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Autore: DeniseCecilia    12/08/2016    11 recensioni
Una fanfic dedicata a Judy, a Nick e a un possibile "noi".
Alle scelte che il mondo ci chiede di fare e che non possiamo ignorare, se vogliamo crescere.
Ma che, in fondo, sono soltanto nostre, e di chi amiamo.
Genere: Drammatico, Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bonnie Hopps, Judy Hopps, Nick Wilde, Stu Hopps, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Furry, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo intenso e, direi, sofferto.
Il prossimo lo pubblicherò al più tardi lunedì 22 (ma non escludo di riuscirci prima).
Nel frattempo, voglio ringraziare di cuore tutti i lettori, i commentatori e questo splendido fandom, che mi fa sentire in famiglia.
Invito chiunque lo desideri a “entrare nella storia”, regalandomi un minuto del suo tempo per rispondere ad una piccola domanda – a fondo pagina.

 


 

XIX. Deriva

 

Non si tratta di una ferita allo stomaco, e quelle sono le peggiori, le aveva detto il medico mentre Nick era sotto i ferri.
Un medico fra i tanti, che non provava neppure a riconoscere.
E nessuno di loro si preoccupava di comunicarle il proprio nome.
Tuttavia la statistica indica che il due, tre per cento delle ferite mortali da arma da fuoco riguarda gli arti inferiori. Vedremo.
Vedremo: come a dire massì, chissenefotte.

 

L'aveva intuìto molto tardi, quella notte, buttata di traverso su una poltrona, incapace di mollare la presa e lasciarsi andare al sonno.
Non aveva la divisa a identificarla, né l'aveva avuta addosso Nick quando traghettato dalla barella aveva sfondato le porte oscillanti del pronto soccorso.
Nessuno o quasi li riconosceva come poliziotti, li considerava per il loro ruolo. E come si avvertiva quella distinzione, quanto evidente seppure invisibile appariva ora quel muro di silenzio.
Il distacco.
La silenziosa classificazione tra i comuni mortali: e i comuni mortali in quel luogo erano sudditi senza diritti, checché ne dicessero i codici etici.
Con un tocco delle dita Judy Hopps illuminò il quadrante del proprio orologio da polso. Le due e quaranta.
E niente va bene, pensò con un'ironia amara, del tutto priva della leggerezza che la volpe adagiata sul letto al di là del vetro sapeva infondere.
In un istante il concetto di tempo le si era frantumato dentro, tanto poco e già per lei quelle cifre non erano altro che questo: cifre.
Idee indefinite e volatili, sganciate dalla realtà e svuotate di concretezza. Significanti senza significato.

 

Le tre e venti.
Judy ricordava.
C'era stato il medico del vedremo, ma prima ancora, c'era stato quell'altro.
Non ne conosceva il nome.
Non sapeva di che colore avesse gli occhi – lui non l'aveva nemmeno mai guardata in faccia.
Una voce dolce, ma dalle parole brusche e crudeli, questo ricordava e avrebbe sempre ricordato.
Se aveva creduto che il dolore sarebbe loro venuto dal giudizio di estranei che non approvavano una coppia formata da una preda e un predatore, ora sapeva: la peggior cosa era non venire né giudicati, né condannati o assolti.
Solo ignorati, liquidati come una faccenda da sbrigare, da un professionista ammantato di bianco che ti uccide senza degnarti di un contatto – uno sguardo, una stretta di mano, un cenno – e subito ti volta le spalle.
Sì.
Cosa credeva, signorina? Il suo collega è stato colpito ad un'arteria importante, mi stupisce sia vivo. Indurremo il coma farmacologico, se ne varrà la pena. Smettesse di sanguinare, almeno; le aveva detto, e l'aveva piantata lì, in mezzo al corridoio altrettanto bianco e vuoto. Infinito.

 

Le tre e trenta.
Judy cercava un pensiero positivo cui aggrapparsi. Vanamente.
Non era soltanto l'idea che sarebbe andato tutto bene, che tutto si sarebbe risolto, che Nick si sarebbe ripreso; a desiderare.
Desiderava anche poter mettere una pezza, una toppa alla falla che stava al centro di quel nero racconto che s'andava raccontando, il racconto che, come spesso accade, i mammiferi che vivono un evento traumatico immaginano di fare nel futuro agli altri: quelli che non c'erano, che non erano presenti.
E la falla era questa: tutto era accaduto per sfortuna.
Sfortuna, e non imperizia o negligenza, o al contrario eroismo.
Solo sfortuna, e pensare che Nick potesse morire per sfortuna era insopportabile. Non avrebbe retto alla sua morte in ogni caso, eppure c'era apparentemente più senso e dignità in un lutto che aveva una causa riconoscibile da indicare, su cui indirizzare il pensiero e riversare il male e il dolore.
Ma in una perdita che non lasciava nemmeno una direzione da prendere per andare a fondo, stava annidato il massimo degrado del cuore.

 

Nulla accadeva, nulla sembrava muoversi all'infuori dei led intermittenti nella stanza della Rianimazione e del tracciato cardiaco che si componeva, sempre uguale nei suoi picchi e nelle sue cadute, sul monitor che rilevava i parametri di Nick.
Judy avrebbe voluto far qualcosa, qualsiasi cosa – fosse anche pulire i pavimenti dei cessi – per distrarre la propria mente dal suo costante, penoso turbinìo, ma non voleva allontanarsi da lì.
Come se staccargli gli occhi di dosso potesse essere fatale, come se il respiro del suo compagno potesse calare e spegnersi se lei non fosse stata lì a sostenerlo, a suscitarlo.
E in un certo modo si sentiva responsabile della tragedia, come se l'alce che aveva aperto il fuoco su di loro non avesse colpito anche altri, come se l'avesse armato lei stessa.
Ciò che ieri le era parso estremamente solido era ora carta velina.
La loro storia interrotta, senza darle il tempo necessario a scusarsi, a dirgli quanto lo amava. E non riusciva a credere che lui lo sapesse, che lo sentisse, che l'avesse capito nel momento in cui il proiettile era arrivato.
Sapeva muovere montagne per aiutare gli altri ma lì, sola ed obbligata ad occuparsi di se stessa e del fardello della propria fragilità, stentava ad amarsi. A concedersi tregua.
Era troppo tardi.
Pensavano di avere tempo, tutto il tempo del mondo.
Ma era già tardi.
Chiuse infine gli occhi, e quando li riaprì l'alba era prossima, una sottile e rosea promessa di sole all'orizzonte, che tuttavia la coniglia non poteva scorgere chiusa fra quelle pareti.

 

“Allora, posso?”.
La lotta era appena ricominciata. E si preannunciava aspra.
“Mi dispiace, signorina”, dichiarò l'infermiera di turno quel martedì mattina, un ghepardo dalla linea invidiabile.
Il pensiero di Judy andò a Ben: il collega aveva tentato di chiamarla per tutta la giornata, non potendo lasciare incustodito il suo posto alla centrale, ma lei non aveva risposto.
E la sera, quando le avevano annunciato la sua presenza all'ospedale, si era appartata il tempo sufficiente perché facesse visita a Nick e se ne andasse.
Non era in sé, non avrebbe retto. Ma sapeva che lui aveva bisogno di sapere come stava, tanto quanto lei aveva bisogno di piangere sulla sua solida spalla. Avrebbe rimediato.
“Signorina?”, la richiamò alla realtà l'infermiera. “Ha sentito?”.
Judy scosse la testa.
“Mi perdoni. Può ripetere?”.
“Dicevo che sono spiacente, ma ho ricevuto indicazione di far entrare nella stanza solo i parenti”, ripeté quella.
La coniglietta riconobbe le identiche parole utilizzate da un'altra infermiera il giorno prima. E dalla collega che le aveva dato il cambio.
Era la terza volta che le veniva negato l'accesso.
E l'ultima.
Come Nick avrebbe detto, bisogna conoscere bene le regole, così da infrangerle nel modo giusto.
“Capisco”, rispose quindi, poggiando il mento pensosa sulla zampa, mettendo così in mostra l'anello di fidanzamento.
Si prese un attimo prima di proseguire, lo sguardo assorto, a terra, la zampa inferiore che batteva un suo tempo interiore.
“In questo caso mi vedo costretta a restare confinata qui fuori. Credo che mi divertirò a fare alcune telefonate. Potrei organizzare un incontro fra amici: i revisori fiscali per esempio amano frequentare i grandi ospedali pubblici. E credo che anche certi vostri finanziatori in giunta comunale si unirebbero volentieri. Sì, farò così”, proclamò.
“Aspetti, mi faccia parlare un momento con la caposala” fu la pronta risposta.
“Purché questo momento non duri troppo. Altrimenti non attenderò ed entrerò senza di voi” decretò, rimettendosi seduta e tornando a osservare la volpe sdraiata immobile, parzialmente coperta alla vista da una miriade di tubicini.
L'infermiera se ne andò.

 

La caposala – una puzzola cui un elegante ciuffo bianconero ricadeva sulla fronte – fece il suo ingresso con passo deciso, tutta uno svolazzo mentre si avvicinava vagamente minacciosa al letto del suo delicato paziente.
Indossava un camice.
Ogni pezzo grosso lì dentro, medico e non, ne portava uno; rifletté Judy.
“Signorina”, la interpellò.
La coniglia cominciava a scocciarsi d'essere chiamata così: certo, tecnicamente lo era, ma sospettava che non si trattasse soltanto di un approccio cortese.
E subito ne ebbe la conferma.
“Lei non è sposata, corretto?”, le chiese la caposala. “Signorina, dunque”, ribadì senza attendere risposta.
L'infermiera doveva averle accennato all'anello.
“E' esatto, per adesso. Fino ad allora, intendo stare vicina al mio compagno. Senza un vetro di mezzo”, replicò Judy.
“Fino ad allora, temo, se non ha un legame ufficiale con il paziente non ha diritto ad assisterlo, ma solo a fargli visita. Fuori dalla stanza, per evitare di sollecitare il suo sistema immunitario già indebolito. E adesso, andiamo. La accompagno”.
“No”.
“Prego?”.
“Ho detto: no”, ripeté Judy, prolungando leggermente la o e rimarcandola con un accento polemico. Imitando Nick che, a Tundratown, aveva osato rimbeccare Bogo per difenderla.
Ora toccava a lei.
“Il suo paziente è il mio compagno. Non ha parenti, ha solo me. Sono già spaventata a morte, perciò non si illuda di potermi spaventare più di così”.
Non adesso, cazzo, pensò sentendo le lacrime premerle all'angolo degli occhi.
“A patto di utilizzare delle protezioni adeguate, non gli faccio correre alcun rischio”, aggiunse indicando la veste verde, la cuffia ed i sovrascarpe che si era messa prima di entrare.
“E lei lo sa... lo deve sapere, se la sua laurea vale qualcosa. Gli studi più recenti – e sto parlando di cose pubblicate su Nature – confermano che lasciare i pazienti in un ambiente che li priva del tutto di contatti con l'esterno e con i loro cari li danneggia, anziché aiutarli”.
La caposala fece per replicare, ma non vi riuscì.
“Gli ospedali di tutta Zootropolis stanno adeguando le loro linee guida. E mentre lei discute con il primario, e il primario discute con il direttore sanitario, io mi porto avanti e le applico, quelle linee guida”.
“Chiunque può leggere queste tesi cercando dei siti che le sostengono su Zoogle, ma ciò non significa che siano effettivamente valide”.
Per Judy era ora di mettere a frutto le sue navigazioni notturne su smartphone, semi-deliranti eppure utilissime.
“Se lei ritiene che dieci studi sottoposti a peer rieview e pubblicati su una delle più importanti testate del settore non valgano nulla, forse non dovrebbe lavorare qui. E comunque ho fatto le mie ricerche sugli archivi PubMed e Cochrane, non su Zoogle”.
Detto ciò, estrasse dalla tasca posteriore dei jeans un oggetto che aveva l'abitudine di conservare, per ogni evenienza, nella propria borsetta: un paio di manette.
La prima l'assicurò al proprio polso destro e la seconda, che al movimento rispose tintinnando e mandando un bagliore metallico, la fissò alla stecca centrale della spondina del letto.
“Per spostarmi da qui dovrà chiamare la polizia. Ha presente, no? I nostri colleghi”, annunciò Judy, appena prima di infilarsi in bocca una minuscola chiave e deglutire.

 

Erano trascorse oltre due ore da quando, con un trucchetto da baraccone di luna park, Judy aveva imposto la propria volontà sulle due operatrici sanitarie.
Credeva di conoscere abbastanza bene quel mondo, ma si accorse con amarezza, e una punta di fastidio per la propria ingenuità, che visitare mammiferi in ospedale non equivaleva nemmeno lontanamente a sapere come prendersene cura. E saperli difendere, anche dalla durezza di chi per mestiere dovrebbe curare, non ferire.
Adesso, sola in quella stanza con un Nick privo di coscienza e l'unica compagnia dei bip costanti dal monitor, si sentì di nuovo improvvisamente fragile.
Con fatica si soffermò a guardare il corpo inerte della volpe, e ciò che vide le fece male.
Le venne in mente ciò che si sentiva dire a volte delle salme: sembra addormentato, così tranquillo.
Ma non era vero: che il suo non fosse un sonno naturale era palese, il coma, per quanto indotto e non profondo, ne trasformava i lineamenti ed alterava la postura.
O meglio, la annullava quasi: l'impressione che il suo Nick fosse più accasciato sul letto che adagiato, come un bambolotto incapace di reggersi da sé, la indusse a distogliere lo sguardo e la portò vicina ad urlare.
Ora capiva cosa aveva voluto dire domenica sera.
Come si era sentito, di cosa aveva avuto paura.
Era stata ingiusta, sì.
E forse, addirittura, aveva avuto ragione lui: forse lei non era pronta.
Forse non era in grado, forse non era la persona giusta per stargli vicino.
Tuttavia non sapeva essere nessun altro se non se stessa, Judy Hopps, una coniglia testarda e impulsiva.
E da brava impulsiva avrebbe continuato a fare gesti sconsiderati pur di rimanere con Nick.
Da brava testarda avrebbe continuato a provare.

 

Un'altra ora, e Judy cominciava a sentire i morsi della fame.
Ad aver bisogno di pisciare, e a differenza di Nick non aveva un catetere.
Ma non poteva allontanarsi, non poteva lasciarlo... incustodito.
Non finché, come aveva preteso, non le fosse stata consegnata un'autorizzazione scritta a restare al suo fianco per tutto il tempo necessario.
Così, un po' alla volta, la coniglia scivolò in un curioso stato d'animo per il quale tutta l'angoscia accumulata taceva, tutti i piccoli impicci apparivano lontane inezie, e niente in fondo aveva davvero importanza.
Se niente importava, ad eccezione del fatto che il suo posto era lì, non c'era altro da dire o fare se non aspettare.

 

Osservava la folla delle visite di mezzogiorno camminare in su ed in giù per il corridoio, avvertendo il contrasto tra la frenesia al di fuori della stanza e la calma pesante che che vigeva di dentro, come quando si poggia una zampa calda sul vetro freddo.
Poi lo vide avanzare a stento fra gli altri mammiferi, e il suo cuore fece un balzo: non poteva definirlo di felicità, in quella circostanza, ma il sollievo fu enorme.
“Benjamin!”, lo salutò non appena il collega fece il suo ingresso.
Si abbracciarono a lungo.
“Judy, non sai quanto mi dispiace”, disse il ghepardo.
La coniglia non si trattenne più e si lasciò andare al pianto.
C'erano mammiferi con cui ci si sentiva più liberi di mettersi a nudo, e Clawhauser era uno di questi.
“Oh, no no no” reagì lui. “Non volevo – ”
“Non fa niente, non è colpa tua Ben” lo fermò Judy. “Anzi, sono io che devo scusarmi” aggiunse. “So che sei stato qui, ieri, ma non me la sentivo proprio di vedere nessuno e mi sono allontanata. Ora va un po' meglio”.
“Non posso neanche immaginare come ti senti. Perciò niente scuse, d'accordo? Hai il diritto di stare male, Judy”, le disse lui guardandola con decisione negli occhi ancora lacrimanti.
“Sei qui da sola?”, chiese poi.
“Beh, sì. Ma non preoccuparti, i miei genitori sono arrivati in città ieri sera. Stanno a casa di Nick, ho chiesto loro di portarmi alcune cose sue. Più tardi mia madre passerà di qui”, rispose lei.
“Così sono più tranquillo” sorrise tristemente Ben. “Ma non capisco perché sei ammanettata al letto...”, aggiunse, stranito.
“Oh, già. E' una lunga storia, ma per riassumere: il personale non vuole che io resti qui dentro, perché, beh, non sono una parente. Non ufficialmente. E così ho dovuto inventarmi qualcosa”, spiegò.
“Ah!”.
“Pensano che abbia ingoiato la chiave”, disse ancora lei, scuotendo la testa per sottolineare quanto lo trovasse assurdo.
“Mentre l'avevo soltanto nascosta nella guancia”, e da lì la tolse con un gesto veloce per mostrargliela.
“Spero di convincerli a lasciarmi restare qui, e se lo faranno, le aprirò. Nel caso, reggimi il gioco...”.
“Non c'è problema. Ma non strapazzarti troppo, ti prego”.
“Ci proverò. E tu? Mi hai... portato qualcosa?”, gli chiese allora Judy.
“Intendi il fascicolo del caso Reuben?”.
“Ovviamente”.
“Sì e no. Il capitano ti ha escluso dalle indagini, lo sai, e quindi... e poi tu hai bisogno di pensare a Nick, adesso”.
“Ho bisogno anche sapere cos'è successo, Ben” replicò lei. “Perché Reuben ha fatto quel che ha fatto. Se è vivo. E quanti di quelli che erano vicino a noi in tribunale sono ancora vivi, quanti invece no. Hai detto sì e no, cosa intendi?”, concluse.
Non le importava di partecipare alle indagini, non questa volta. Ma voleva, doveva sapere. Essere al corrente, come chiunque altro, più di chiunque altro.
“Ecco, questo intendo” rispose il ghepardo, estraendo da una borsa di carta un mazzo di fogli tenuti insieme da una graffetta, inseriti in una cartellina trasparente.
“Non posso portarti il fascicolo, Judy. Davvero. Ma te l'ho fotocopiato: così non ci sarà alcuna mancanza di cui Bogo si potrebbe accorgere. Ho provato a chiedermi cosa avrebbe fatto Nick al mio posto, sai”.
Judy prese dalle sue zampe la cartellina.
“Oh, Ben”, riuscì soltanto a dire. “Vieni qui”.
Lo abbracciò ancora, così stretto che affondò con la testolina nella sua morbida pancia. Il ghepardo ricambiò, attento e delicato.
Avrebbe voluto fare di più per lei, molto di più, ma non sapeva né cosa né come. Al contrario, gli toccava ora un compito ingrato: darle una notizia che non le sarebbe per niente piaciuta. Accidenti al capitano.
Sciolse lentamente l'abbraccio e sospirò.
“Judy, c'è un'altra cosa”, cominciò.
Esitò un secondo, ma poi trovò che fosse meglio sputare l'osso il più in fretta possibile.
“Sembra che la ZNN abbia insistito per anticipare l'intervista. E per farla a te, da sola”, concluse, gli occhi a terra.
Judy si prese un istante per assorbire il colpo.
“E sia”, disse poi. “Se quegli avvoltoi hanno annusato il sangue fresco e vogliono approfittare di questa tragedia, diamogli ciò che vogliono. Me la caverò”, sostenne, con gran sopresa del collega. “Ci sono delle cose che ho una gran voglia di dire, e non c'è occasione migliore”, precisò.
Altro che “fatevi trovare preparati”, pensò.
“Dì pure a Bogo che va bene. Ma per quando è?”.
Ancora una volta Ben sospirò.
“Domani sera, Judy”, fu la risposta. “E' da pazzi”.
“Da bastardi, vuoi dire. Ma va bene. Dì a Bogo che è okay. Ad una condizione: in qualunque momento, se Nick dovesse aver bisogno di me, mi alzo e pianto tutto. Tienimi aggiornata...”.
“Senz'altro. E tu tieni aggiornato me, tutti quanti in centrale vogliamo sapere sempre come state”.
“Lo farò” disse Judy. “Staremo bene, vedrai”, aggiunse, sperando che affermarlo ad alta voce lo rendesse vero.

 

Senza Ben a distrarla, la coniglietta stava per tornare a chiedersi se ammanettarsi al letto fosse stata, dopotutto, un'idea idiota anziché geniale.
Ma non ne ebbe il tempo, poiché nemmeno due minuti dopo che il collega se ne fu andato la caposala e la sua “gheparda da guardia”, come l'aveva ribattezzata, tornarono.
Scortate dall'ennesimo, sconosciuto dottore, o meglio dottoressa.
Stavolta, con immane sollievo, Judy scoprì che seppure la tensione tra loro aleggiasse ancora c'erano due sorprese positive per lei.
La prima – non ci aveva davvero sperato, ma eccola lì nero su bianco – era proprio l'autorizzazione a fare le veci di un familiare per Nick, redatta dallo staff del direttore sanitario.
Nonostante la volpe non avesse avuto l'occasione di segnalare la compagna come persona di riferimento, cui rivolgersi in caso di necessità, la loro relazione era nota a Bogo, che interpellato telefonicamente aveva subito acconsentito a fare da garante.
Judy non avrebbe potuto prendere decisioni sulle cure, ma adesso era libera almeno di essere presente quanto voleva ed assisterlo per come poteva.
“Le dobbiamo chiedere di uscire, ora, agente Hopps”, le ricordò la dottoressa, un'ippopotamo dall'espressione piuttosto seria.
“Se questa visita confermerà che l'agente Wilde è stabile, entro un'ora potremo dimetterlo dalla Rianimazione e lo potrà rivedere in una stanza di degenza. Così mi auguro”, spiegò.
Senza riuscire a spiccicare parola e di nuovo con le lacrime agli occhi, Judy annuì con un'ombra di sorriso che sperava la dottoressa cogliesse.
Era la prima mammifera lì dentro cui sentiva di poter essere grata.
Tolse dalla bocca la piccola chiave delle manette, la mostrò con un cipiglio appena accennato alle due infermiere e si liberò.

 

“E' tutto a posto, a casa? Ti sei ricordata di chiudere la porta?”.
Se la situazione non fosse stata quella che era, Bonnie Hopps avrebbe riso di gusto: sua figlia le stava facendo le tipiche domande che di norma fa un genitore alla prole quando non ce l'ha sotto controllo.
“Sì, Judy. E' tutto a posto, tranquilla: ho messo un po' in ordine, solo una spolverata e senza toccare nulla di privato naturalmente”, rispose.
“Hai fatto bene”.
“E ho chiuso la porta”.
“Grazie, mamma”.
“Non occorre che mi ringrazi, tesoro. Lo farà Nicholas, quando si sveglierà”, le rispose la coniglia con una determinazione nella voce che non ammetteva dubbi, accarezzandole il muso.
“Oh, mamma... e se... se non succedesse?”.
“Succederà, Jude. Devi solo avere pazienza”.
“La pazienza ce l'ho. Ma se scoprissi che non sono capace di aiutarlo? Di dargli quello di cui ha bisogno? Cosa faccio, mamma?”.
Bonnie le posò le zampe sulle spalle.
“Ascolta, tesoro. Lo so. E' difficile, e sei stanca”, le disse.
“E' normale avere questi pensieri, ma credimi, tu sei più che capace di stargli vicino, sveglio o non sveglio. E quello che ti sembra di non sapere o non saper fare, lo imparerai. Imparerai quel che basta. Io ti aiuterò, io sono qui con te”, la rassicurò.
“E al momento giusto, tornerete più uniti di prima. Hai capito, Jude?”.
Si stavano abbracciando quando la porta della stanza, una stanza di degenza come promesso, si socchiuse.
“Perdonatemi”, sussurrò un puma, alto e slanciato, entrando.
Indossava la divisa bianca col colletto bordato d'azzurro che Judy, a quel punto, sapeva bene appartenere agli infermieri.
“Devo chiedervi di uscire, signore”, continuò. “Solo die – ”
“Lei è mia figlia”, tuonò Bonnie all'improvviso, congelando tanto l'infermiere quanto Judy stessa.
“E quello è il suo compagno”, aggiunse indicando Nick.
“Devono sposarsi, perciò sarà meglio per lei se non ci crea noie, perché non può nemmeno immaginare quante potremmo darne a lei con una denuncia. Abbiamo tutto il diritto di stare dove stiamo” puntualizzò pensando a quanto Judy le aveva raccontato.
La reazione del puma fu un sorriso caldo e caloroso.
Era al corrente della situazione, e sapeva anche che la più famosa coniglietta della città aveva sì dei diritti, ma piuttosto limitati.
A cosa serviva un infermiere però, se non a facilitare la vita di chi aveva a che fare con lui?
“Lo so bene” disse perciò.
“E mi trova d'accordo: non dovete permettere che vi tengano a distanza. La legge è legge, non credo di doverlo spiegare proprio a lei”, precisò rivolgendosi a Judy. “Ma la si può applicare anche senza ferire le persone più dell'inevitabile”.
Le due coniglie si guardarono, sentendosi per la prima volta alleggerite di un grande peso.
“Fa bene sentirlo dire” intervenne allora Bonnie. “So che sono stata inopportuna. Ma non me ne pento, se è per proteggere mia figlia”.
Il puma annuì.
Rifletté un momento, incerto se fosse o meno il caso di proporre quel che giusto allora aveva pensato.
Ma, in fondo, aveva davanti una coppia particolare, e il fatto che lui stesso fosse un predatore, per di più maschio, forse avrebbe imbarazzato quella coniglia meno di molti altri mammiferi.
“Senta, Judy”, disse allora, cercando di creare un minimo di confidenza.
“Io sono venuto per Nick. Ha bisogno di essere lavato. Dieci minuti basteranno, per questo vi stavo chiedendo di uscire, ma... se lei lo desidera, posso mostrarle come si fa. Se le va, e se non la imbarazza, naturalmente”, suggerì.
Judy non se l'aspettava, ma sì, le parve una cosa bella.
“E' un lavoro che spetta a noi, beninteso”, disse l'infermiere. “Ma molti parenti ci tengono, a farlo da sé. Preferiscono essere loro ad occuparsi di un'azione tanto intima”.
“A me sembra una buona idea, tesoro”, confermò Bonnie.
Judy non ebbe bisogno di pensarci su.
“Non sappiamo quanto durerà questo stato di cose. E sì, è vero: non pensavo che si potesse, ma vorrei essere io ad occuparmene”.
Si volse verso Bonnie.
“Vai pure a casa, mamma”, le disse con un abbraccio veloce.
“Va bene. Mandami un messaggio più tardi. E ti prego, se non ci sono novità raggiungici, stasera. Hai bisogno di recuperare sonno. Lo so”, aggiunse prevenendo l'obiezione della figlia “vorresti restare qui sempre. Ma non sarai di nessun aiuto a Nicholas se ti stanchi troppo” la avvertì.
“E ti sei presa un impegno per domani sera: tanto vale fare le cose bene, e non pensarci più. Io e papà ti aspettiamo” concluse dolcemente.
Un ultimo sguardo alla volpe, una preghiera silenziosa, e la coniglia uscì.

 

La seconda notte trascorsa in quel limbo, nell'attesa che qualcosa accadesse mentre Nick se ne andava alla deriva chissà dove, Judy scoprì molti dettagli in merito al giorno precedente.
Innanzitutto, dalla copia clandestina del fascicolo che Ben le aveva portato seppe che i poliziotti morti durante la sparatoria in tribunale erano tre. Gli altri corpi che aveva visti a terra, capì allora, erano di colleghi fortunatamente solo feriti.
Prima che l'alce fuori di senno venisse ucciso a sua volta, era riuscito ad esplodere più della metà dei colpi da una P226 con caricatore bifilare, che ne contava quindici.
Non aveva sparato alla cieca: era stato una guardia giurata, sapeva mirare.
E sì, McHorn ci aveva preso in pieno – un'espressione quanto mai adatta – Reuben aveva sbroccato dopo anni di lotte con l'ex moglie per la custodia del figlio.
Sfogliando oltre, lesse le testimonianze dei presenti.
Ed ebbe un chiarimento su quel che era successo dopo gli spari, quando si era chinata su un Nick già privo di coscienza: se le era sembrato che i paramedici fossero arrivati alla velocità della luce, era perché da quel momento sino al loro arrivo era caduta in stato di shock.
Era rimasta inebetita, bloccata ed inservibile per interi minuti.
Mollò le carte e tornò ad appallottolarsi nel letto di Nick.
Senza di lui.
Pensando che quelle lenzuola erano fredde.
Non morbide come lui.
Non pregne del suo odore intenso, selvatico, diverso; ma capaci solo di un esile sbaffo che bagnò il suo naso e scomparve rapido, lasciandole una sete ancora più forte.
Tutto ciò che aveva attorno apparteneva a Nick, ma non glielo restituiva.
Verso le due si addormentò, spossata; l'mPhone acceso per ogni evenienza.
 


 

Prima di salutarvi e restare in attesa dei vostri commenti, vi chiedo: se toccasse a voi intervistare Judy, c'è una domanda (di qualunque genere) che vorreste assolutamente farle?

  
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