoli con gesti secchi delle mani. “No, non si preoccupi, avrei dovuto evitarla.”
Vedendola ordinare così celermente le carte, il detective si chiese che lavoro facesse. Poi con lo sguardo risalì le braccia magre, le spalle strette, e decise che non gliene importava nulla: quella era, senza la minima ombra di dubbio, la donna più sexy che i suoi dannati occhi avevano mai avuto il piacere di osservare. Portava Ray-Ban wayfarer tartarugate che impedivano di osservarla per bene in viso, ma gli zigomi alti da principessa, il viso a cuore e la messa in piega perfetta della folta chioma ebano scatenavano pensieri decisamente poco casti nella mente di Asuma. Le labbra rosso bordeaux erano leggermente dischiuse per lasciarla respirare e l’uomo avrebbe desiderato baciarla -o che lei baciasse lui, e più a sud della bocca.
“Signore?” lei lo chiamava, i suoi documenti -sporchi, maledizione- tesi verso di lui. Non sembrava contenta di essere ignorata. O forse, più probabilmente, si stava chiedendo contro che razza di decerebrato era andata a sbattere. Asuma stesso sentiva di essere diventato parecchio più impedito.
“Scusami” lui le porse di nuovo la borsa. “Normalmente, so essere più affascinante.”
“Non ne dubito” dalla sua espressione sembrava dubitarne alquanto, ma voleva essere gentile.
“Posso provartelo, se vuoi” lui le sorrise. Doveva recuperare in fretta, non poteva farsi sfuggire Sangurasu-hime. “Sei disposta a darmi una chance?”
“Purtroppo, sono impegnata” lei lo liquidò, cercando di non apparire troppo rude. Maledizione. Era stato avventato.
“Non c’è problema” lui incassò con eleganza, rialzandosi e dandole una mano a fare lo stesso. “Scusami ancora per l’incidente. Sei sicura di stare bene?”
“Sono certa” lei ripeté, “grazie per l’accortezza.”
“Figurati, è un dovere” Asuma sorrise ancora, a labbra strette. Non voleva apparire patetico, ma nemmeno rassegnarsi così alla svelta.
“Arrivederci” anche lei accennò un sorriso mentre si inchinava. Asuma piegò leggermente il capo.
“Posso sapere il tuo nome, o sei troppo impegnata anche per quello?” domandò l’uomo, cercando di fare il simpatico.
Lei ci pensò su un secondo. “Kurenai.”
Non gli aveva mica dato un nome falso? Sperava proprio di no.
“Allora arrivederci, Kurenai” Asuma la salutò con un cenno. Lei sorrise cordialmente, magari solo per liquidarlo alla svelta, tornando ad incamminarsi.
Dannazione. Che occasione sprecata. Certo, d’altro canto, quella sera ne avrebbe viste di belle ragazze che dimenavano i loro corpicini in pista, di dieci, tredici, quindici anni più giovani di lui. Il fatto che fosse in missione per conto di Miss Tacchi a spillo non gli impediva certo di divertirsi, no?

6 giugno 2015, Takamagahara Club, Quartiere di Shinjuku, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 23.15

Shibi si rilassò contro lo schienale del divanetto di pelle imbottito mentre i bassi esplodevano. Il Takamagahara era pieno, come al solito; uomini e donne di tutte le età ballavano a ritmo della musica occidentale più cool del momento, dimentichi del loro presente, della loro estrazione sociale, persino del loro nome. Il beat della musica popolare pervadeva il petto, la schiena, le labbra, la pista era un’onda di braccia e gambe che si contorcevano e si agitavano, trascinate e possedute dalla melodia ipnotica che non spingeva, costringeva a ballare.
Era stato lui a suggerire il nome ‘Takamagahara’ quando il club era stato costruito. Takamagahara, il regno del Paradiso su cui regnava la splendida regina dell’Alba, Amateratsu, dove la notte rincorreva il giorno ed il giorno si accendeva di passione e desideri nel disco rosso fuoco che sorgeva dal mare, leciti solo alle prime luci.
I faretti del club vorticavano, cremisi, spettrali, rendevano viola intenso il completo blu scuro che indossava. Sorseggiò lo scotch che aveva ordinato nell’attesa di Hiashi, gli occhi fissi sulla platea folleggiante. Aveva già adocchiato qualche possibile preda per la caccia di quella notte, gli obiettivi erano leggermente diversi da quelli abituali dell’Aburame.
Quella che più di tutte aveva catturato la sua attenzione era una giovane ragazza giapponese di vent’anni appena, gli occhi castani da cerbiatta, un vestito sobrio che le stava d’incanto. Avrebbe potuto avere qualunque altro uomo in sala, magari persino uno che la portasse all’altare, ma Shibi l’aveva scoperta a guardarlo; non lo temeva, lo voleva. Perfetto, visto che in quella notte sarebbe stata sua.
“Chi non muore si rivede, eh, vecchio bastardo?” la voce del suo socio in affari lo distrasse dalla contemplazione di lei, facendogli sorgere un sorriso sulle labbra scure. “Credevo che dopo la figuraccia di ieri in tribunale non ti saresti mai più fatto vedere.”
It’s not like I fear you, Hyuuga” Shibi si alzò in piedi per stringere la mano di Hiashi, “non sei alto abbastanza per spaventarmi.”
Il proprietario del club schioccò le dita ed una cameriera si fermò, chinandosi verso di lui in attesa dell’ordinazione. “Un Mojito ed un Martini ghiacciato”.
Poco dopo, infatti, una bellissima donna asiatica si fece strada verso il duo. Era Kazue, la concubina di Hiashi, che a lui piaceva esibire in occasioni mondane come quella. Stretta in un abito a sirena indaco, era una delle donne più belle che Shibi avesse mai visto. Non la più bella, quel posto non le spettava, ma era senza dubbio una meraviglia per gli occhi.
“Aburame-san” lo salutò. Shibi, con delicatezza, le baciò il dorso della mano.
“Kazue-san, è sempre un onore incontrarti.”
Hiashi sospirò, scoccando un’occhiata inacidita al compagno mentre stringeva l’altra mano di Kazue. “Non mi piace quando fai lo splendido con la mia donna, negro, e lo sai.”
Shibi ghignò, astuto. “Se volessi rubartela, non avrei aspettato sei anni, Hiashi. Ora sarebbe già nel mio letto.”
“Non è per colpa di una donna che il mio Tokuma non è stato scagionato?” lo Hyuuga colpì dritto nel centro del bersaglio. Shibi si mise più dritto con la schiena, portandosi il bicchiere a tulipano contro la bocca.
“La Yukinohana non è un problema” asserì l’uomo con la pelle scura, “è un avvocatuccio. La schiaccerò non appena possibile.”
Hiashi sollevò le sopracciglia, palesemente scettico riguardo alle parole fin troppo audaci di Shibi. “Sarà, ma a me pare che lei ti tenga bello stretto per le palle, socio. È una che non demorde, è come un cane con l’osso.”
“Patteggiare non è un’opzione, no?” l’avvocato ribatté. “La fedina di Tokuma è sporca, Hiashi. Si è barricato in casa e non ne vuole sapere di parlare con me. Thanks goodness, la ragazzina non si è accorta di essere stata drogata, ma questa condizione cambierà in fretta. Tra qualche giorno, gli esami del sangue saranno disponibili e il Rohypnol salterà fuori.”
“Stai gettando la spugna?” Hiashi chiese. La cameriera gli servì il Mojito, mentre Kazue faceva dondolare il Martini on the rocks, attenta a cogliere le sue espressioni facciali.
“No. Sto solo dicendo che dobbiamo essere più cauti” Shibi prese un altro sorso del suo scotch. Gli bruciava la gola così bene…
“Questo caso sta iniziando a vendere bene per i media, Hiashi. Giornalisti, rassegna stampa, all these bullshits. Dobbiamo chiudere tutto, e anche molto alla svelta, se non vogliamo che la cattiva pubblicità ricada su di te e gli Hyuuga. Sei bravo in quello che fai, but you’re no Yakuza, e nemmeno Nishiguchi in persona garantirebbe per te dopo questo increscioso inconveniente.”
“Paghiamo la ragazza e facciamola stare zitta” propose Hiashi, spazientito da come il suo socio la tirasse per le lunghe.
“Non puoi” Kazue si intromise, sorseggiando il suo Martini, “la procura non ti permetterà di insabbiare tutto. Catturare un pesce grosso come Tokuma li permetterà di avvicinarsi alla Sumiyoshi-kai più di quanto abbiano mai fatto dalla riforma del ’95.”
Shibi annuì. “Per ora, dissociati dagli atti di Tokuma con un comunicato. ‘Siamo spiacenti per l’inconveniente sorto’, ‘un atto del genere non è condonato da nessun socio Hyuuga’, queste stronzate qui.”
“Io sono un mafioso, Shibi, non un politico” Hiashi lo fulminò con un’occhiataccia. “E non posso abbandonare la famiglia in questo modo. Non dopo quello che è successo a mio fratello.”
“Credevo fosse tuo interesse entrare nell’imprenditoria, appunto per smetterla di fare il mafioso” Shibi ribatté, calmo. “Sei troppo vecchio per questa vita, Hiashi. Neji prenderà il tuo posto, se non oggi, tra cinque anni. Tokuma sarebbe dovuto entrare in politica per permettervi di ammanigliarvi meglio nel governo della prefettura, ma that dumbass si è giocato ogni chance di fare carriera, se non di stare in libertà.”
“Ti rendi conto che questa cosa mi rivolterebbe l’intera Casata Cadetta contro?” Hiashi ruggì. Kazue lo ammansì con una mano sul petto. I due si guardarono, Hiashi prese un bel respiro e cercò di calmarsi per quanto possibile.
“Aburame-san agisce nel massimo del tuo interesse, anata” la donna lo coccolò con un tono di voce dolce e melodioso, “non dovresti arrabbiarti se le soluzioni da lui proposte sono in conflitto con il tuo orgoglio. Fidarsi di Aburame-san non ha mai portato male, sei d’accordo?”
“Sì” lo Hyuuga cedette, rivolgendo uno sguardo più ragionevole al socio di vecchia data. “Ma non posso mostrarmi troppo duro con Tokuma, non all’interno del clan.”
“Lascia che Neji mitighi la questione con la Branch House” Shibi gli consigliò, “si fidano di lui più che di te. Sono troppo ciechi per riconoscere che è la tua volontà che lo muove come un burattino.”
“Neji è il figlio di Hizashi, lui è parte di quella gente” Hiashi annuì. “Mi sembra una buona soluzione. Ma rimane aperta la questione di Yukinohana-san.”
“Tu lascia perdere Snowdrop” l’Aburame si mostrò più veemente su quel punto. “Me ne occupo io. Io sono l’avvocato, mia l’accusa.”
“Va bene, va bene” Hiashi non soppresse il sogghigno che gli nasceva sul volto. Sarebbe stato sicuramente divertente vedere Shibi lottare contro i suoi antichi spettri. “Vediamo come te la cavi con quella sventola.”

Asuma teneva il braccio allacciato alla vita della ragazza che gli ballava praticamente addosso. L’aveva conosciuta mezz’ora prima al massimo, ma era già palese dove lei volesse andare a parare. Era carina, un sette e mezzo di viso e di corpo. Ma, cosa più importante, era una Hyuuga ed una bella chiacchierona.
“Andiamo a prenderci qualcosa” disse, la musica lo stordiva. Erano anni che non andava in discoteca, si sentiva decisamente troppo vecchio per quella merda. Le tonalità elettroniche erano accolte da un grido dalla folla, che sembrava adorare il disc jockey di quella sera.
Lei annuì. “Per me un Cuba libre!”
Asuma si accomodò su uno dei divanetti vicino al mostruoso bar, lei invece gli si sedette direttamente in braccio.
“Vuoi assaggiare?” chiese maliziosamente, avvicinando il bicchiere alle labbra dell’uomo. Lui prese una generosa sorsata, guardandola negli occhi.
“Allora, piccola” Asuma le accarezzava la schiena con movimenti lenti e studiati, “è tuo questo posto?”
Lei ridacchiò, palesemente alticcia. Non si sarebbe ricordata nulla di quella serata. “Stai scherzando, vero? Mio padre non ha nemmeno i soldi per comprare questo locale! No, questa è roba di Hiashi, tutto suo.”
“Il grande capo in persona” Asuma le sorrise, e lei a lui. “Non è troppo impegnato per mandare avanti tutto questo? Immagino che essere il padrino degli Hyuuga gli occupi parecchio l’agenda.”
“Oh, infatti lui non lo gestisce, a volte ci viene solo per controllare che sia tutto okay, tipo come ora” lei indicò con gli occhi la balconata, dove ad uno dei tavolini quadrati sedeva Hyuuga Hiashi assieme a nientepopodimeno che Aburame Shibi. Due piccioni con una fava, Asuma non credeva di essere così fortunato.
“Lo sanno tutti che il Takamagahara lo fa girare Tokuma-kun” continuò lei, giocherellando con il pizzetto del detective, “lui organizza gli eventi migliori. Alcool a fiumi, musica strepitosa, qualunque cosa vuoi, la trovi al Takamagahara.”
“Mh, sì?” Asuma si dimostrò interessato, afferrando il fondoschiena della giovane. “E dove è adesso, questo Tokuma-kun? Vorrei stringergli la mano per avermi fatto passare la serata migliore della mia vita.”
Lei rise. “Non lo troverai qui. Tokuma-kun sono settimane che non esce di casa, dopo il casino che è successo! Ne avrai sentito parlare, no, di quella sciacquetta che dice di essere stata violentata da lui?”
Asuma annuì, greve.
“Balle!” lei scosse le spalle, poco impressionata. “Tokuma-kun non ha certo bisogno di violentare una puttanella per scopare! Secondo me si è inventata tutto solo per avere qualche centesimo del suo patrimonio!”
“E perché Tokuma dovrebbe nascondersi se è innocente?” Asuma incalzò.
“I giornalisti lo assaltano di continuo con questa storia, poverino! Non ha più un minimo di privacy” lei espose in tono commiserevole. Asuma avrebbe voluto dirle che non era Tokuma ad avere bisogno di pietà, ma la povera ragazza che aveva assalito e a cui aveva tolto ogni momento di pace, sia durante il sonno che nella veglia, che continuava a visitare quel luogo nei suoi peggiori incubi, che vedeva il suo riflesso in tutti gli specchi, ma si morse la lingua. Era lì anche per fare giustizia ad Ayame.
“E ora chi è che manda avanti il Takamagahara se Tokuma non c’è?” chiese lui, curioso.
“Suo fratello, Minoru” lei gli fece cenno verso un altro ragazzo dal taglio emo. Era alto e magro e pareva non aver dormito per giorni, ma nonostante tutto Asuma percepiva quanto fosse sveglio in realtà. “Secondo papà, è una benedizione che Tokuma non sia più negli affari degli Hyuuga, ma quel Minoru… non ha proprio l’aria da festaiolo, mh?”
Asuma si sforzò di ridere. “Non esattamente. Noi due però sappiamo divertirci, non è così?”
“Decisamente…” mormorò lei, lasciando il bicchiere sul tavolo per poterlo baciare. Asuma la strinse a sé, ricambiando l’intensità della ragazza ma ritagliandosi lo stesso un angolino per pensare.
Hyuuga Minoru, fratello di Hyuuga Tokuma ed erede della sua quota nell’attività illecita gestita dal clan. Di primo acchito, sembrava molto più serio del suo predecessore e qualcuno che sarebbe stato molto più difficile cogliere con le mani nel sacco. Ne avrebbe parlato a Miss Tacchi a spillo, quella scoperta era decisamente importante.
“Naoki-kun?” lo richiamò lei, indolente.
“Scusa, piccola” Asuma la baciò a fior di labbra, “le chiavi le ho in tasca. Andiamo a casa tua?”
“Non aspettavo altro” rise lei.

7 giugno 2015, Quartiere di Shinjuku, Tokyo, Giappone sud-occidentale, ore 3.18

La bocca di Shibi era fusa in quella di Aimi -questo il nome della ragazza incontrata al club. Le mani di lei erano sul petto nudo di lui, lui le stringeva la schiena sudata. Avevano appena finito di fare l’amore, ad Aimi mancava ancora il respiro.
“Aburame-san” lo chiamò lei con la voce giovane piena di dolcezza. Avrebbe potuto essere tranquillamente la figlia di Shibi, ma non era ingenua: sapeva che quella era solo una notte di passione torrida e che domattina avrebbe dovuto lasciare quel letto ad un’altra donna. “Posso rimanere qui stanotte?”
Sure” lui acconsentì, alzandosi alla ricerca dei pantaloni del completo. “Potrei dovermi alzare presto domani, chiamati pure un taxi quando ti svegli.”
Lei annuì.
Lui trovò il pacchetto di Marlboro nella tasca e sfilò una sigaretta, lasciando il resto della confezione sul comodino. L’accendino Zippo d’argento era già nel cassetto, pronto per quella occasione. Trovava che il sesso ammorbidisse deliziosamente il gusto del fumo, rendendo il momento della prima boccata paragonabile -se non addirittura migliore- a quello dell’orgasmo.
“Posso farle una domanda indiscreta?” chiese lei poi, curiosa come la sua natura di studentessa le imponeva.
“Solo se posso scioccarti con la mia risposta” ribatté lui con un sorriso, guardando il riflesso della ragazza sul vetro. Dio, Dio, le assomigliava da impazzire: avevano la stessa pelle di marmo, gli stessi capelli castani, la stessa forma allungata degli occhi, ma nonostante gli sforzi dell’avvocato, non riusciva ad ignorare le differenze. Quel sorriso non era così perfetto, la forma del collo non era elegante come la sua, il portamento non aveva niente a che fare con la regalità intrinseca che pervadeva ogni suo gesto. Le assomigliava abbastanza da illuderlo, ma non abbastanza da convincerlo.
“Lei è uno Yakuza?”
“No.”
“Allora perché ha quel tatuaggio?” Shibi chiuse gli occhi, un sorriso amaro sul volto.
Il lungo stelo di un bucaneve segnava il corso della sua spina dorsale, il fiore sbocciava tra le scapole, lo stame giallo trionfava sulla terza vertebra. Gli aveva fatto un male di inferno quando se l’era tatuato, ma tuttora non se ne pentiva.
“È un segno di quanto dolore possa provocare l’amore” rispose lui. Per un secondo, l’immagine di Aimi ballò sul vetro della finestra, sostituita da quella di una Yoshino molto più giovane che lo osservava dal suo lato del letto, poi da quella di una Yoshino più matura, persino più bella, che lo osservava sotto il banco del giudice.
“Un dolore che non sparisce, un dolore indelebile. Come l’inchiostro sotto la pelle.”

Ladie’s a gentleman! (note dell’autrice):
Quattordici mesi sembrano pochi a confronto del terribile spettro dell’abbandono, eh? No? No?? Ok.
Che dire, lettori (se ce ne sono), è tardi, è notte e domani non avrò il tempo di pubblicare, ma l’hype è troppo grande per aspettare due interi giorni, quindi diciamo che ve lo metto stanotte con il rischio di dimenticarmi di spiegare qualcosa. Ma dopotutto, “con uno stile di scrittura così, le note possono accompagnare solo” [semiquote, soprattutto se si pensa alla figura di merda che fa il tizio un attimo dopo].
ALLORA, gentaglia. SHIKAINO MADE IN LADIEBLUE, dopo tipo otto mesi (???) dall’ultima volta. Io non muoio mai. Irene Noriko è Ino, su questo voglio che siamo tutti d’accordo, anche perché, se non fosse abbastanza ovvio: I-rene NO-riko. Io e la Ky optammo all’epoca per un nome giappo-murrico che rispecchiasse le sue origini hafu.
La storia entra nel vivo, con le prima indagini di Asuma e l’entrata in gioco di Hiashi Hyuuga, mentre nel frattempo diventa sempre più misterioso il legame di Shibi e Yoshino. Non preoccupatevi, vi ci torturerò ancora un po’. Nel prossimo capitolo (spero, spero che ci sia) ci si immergerà ancora di più nei fatti e sì, Shibi e Yoshino si fronteggeranno ancora. Credo che da questo punto in poi, almeno una scena di loro due insieme ci sarà sempre, in ogni capitolo, dopotutto sono due dei protagonisti.
Spero abbiate apprezzato l’accenno KibaHina/AsuKure, due delle ship che mi hanno sempre interessato. Più avanti nella storia ci saranno anche accenni Neji/Ten e forse Kanku/Saku *porge il tovagliolo alla Ky, che già starà sbavando*, oltre ovviamente all’onnipresente Shika/Ino e al triangolo Shikaku/Yoshino/Shibi.
Che dire, gente, spero che abbiate apprezzato la lettura, decisamente corposa come comeback, no? <3
Amore imperituro ai lettori e venerazione per i recensori!
Kiss,
la vostra finalmente diciottenne Ladie.

 
   
 
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