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Autore: arsea    13/08/2016    3 recensioni
Lo vide sbiancare ancora di più se possibile, cereo: "Cosa vuoi fare?" domandò spaventato "Non è la prima volta, Charles. È sempre così: ci incontriamo, ci amiamo e io rovino tutto. Mi dispiace… mio Dio… mi dispiace" "Cosa stai dicendo?" gli prese la destra, così debole, oh, così morbida, e la incatenò alla sua "Fidati di me" disse "Ti troverò" lo baciò mentre teneva la sua mano, lo immobilizzò con quel bacio e prima che potesse fermarlo affondò il pugnale dritto nel suo cuore
Genere: Commedia, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Emma Frost, Erik Lehnsherr/Magneto, Raven Darkholme/Mystica
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La domenica si svegliò alle otto in punto, come tutte le mattine, perché ormai non riusciva a svegliarsi più tardi nemmeno volendo, e si allungò per spegnere la sveglia del cellulare anche se quello ovviamente non aveva suonato, solo per semplice automatismo.
Sospirò.
La sera prima si era sforzato con tutto se stesso di essere impeccabile per il compleanno di sua madre.
Era venuto a prenderla in completo, e lei era davvero bellissima in quel vestito nero bordato di lustrini e scialle elegante sulle spalle, con gli immancabili tacchi a spillo vertiginosi che era certo avrebbe portato anche a ottant'anni, e i capelli orgogliosamente striati di grigio acconciati in un raffinato chignon sulla nuca.
L'aveva ricoperta di complimenti e l'aveva accompagnata a braccetto fino al tavolo, vedendola ridacchiare appena per tanta pomposità, ma si meritava di essere viziata e non si era risparmiato in niente.
Aveva progettato quella serata da settimane, dalla location al menù, con la meticolosità che usava nel suo lavoro, eppure al momento della cena lei aveva avuto bisogno di quindici minuti netti per capire che la sua mente era altrove.
Ovviamente sapeva di Charles. Nasconderle qualcosa era impossibile del resto, lei aveva sempre saputo leggerlo come un libro e anche quella volta non si era smentita.
Si era aspettato di vederla scioccata o incredula per quello che le raccontò, invece si era limitata a sbattere le palpebre dei forti occhi castani e lo aveva guardato severamente << Devi aver terrorizzato quel povero ragazzo >> aveva detto, e Erik si era sentito morire.
Imprecò per l'ennesima volta mentre si metteva in piedi.
Aveva ragione ovviamente. Certo che lo aveva spaventato!
Chi non lo sarebbe stato con uno sconosciuto alle calcagna che urla il suo nome?
Lo aveva tranquillizzato poi con qualche dolce rassicurazione, da brava madre, ma questo non cancellava la verità che aveva rivelato e a cui lui non era arrivato nonostante quattro giorni di riflessioni.
Le aveva parlato anche di come lo aveva immobilizzato davanti alle porte della metro, ma ancora una volta la signora Lehnsherr aveva incassato la notizia con un semplice cenno del capo, ipotizzando a voce alta quello che lui già pensava, e cioè che Charles possedesse un qualche tipo di potere, proprio come lui << Beh, almeno adesso so che non sei una specie di alieno, giusto? >> aveva scherzato per tirarlo su di morale, e per un po' ci era riuscita, o almeno lui aveva cercato di crederlo, sforzandosi di farle trascorrere una bella serata.
Tutto sommato non era stata così pessima, avrebbe potuto essere migliore ma lei gli era sembrata contenta, anche se ovviamente questo non alleggeriva di nulla il senso di colpa che provava invece lui per aver pensato a Charles per tutto il tempo invece che concentrarsi su di lei.
Si liberò delle coltri con stizza e si alzò, decidendo all'istante che aveva bisogno di correre un po' per sbollire la frustrazione e svuotare la mente, quindi si infilò la tuta, le scarpe da ginnastica e gli auricolari, infine scese in strada e cominciò a divorare il marciapiede.
Corse senza una vera e propria meta, aveva intenzione semplicemente di farsi qualche isolato per sgranchirsi un po', ma quando il suo corpo cominciò ad abituarsi al ritmo e i muscoli smisero di dolere, Erik si rifiutò di fermarsi.
Svuotò la mente, lasciò che la musica trovasse spazio sufficiente per espandersi trai suoi pensieri e per un po' scacciò Charles e il dolore che gli suscitava.
A volte si chiedeva il perché di questa benedetta maledizione, si chiedeva se in realtà non fossero destinati l'uno all'altro, se il suo fosse un forzare le cose che veniva punito con la reciproca sofferenza.
Perché solo lui ricordava? Perché Charles non lo cercava con lo stesso accanimento?
La disperazione avrebbe potuto mozzargli il fiato, ma lui era un ingegnere non un pensatore, a lui interessava che le cose funzionassero non come fosse possibile che lo facessero.
Nel passato del sogno Charles non sapeva niente della maledizione. Ovvio, come poteva rivelargli una cosa simile? Era assurdo anche solo pensarlo.
Si ritrovò in un quartiere piuttosto lontano da casa sua, la Brooklyn “ricca”, con palazzi degli anni venti ristrutturati per ospitare loft e gallerie museali per i borghesi ribelli e annoiati, ben diverso dal ghetto dove lui era cresciuto, dove la razza d'appartenenza scandisce a quale gang appartieni e un ragazzino ebreo può divenire la vittima di tutti.
Aveva scoperto il suo potere più o meno in quel periodo, quando la sua mania per i rottami e i pezzi di ricambio con cui giocava tutto il giorno si era trasformata in qualcosa di molto più complesso e potente, e doveva ad esso il timore con cui lo aveva trattato il quartiere per tutta la sua adolescenza, permettendogli di crescere lontano dai guai.
Si fermò non troppo lontano da un parchetto frutto del recente rinnovo urbanistico, con tanto di altalene e scivoli affollati dai bambini, e lo attraversò rallentando il passo lentamente per sciogliere i muscoli e rilassarli dopo lo sforzo.
Non era troppo lontano dalla casa di sua madre, solo cinque isolati, e sorrise chiedendosi se non si fosse mosso istintivamente verso di lei.
All'inizio aveva pensato fosse un po' ridicolo non vivere più con lei visto che si era allontanato solo di una decina di chilometri, ma quando era caduta e si era fratturata la gamba, due anni prima, aveva ringraziato il cielo di esserle così vicino perché l'aveva raggiunta prima dell'ambulanza.
Si abbassò il cappuccio della felpa e si fermò del tutto per riprendere fiato, svuotando la bottiglia che aveva portato con sé e avvicinandosi alla fontana pubblica per riempirla di nuovo.
Era sudato ma soddisfatto, più leggero di quando si era svegliato perché da sempre lo sforzo fisico gli dava l'impressione di fare qualcosa, anche se poi oggettivamente la sua situazione non era cambiata poi molto, quindi si incamminò alla tavola calda dall'altra parte della strada per fare colazione.
Sedette al tavolo più lontano dalla porta, contro il muro, in modo da mettere un po' di spazio tra sé e le famiglie riunite dopo la messa, erano quasi le undici e mezza infatti, e continuò a tenere gli auricolari per non ascoltare bambini chiassosi e parlottare inconsistente, sfilandoseli solo per il tempo sufficiente ad ordinare un piatto di uova e bacon con qualche toast insieme ad un caffè.
I tavoli erano tutti affollati, almeno tre o quattro persone per tavolo, giovani per lo più ma anche qualche nonno, tranne uno << Oh mio Dio >> ansimò senza fiato.
Si afferrò al tavolo, restando immobile, a malapena respirò, cercando di capire se fosse reale o solo un parto della sua mente.
Charles era proprio lì, ad un solo tavolo di distanza, se avesse sollevato lo sguardo lo avrebbe visto, invece continuava a tenere la testa appoggiata alle braccia, dei buffi occhiali dalla montatura enorme appuntati sul capo a fermare la folta chioma castana come una passata improvvisata, un cardigan sformato su una maglia blu scuro e l'aria di uno che non dorme da almeno una settimana.
Aveva delle occhiaie sotto gli occhi socchiusi, la pelle sottile era pallida e tirata e il naso era arrossato ai bordi, come di chi è costretto a soffiarselo spesso.
Era malato?
Si sollevò pigramente quando la cameriera tornò con la sua ordinazione, il sorriso che le rivolse era più luminoso dei raggi del sole fuori, nonostante il suo aspetto, e Erik si tirò nervosamente il cappuccio di nuovo sul volto per evitare di essere visto, con il cuore che batteva all'impazzata.
Si sentiva uno stupido a restare fermo lì quando l'amore della sua vita era così vicino, ma le parole di sua madre gli rimbombarono nelle orecchie, raggelandolo e togliendogli ogni volontà.
Che poteva fare?
Lo guardò abbassarsi di nuovo gli occhiali sul naso, si tolse i capelli dal volto con un gesto distratto della mano e aggiunse una quantità oscena di zucchero al caffè mentre sbadigliava indecentemente.
Era adorabile.
Erik si ritrovò a sorridere da solo come un'idiota, felice anche solo di poterlo osservare, così intimamente colmo di gioia che si ritrovò a soffocare le risate per non attirare l'attenzione su di sé.
Lo avrebbe fatto per ore. Non si sarebbe mai stancato di guardarlo, anche solo questo.
Poi Charles lo vide.
 *
Aveva resistito per un intero giorno senza fare niente, ma quando si era reso conto di star guardando l'ennesima puntata a caso di una serie tv sconosciuta sull'enorme schermo di sua sorella aveva deciso categoricamente che doveva iniziare la sua tesi.
Quando Raven era tornata dalla galleria in cui avrebbe esposto i suoi lavori per la fine dell'anno, lo aveva trovato sepolto sotto un numero improponibile di libri, giunti nel frattempo dall'aeroporto, con le tapparelle della finestra abbassate e l'unica illuminazione fornita dalla lampada da lettura; quando questo spettacolo si era riproposto ai suoi occhi anche quella mattina, come per tutti gli altri giorni del resto, lo aveva letteralmente strappato alla scrivania, lo aveva obbligato a togliersi il pigiama e costretto ad uscire a prendere un po' di sole prima che, parole testuali, cominciasse a fare la muffa.
Non gli aveva dato il tempo nemmeno di prendere un caffè… il caffè!
Non aveva una sorella, aveva una valchiria da guerra…
Si era trascinato in quella tavola calda con la grazia felina e l'attraente vitalità di un bradipo sotto morfina, e adesso giaceva abbandonato su quel tavolo dal rivestimento misericordiosamente freddo, cercando di ricordarsi di respirare dalla bocca anche se se la sentiva secca e amara.
La cameriera lo raggiunse dopo poco e lui cercò di racimolare la capacità linguistica ed intellettiva sufficiente ad ordinare un caffè e una fetta di torta, sì qualsiasi torta andava bene, quella alle more sarebbe stato magnifico, e tornò a spalmarsi sul tavolo subito dopo.
Ebbe bisogno di un po' per rendersi conto che il locale era affollato.
Famiglie prima di tutto, il che gli ricordò che era domenica, e cercò di ricordarsi se era mai appartenuto, anche in un lontano passato, ad una di quelle famiglie che si riuniscono intorno ad un tavolo almeno per i pasti.
Per lui domenica significava solo pranzo nel salone grande, la tata che gli pettinava i capelli con cura e Raven con uno dei bellissimi abiti che la rendevano un personaggio uscito da un libro di Dickens ma che lei tanto odiava e che poco si addicevano alla sua lingua alla Palahniuk, e non appena suo padre era morto e Sharon lo aveva sostituito a capo dell'impresa di famiglia anche quell'insulsa pantomima era andata a farsi benedire.
Domenica da allora voleva dire colazione sotto l'acero di suo nonno, lui e Raven scalzi sul prato e tutto il mondo più lontano possibile.
Sorrise tra sé e sé per quei pensieri, ringraziava ogni giorno per il legame che aveva con sua sorella, perciò fece del suo meglio per rimediare allo stato pietoso con cui si era offerto alla cameriera la prima volta e le rivolse un gran sorriso invece quando tornò con la sua ordinazione.
La sua positività durò quattro secondi esatti dopo quello, perché prese un sorso dalla tazza e l'amaro del caffè annientò ogni altra presunta dolcezza, rimpolpando il nero del suo umore.
Si morse la lingua per non imprecare e aggiunse cinque cucchiaini di zucchero, troppi forse, ma abbastanza per sconfiggere il mostro oscuro che aveva aggredito il suo palato. Rimestò il miscuglio dolciastro con il cucchiaino mentre si abbassava di nuovo gli occhiali sul naso, facendo a malapena in tempo a coprire la fine di uno sbadiglio degno d'un ippopotamo, e non appena la nebbia da miope si sollevò dalla sua visuale il suo sguardo si posò sull'uomo del tavolo di fronte.
Si immobilizzò, scioccato, e il suo cuore fece un balzo doloroso contro la cassa toracica, come se cercasse uno spiraglio da cui uscire.
L'uomo della metro.
Cristo santo, come aveva fatto a trovarlo?!
Il suo corpo decise per lui, si alzò in piedi di scatto, ma anche l'uomo fece lo stesso << Aspetta! >> lo sentì dire, non urlò questa volta, parlò abbastanza piano perché nessuno lo notasse ma abbastanza forte per farsi sentire da lui.
Nemmeno Charles sapeva perché lo ascoltò << Ti prego >> lo sentì aggiungere, e sollevò entrambe le mani, come a mostrare che era disarmato.
Non tentò di avvicinarsi, si rimise seduto invece, abbassò il cappuccio per mostrare il volto e posò i palmi sul tavolo, quasi volesse dirgli che non lo avrebbe fermato se avesse deciso di andare.
Tremava.
Charles vedeva le sue spalle fremere impercettibilmente e di nuovo vide i suoi occhi riempirsi di commozione, ogni centimetro del suo corpo esprimeva un forte sentimento, ma non c'era desiderio, no, non quanto avrebbe dovuto essere in un maniaco.
Lo stalking proviene da una proiezione delle proprie fantasie su una persona che non è consapevole di produrle, e da qui scaturisce la persecuzione e perfino la violenza quando lo stalker si rende conto che la vittima non soddisfa le proprie aspettative.
Conoscere comunque la definizione del manuale non lo tranquillizzò granché, tornò a sedere al suo posto per puro e semplice orgoglio maschile, quel lurido e vischioso sentimento che disprezzava negli altri ma che doveva a volte accettare in sé.
Non lo perse di vista un istante, ingoiò la propria paura e il disagio, facendo galleggiare sulla sua faccia l'espressione che gli aveva fatto guadagnare il nome di Maschera al corso di Psicologia Criminale.
L'altro sorrise debolmente, lo ringraziò con un cenno del capo e prese la sua tazza di caffè, sicuramente per simulare disinvoltura, ma il suo volto continuava ad esprimere un profondo senso di sollievo e allo stesso tempo qualcosa di simile al terrore.
Perché era lui quello spaventato?
Charles sapeva che non avrebbe dovuto restare, sapeva che ogni suo gesto poteva essere frainteso da quell'individuo, eppure qualcosa in lui non tornava.
Se quello che provava era un desiderio morboso e malato, perché evitava il suo sguardo adesso e fingeva di mangiare la sua colazione come se nulla fosse?
Prese un paio di respiri profondi, poi raccolse la torta e il caffè e lo raggiunse, sedendosi proprio di fronte a lui.
Lo guardò con tanto d'occhi, quasi che Charles si fosse messo a ballare nudo sul bancone della cassa << Voglio sapere chi sei e perché mi stai seguendo >> chiarì senza mezzi termini, gelido.
Era bene che quell'uomo sapesse che non aveva a che fare con una ragazzina terrorizzata dal fidanzato geloso, muscoli o non muscoli.
L'altro rimase un attimo in silenzio, ancora sotto shock, poi deglutì vistosamente e assentì due volte con il capo prima di rispondere: << E-Erik Lehnsherr. E giuro… giuro che non ti sto seguendo >> << Certo. Fingerò di crederti >> << Lo so che ti sembra impossibile, ma è un puro caso se ti ho trovato qui. È solo… oh Dio… mi dispiace per l'altro giorno, alla metro >> e sembrava davvero mortificato, per quel che poteva valere, ma Charles aveva fatto una ricerca per il suo professore riguardo i maniaci sessuali ossessivi e sapeva bene quanto bene sapessero simulare << Se è come dici dammi il tuo indirizzo e il tuo numero di telefono. Se ti vedrò ancora intorno a me giuro che richiederò un ordine restrittivo >> Lehnsherr, sempre che fosse questo il suo nome, si portò una mano alla tasca della felpa ed estrasse un portafogli di pelle scura, porgendogli poi patente e biglietto da visita << Puoi fare delle foto se vuoi. Ma ti prego, credimi… non voglio farti alcun male, Charles >> come aveva suggerito lui stesso, Charles prese il cellulare e fece delle foto ai suoi documenti << Come sai il mio nome? >> l'Ingegner Lehnsherr, come diceva il foglietto di carta spessa tra le sue mani, lo guardò come se gli avesse chiesto qual è la formula della fusione a freddo << Cosa? >> << Il mio nome, signor Lehnsherr. Come l'ha scoperto? >> trasalì quando lo vide usare il cognome, ma intendeva mettere un po' di distanza e la formalità non guastava << Non posso rispondere a questa domanda >> Charles corrugò la fronte << Non è esattamente il modo migliore di appianare la mia sfiducia nei suoi confronti >> << Te lo dirò. Poi però. Non adesso >> << Dubito che ci sarà un “poi”, ad essere sincero. O almeno lo spero per lei >> con molta calma, Charles tagliò un pezzo di torta con la forchetta e se lo portò alle labbra, mostrandosi sicuro di sé e affatto intimidito << Non voglio farti del male, te lo posso assicurare >> << E allora perché mi ha rincorso come un pazzo? >> << Volevo… mi dispiace. È stata una mossa stupida, me ne rendo conto >> << Cosa vuole da me? Cosa si aspetta che faccia se la trovo qui, mentre sto facendo colazione? Io non la conosco. Non so chi lei sia e non so cosa vuole da me. No, non vuole dirmelo. Perché non dovrei chiamare la polizia? >> << Non voglio niente da te. Niente. Solo… Oh Dio, come sono finito in questa situazione? >> si passò una mano trai capelli, ovviamente a disagio, che poi era esattamente ciò che Charles voleva, ma non si arrese comunque.
Il tipo di stalker non violento, come lui sembrava, di solito è restio ad approcciare personalmente la vittima, non in ambiente sicuro, quindi si chiese cosa lo trattenesse dall'andarsene, semplicemente.
Tornò a guardarlo invece, con un'intensità che aveva dello sconcertante << Senti, non sono granché bravo con le parole, ma questo non ti ha mai fermato, giusto? E allora cerca di farlo anche adesso: vuoi altre informazioni su di me? Ti dirò tutto quel che vorrai, non c'è problema. Non vuoi dirmi niente di te? Va bene anche questo, fai come preferisci finché non ti fiderai. Ma non sono un pazzo. Non sono un maniaco e non ti voglio fare del male. Voglio solo… conoscerti. C'è un perché. È improbabile e assurdo, ma ti assicuro che esiste, e proprio perché è così incredibile non posso dirtelo. Dammi solo una possibilità, ti prego. Non ti chiederò nulla. Solo… solo… posso venire a fare colazione qui? Non mi avvicinerò, non ti toccherò né ti parlerò se non vorrai. Solo per…  >> Charles sollevò una mano per fermarlo, cercando di nascondere il proprio cuore che di nuovo aveva accelerato << Vediamo di chiarire un paio di cosette >> lo freddò, e alzò il dito indice << Per prima cosa io sono etero. Non ho niente in contrario con l'omosessualità, va benissimo e tutto il resto, ma non sono interessato alle persone del mio stesso sesso. Secondo, non ho nessuna garanzia che lei non sia l'ennesimo squilibrato di turno. E terzo… questo posto non è mio, può andare dove vuole, ma non si avvicini a me >> fece per alzarsi a quel punto, e Lehnsherr si alzò di rimando, ma non fece alcun gesto per fermarlo << Sarò qui tutte le mattine >> gli disse << Alle sette in punto >> se sperava di trovarlo lì a quell'ora indecente si sbagliava di grosso, e sembrò quasi leggergli nel pensiero quando proseguì: << E anche la sera. Tutti i giorni tranne il sabato. Se ci sarai puoi ignorarmi. Non ti disturberò >> << Faccia come vuole. Addio >> gli mostrò il cellulare in una velata minaccia, ma quando si allontanò tutto ciò che gli rivolse fu il sorriso più felice e allo stesso tempo inquietante che avesse mai visto.
Quella città era un covo di pazzi.
Avrebbe dovuto fare la fine di Cartagine.
Ferro e fuoco.
E sale sulle macerie, che non si sa mai.
 *
Se le avessero chiesto perché avesse scelto di fare l’avvocato, Emma non avrebbe esitato un solo istante a rispondere: i soldi.
Era nata in una famiglia agiata, ogni mattina si svegliava con la certezza di essere su uno scalino più in alto rispetto agli altri, e per questo non solo non vedeva niente di strano nel veder realizzato in un istante ogni suo più piccolo desiderio, ma riteneva anche che le fosse in qualche modo dovuto.
Ovviamente quei pensieri erano prerogative imprescindibili della famiglia Frost, suo padre aveva dato un nuovo significato alla parola “materialismo”, e probabilmente anche sua madre non sarebbe stata da meno se fosse stata ancora in vita.
Era ovvio che desiderasse perseguire quello stile di vita, e il mestiere di famiglia le assicurava che così fosse; si assestò sulle lunghe gambe la gonna bianca del vestito italiano che indossava, raccolse la borsa di struzzo con le carte da firmare e attese che l’autista le aprisse la portiera prima di uscire.
Qualcun altro avrebbe trovato sgradevole il fatto che chi lavorava per suo padre raramente le rivolgesse pensieri piacevoli o riconoscenti, di solito nelle loro teste vorticava un’insieme indistinto che spaziava dal classico “viziata figlia di papà” al più gretto e diretto “stronza riccona”, ma ad Emma non dispiaceva affatto, anzi, e questo per il semplice motivo che si adoperava ogni giorno per ricalcare attentamente le loro aspettative.
Perché trattare con gentilezza qualcuno che riceveva un assegno per obbedirle?
Non si preoccupava della loro lealtà naturalmente, non quando poteva conoscere ogni loro più intimo segreto solo con un’occhiata.
Adorava il suo potere.
Le piaceva sapere che il suo autista era un cocainomane, le piaceva che il portiere non riuscisse a distogliere l’attenzione dal suo decolté, le piacque anche il “di nuovo quella puttana” della ragazza al bancone dell’ingresso.
Le rivolse il suo sorriso sgargiante e impeccabile, quella poveretta non riuscì a far altro che sbattere instupidita le palpebre truccate di mascara scadente, ed Emma la superò dimenticandosi della sua esistenza non appena raggiunto l’ascensore.
Suo padre la mandava spesso dai clienti, lei sapeva essere persuasiva dove carriera ed esperienza non possono, e la Darkholme & Co. aveva fatto esasperare più di uno studio associato, ma Frost&Frost non aveva di questi problemi.
Suo padre non sapeva della sua telepatia. O meglio, non voleva sapere.
Preferiva fingere che fosse solo una ragazza molto perspicace e si limitava a trattarla come una principessa, certo, non a torto, che finché lei fosse stata soddisfatta non ci sarebbero stati problemi.
Giocherellò distrattamente con una ciocca della lunga coda che le ricadeva sulla spalla, biondo tra le dita impeccabilmente smaltate, attendendo di raggiungere il piano.
Lei classificava gli altri su una base di purezza, come si fa con le gemme di una gioielleria.
Si passava dal pezzo di vetro scadente, come la ragazza della reception, fino al diamante che ovviamente era lei, ma questa scala non si basava né su ricchezza, né su etica e morale, né tantomeno su un valore estetico.
Emma classificava gli altri in base a quanto fossero onesti con se stessi.
Lei poteva non essere perfetta forse, ma perfetto e cristallino era sicuramente il suo approccio con il proprio io: non pretendeva di mostrarsi più buona o più intelligente di quel che era, non le interessava poi troppo il giudizio altrui, e non nascondeva né la sua curiosità analitica verso il prossimo né il desiderio egoista.
Non aveva interesse a passare l’esame delle occhiate altrui, sapeva di farlo, e questa certezza e sicurezza era sufficiente perché così fosse effettivamente << Salve, Miss Frost >> la salutò Margaret, la giovane assistente dello studio, una di quelle poche persone che raggiungeva un punteggio abbastanza alto nella sua classifica perché lei si desse la pena di ricordare il suo nome << Salve, Maggie. Ho un appuntamento per firmare alcune carte >> l’altra le sorrise, sincera, incredibile ma vero, e indicò la porta dell’ufficio proprio dirimpetto a lei, l’unica a non essere di vetro trasparente << Il direttore è occupato un momento con il nostro capo ingegnere. Se può aspettare qualche minuto sono sicura che non manca molto >> Emma assentì una volta sola, posò la borsa bianca portacarte sul bancone immacolato e diede in un sospiro << È successo qualcosa di spiacevole? >> volle saper e l’altra si strinse nelle spalle << Credo che sia richiesta la presenza del signor Lehnsherr nel cantiere della nostra ultima commissione, ma non ha accolto di buon grado la notizia di dover andare fuori città >> in un’immagine fugace nella sua mente scorse il profilo di questo Lehnsherr e sollevò un sopracciglio nello scoprire un uomo piuttosto giovane per la posizione che occupava, e non era quella la prima caratteristica che saltava all’occhio << Metà dell’ufficio si dispiacerà di non vederlo, anche se è solo per un paio di giorni >> aggiunse Margaret civettuola, ed Emma le sorrise di rimando, divertita << È qui da molto? Strano che io non lo conosca >> << Non esce mai dal suo ufficio. Entra, due parole striminzite come saluto, e lavora diligentemente fino a chiusura. Efficiente e freddo come le macchine che progetta >> << Interessante >> << Oh, terribilmente. Forse è solo un antisociale cronico, ma nessuna di noi qui in ufficio può evitarsi di ricamare sul suo atteggiamento >> << È fidanzato? >> Margaret la guardò con tanto d’occhi per quella domanda, fingendosi scandalizzata, ma sorrise ancora complice, avvicinandosi di un passo << Non è sposato, ma questo è tutto ciò che so. Se ha una fidanzata nessuno l’ha vista e lui non vi ha mai accennato, nemmeno le rare volte in cui abbiamo pranzato insieme >> << Vedremo >> commentò Emma sempre più divertita, proprio un momento prima che la porta del direttore si aprisse e Erik Lehnsherr ne uscisse, dirigendosi direttamente verso di loro.
Era alto e flessuoso come una statua greca, il completo dal taglio semplice ed elegante, color grigio acciaio, vestiva il suo corpo come la mano esigente di un amante, sottolineando le spalle solide e le gambe lunghe, ma era il volto che la sconvolgeva, quello sguardo di metallo fuso che non sembra temere niente e quella mascella serrata come se pronta ad azzannare, ancor di più ora che ogni sua fibra esprimeva rabbia repressa.
Macinava il pavimento come volesse frantumarlo e quando parlò sembrava che qualcuno gli avesse appena strappato un dente << Ho bisogno di un caffè >> disse a Margaret fermandosi loro davanti ed Emma, per la seconda volta in due settimane, si ritrovò di fronte una persona che non aveva la più pallida idea di dove mettere nella sua classifica.
La sua mente era un atrio pulito ed ordinato, invitanti pareti di metallo satinato con cassette di sicurezza lucide come quelle di un caveau, impenetrabili, o almeno non nel breve tempo di uno scambio di sguardi, e quelle protezioni la lasciarono così scioccata che le fu istintivo trattenerlo con un fiotto del suo potere << Emma Frost >> si presentò tendendo la mano, e lui sbatté le palpebre un paio di volte nel guardarla, interdetto, ma si liberò con facilità della sua blanda costrizione, sorprendendola ancora di più << Piacere di conoscerla, miss Frost. Margaret, torno tra pochi minuti >> << Naturalmente, signor Lehnsherr >> lui assentì una volta sola, proseguendo subito dopo, ma mentre si allontanava Emma non riuscì a trattenersi dal forzare un poco le sue barriere, riuscendo così a scorgere un volto che riconoscere le fece trattenere il fiato.
Come faceva quell’uomo a conoscere il misterioso fratello di Raven?
No, non era possibile, giusto?
Eppure non era possibile nemmeno che lei si fosse sbagliata...
Raccolse la borsa e si diresse all’ufficio del direttore continuando a rimuginare su quei pensieri, scrollandosi di dosso lo spiacevole ricordo di quando aveva rivisto l’ultima volta Charles Xavier.
Quel ragazzino le aveva messo la pelle d’oca sin da quando lo aveva conosciuto la prima volta, durante la festa per il suo compleanno a cui Raven l’aveva invitata, con quegli occhi così azzurri e trasparenti come specchi, quelle maniere educate e l’intelletto sopraffino nascosto o smorzato da battutine sagaci e frasi ben piazzate.
La sua mente era un solido blocco di cemento, senza il benché minimo spiraglio, liscia e impersonale, sorda e cieca, anche se lei non aveva la più pallida idea di come fosse possibile.
Anche Raven non era la persona più facile da leggere, ma una volta che aveva scoperto cosa nascondesse non se n’era stupita poi troppo, anche lei avrebbe protetto i suoi pensieri seppur inconsciamente se fosse stata al suo posto, ma cosa poteva mai nascondere quel ragazzo dall’aria più innocua e innocente di quella di un bambino?
Allontanò quei pensieri da sé per il tempo sufficiente a rispondere alle domande del signor Darkholme, il suo lavoro veniva prima del resto, ma quando vide con gli occhi di Margaret la sagoma di Lehnsherr che tornava al suo ufficio si ritrovò di nuovo a proiettare le dita del suo potere nella sua direzione.
Per la prima volta in vita sua si chiese se fosse come lei, se non avesse una qualche capacità che le impediva di accedere senza usare la forza, perché a differenza degli altri non riusciva a captare nemmeno un sussurro dalla sua mente.
Non era esattamente come Charles, percepiva la consistenza della sua mente e sentiva che se avesse premuto un po’ su quelle pareti di metallo sarebbe riuscita ad abbatterle, ma non conosceva le conseguenze di una simile intrusione, non le aveva mai saggiate, e per certo non voleva farsi scoprire nel tentativo di farlo adesso.
Ma magari un assaggio sarebbe bastato, magari...
Non riuscirò a vederlo.
Per carpire anche solo quel singolo pensiero senza farsi scoprire usò talmente tanto il suo potere che sentì una goccia di sudore scendere distintamente lungo il solco della sua spina dorsale << Tutto bene, miss Frost? >> doveva essere impallidita perché il signor Darkholme la guardò corrugando la fronte, ma lei si affrettò a tranquillizzarlo con un sorriso di circostanza, nascondendo invece quanto l’avesse turbata l’urgenza e il cristallino dolore che aveva accompagnato quella semplice frase.
Possibile che quel ragazzino fosse capace di suscitare qualcosa di simile? Come?
Si alzò quando il direttore ebbe finito e raccolse le sue cose meccanicamente, pensando ancora a queste due strane menti e al legame che potesse unirle, ma era così distratta da questi ragionamenti che quando fece per aprire la porta ed uscire si rese conto troppo tardi che qualcuno dall’altra parte stava per fare lo stesso, ritrovandosi così sbilanciata in avanti dalla maniglia che teneva tra le mani.
I tacchi alti non favorirono il suo equilibrio, stava per cadere in maniera molto poco decorosa e lo sapeva, ma uno strattone alla spalla, lì dove pendeva la catena della borsa, la rimise dritta prima del disastro, lasciandola così esterrefatta di essere ancora in piedi che si tastò nervosamente il corpo, quasi ad accertarsi che fosse tutto al suo posto << Stai bene? >> sollevò lo sguardo davanti a lei, ritrovandosi a ricambiare quello gelido di Lehnsherr, e seppe in quell’esatto momento, senza alcun dubbio, che era stato lui << Come hai fatto? >> lo mandò alla sua mente prima ancora di volerlo davvero, facendo rimbombare la sua voce per quel caveau così silenzioso con tale violenza che lui sussultò e indietreggiò di un passo.
Si guardarono per un momento, lui capì e lei capì, ma nessuno dei due disse nulla.
Emma si affrettò verso la porta e non si voltò indietro.
   
 
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