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Autore: LoLeo    14/08/2016    0 recensioni
"Le persone non cambiano. Cambiano le situazioni, le azioni e le condizioni, ma nessuno, nessuno, nel proprio intimo cambia. Non credere, nemmeno per un momento, che qualcuno possa cambiare. È vana illusione, fiabesca speranza, sconsolato sentimento: le persone non cambiano, mettitelo bene in testa"
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PROLOGO

Nel lento avanzare della notte un improvviso turbamento s’era impossessato di Beppe Meis: delle gocce di sudore, lentamente, avevano iniziato a scendergli dalle tempie, e lo stomaco, in preda ad un’improvvisa e tenue fame, ribolliva flebilmente, impedendogli di aprire le porte alla timida leggerezza della notte che, nella sua instancabile marcia verso la pace, pareva essersi completamente dimenticata di lui.
Pensava senza pensare, inspirava dimenticandosi di espirare, dormiva restando sveglio, muoveva involontariamente gli arti come colto da improvvisi spasmi. Qualcosa di terribile stava per accadere e lui, Beppe Meis, ne sarebbe stato il primo, indetraibile testimone.
Stanco di questo perenne affanno, cercò sul comodino i suoi occhiali da vista e, alzandosi a fatica, si diresse con movimenti confusi e indecisi verso il bagno.
Beppe abitava in un appartamento vecchio e stantio, un tempo appartenuto a sua madre, con due stanze da letto, un ufficio pieno di scartoffie, una piccola e trasandata cucina, sempre in disordine, un antico soggiorno impreziosito da un lampadario barocco e ingombro di mobilio in legno, soggiorno che, se non ci fosse stato il televisore al plasma, un ottimo investimento per un amante del cinema, si sarebbe certamente potuto scambiare per parte integrante di un museo.
Per poter giungere al bagno il tragitto era semplice: il bagno stava adiacente alla stanza in cui Beppe dormiva, sarà stata questione di cinque o sei metri, ma, chissà perché, per Beppe, che si trascinava a fatica, fu un percorso straziante e impervio e si sentì non poco sollevato quando i polpastrelli delle sue dita sfiorarono l’interruttore della luce.
Vide la sua immagine riflessa allo specchio del lavabo, non si riconobbe.
Chi sei?, si chiese.
Faceva fatica Beppe a trovare una traccia di sé in quella figura che gli compariva davanti, nella sua terribile potenza.
Mamma mia.
Faceva fatica a riconoscersi in quegli occhi sottili, che gli avevano dato sempre tanti problemi, tra miopia, presbiopia, astigmatismo, condannandolo all’uso eterno degli occhiali; faceva fatica a riconoscersi nel volto paonazzo e stanco, nella bocca congelata in una smorfia di difficile interpretazione, che poteva significare tutto, felicità, stupore, sofferenza.
Come sono conciato.
Faticava a sopportare quel leggero doppio mento, rea l’età, che ingannava lo sguardo, facendo sembrare l’insieme dei tratti ancora più cadente e appassito.
Cercò di nuovo i suoi occhi nello specchio, ma non li riuscì a trovare. Non riuscì a scavare in profondità, in cerca di qualcosa, per capire cosa scaturisse quell’improvviso e insensato sentimento d’ansia.
A dire il vero Beppe Meis lo sapeva bene qual era il suo problema, il suo terribile ‘difetto di fondo’, ma non aveva la più pallida idea di come potesse essere legato con quegli improvvisi attacchi che lo colpivano la notte: Beppe non era in grado di godere di niente, perché era consapevole di ogni cosa. Trovava difficile, se non quasi impossibile, riuscire a far prevalere il sentimento sulla ragione, la pancia sull’intelletto. E le poche volte in cui ci era riuscito, s’era subito destato, come da un profondo sonno, per fuggire da questa vana e salvifica speranza, forse per timore che potesse essere l’ultima volta che gli accadesse, forse perché non era assolutamente in grado di non pensare a niente, di lasciarsi trasportare dall’incerta bellezza della vita.
La vanità della cose, questo costante pensiero, così invasivo e arrogante, la consapevolezza che la serenità non è una condizione costante, che non è possibile vivere in una perenne atarassia, era per lui inaccettabile e gli rendeva complesso ogni movimento e azione all’interno del mondo, ogni rapporto con gli altri. Forse temeva di rimanere deluso, noi possiamo solo ipotizzare. Si ripeteva sempre: Il pessimismo compiace, l’ottimismo delude. Era il suo cavallo di battaglia, un modo di vedere le cose e di affrontare la vita. Pensare a ciò che di brutto potesse accadere, anche in una condizione di tranquillità, gli dava la certezza di poter essere sempre preparato al peggio e di avere una marcia in più rispetto gli altri.
Si sentiva superiore, Beppe. In realtà la sua era una condizione di miseria.
Si rendeva conto anche di questo, se ne rendeva perfettamente conto.

 
   
 
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