CAPITOLO
1
Luglio,
3 anni dopo
Ho
sempre pensato che i cambiamenti, positivi o negativi che siano,
abbiano
l'unica conseguenza di distruggere tutto ciò per cui si
è combattuto, sudato,
vissuto. E non importa se il tempo sarà gentile con te e
farà in modo che
diventino "nuova realtà": l'anima ricorderà
sempre quel che ha perso
e immaginerà un futuro diverso in cui ogni cosa segua il
corso di prima, come
se non fosse accaduto nulla.
Ed
io lo immaginavo. Sì, lo immaginavo, mentre ero seduta su
quel divano a
lasciarmi consumare dalla rabbia che ogni singola parola accendeva come
miccia.
Ma, cavolo, quale comune ragazza di diciotto anni si preoccuperebbe di
questioni del genere? Non ne ha affatto bisogno: si diverte, va in giro
per
discoteche con i propri amici e magari ne approfitta per accendere la
sua prima
sigaretta o aspirare la sua prima riga di polvere magica. No, a
pensarci bene
non si tratta di una comune ragazza di diciotto anni: questo
è il ritratto
della tipica quindicenne disposta a bruciare le tappe pur di sembrare
"adulta" agli occhi dei altri. Di certo non avevo intenzione di
rimettermi al passo con le altre ragazze della mia generazione, ero
troppo
giudiziosa e forse anche troppo ingenua per farlo, eppure in quel
momento, lo
ammetto, mi sarebbe servito qualcosa di forte per digerire la
situazione e gli
sguardi di mio padre e della sua compagna, Claudia, mentre cercavano di
spiegarmi tutto nella maniera più calma e ponderata
possibile: -Non è un
cambiamento così drastico, tesoro: saremo distanti da qui
soltanto di pochi
chilometri e tu potrai continuare a frequentare i tuoi amici, ad uscire
in
città, a vivere la tua vita come al solito. Dobbiamo farlo,
altrimenti sarebbe
impossibile gestire tutte le esigenze della nostra famiglia allargata-.
Prima
cosa: odiavo il nomignolo "tesoro", che fortunatamente mio padre
usava solo nei casi in cui occorreva addolcirmi con qualche parola
affettuosa
risalente ai tempi dell'asilo. L'avrei volentieri fulminato con
un'occhiataccia, ma non mi sembrava il momento ideale per dare sfogo
alle mie
"esigenze di adulta".
Seconda
cosa: famiglia allargata. Certo, come no. Erano una coppia da quasi due
anni,
ormai, e si definivano "famiglia allargata" solo adesso? Per una
cerimonia formale che li riconosceva marito e moglie agli occhi dello
Stato?
Non
capivo. La nostra vecchia casa era abbastanza grande da accogliere
altre
persone, perché trasferirsi?
-Sei
una ragazza molto intelligente, Talia. Saprai già che
questa...- Claudia si
guardò intorno con un'aria vagamente infastidita, alla
ricerca della parola
giusta. Mi trattenni dal gridarle che, fino a prova contraria, quella
era
ancora casa nostra. -...struttura, non va bene per tutti. Io non
riuscirei a
viverci neanche un giorno, ad essere sincera, e il mio vecchio
appartamento è
troppo piccolo per ospitare anche voi-.
E
all'improvviso mi fu chiaro il motivo del trasloco: Claudia. Come avevo
fatto a
non pensarci? Era sempre lei a cambiare le carte in tavola,
stravolgendoci la
vita che avremmo potuto trascorrere serenamente anche senza tutti quei
fronzoli.
O,
almeno, era quello che credevo io.
E
non sarei mai riuscita a capire in che modo mio padre, modesto
impiegato presso
una piccola azienda di Firenze, gentile e onesto come pochi uomini,
avesse
perso la testa per lei, un'imprenditrice senza scrupoli che sembrava
aver
venduto la sensibilità e le emozioni umane in uno dei suoi
famosissimi affari,
ambiziosa al punto da utilizzare qualsiasi mezzo, anche il
più meschino, per
raggiungere i propri obiettivi. Okay, poteva sembrare che io la
giudicassi una
cattiva persona ma, fidatevi, non era così. Al contrario:
sin da subito avevo
pensato che fosse una donna elegante e con carattere, dotata di un
fascino che
la rendeva il bersaglio di tutti gli sguardi in un ristorante o in un
qualsiasi
altro posto di vita mondana. Insomma, una che ispirava rispetto. Ed era
proprio
questo il problema: cosa ci faceva con mio padre? Non che fossero del
tutto
incompatibili, ma... Quasi.
E
supponevo che la cosa valesse anche per me e lei perché, se
quella era una
coppia destinata a non resistere alla convivenza per più di
qualche mese, io
non avevo neanche la minima possibilità di uscirne indenne.
Immaginavo
già i suoi occhi grigi, costantemente pieni di biasimo,
seguire ogni mio gesto
a tavola senza mollarmi un solo istante; inquietante, no? Mi chiedevo
se anche
mio padre ne fosse terrorizzato.
No,
certo che no: probabilmente era così innamorato da
considerarli pagliuzze di
mare incastonate in un volto angelico.
Bleah.
-Che
ne pensi, tesoro?- cercò lui di richiamare la mia
attenzione, con
un'espressione che non avrei saputo dire se di speranza o timore.
Quel
"tesoro" mi fece ritornare immediatamente alla realtà e per
poco non
persi la pazienza che avevo preservato con grande fatica.
Almeno
fino ad ora.
Che
ne penso?
Non
potevo crederci: me l'aveva chiesto sul serio. Eppure ero abbastanza
sicura che
sulla mia fronte lampeggiasse una parola non proprio carina che
riassumeva
molto bene quello che pensavo.
Fissai
entrambi con una certa indifferenza. Si aspettavano che io dicessi
qualcosa,
era chiaro. Qualsiasi cosa. Che sbraitassi. Che urlassi. Che mi
dimenassi a
terra e piangessi come una disperata. Continuai a fissarli, e dai
muscoli del
viso che si distendevano pian piano, rilassati, capii che si stavano
convincendo di poter ottenere una risposta positiva.
Lo
pensavano davvero?
Bene.
Al
diavolo tutti.
Non
li degnai di una singola parola mentre mi alzavo dal divano e
raggiungevo la
rampa di scale del primo piano, verso la mia stanza.
Mi
sembrò quasi di sentire il rumore delle aspettative che
andavano in frantumi.
-Talia!-
sentii gridare mio padre, seguito da un verso stridulo di Claudia che
doveva
essere il mio nome.
Non
appena entrata, mi lasciai richiudere la porta alle spalle.
Quella
casa, che poteva disgustare Claudia e, forse, apparire anche cadente e
mal
ridotta dal corso del tempo, era il luogo in cui avevo trascorso i
momenti
migliori della mia infanzia. E non mi importava delle fottute "esigenze
della nostra famiglia allargata": io volevo rimanere lì.
Avrei dovuto
rinunciare ai miei ricordi solo perché non possedevano alcun
valore agli occhi
degli altri?
Se
lo potevano scordare.
E
mentre percorrevo a grandi falcate il perimetro della stanza, cercando
di
placare con respiri profondi la fitta di rabbia mista ad impotenza che
mi aveva
colpito il petto e lo stomaco, il mio sguardo cadde sulla porzione di
giardino
che si intravedeva dalla finestra, delimitato ai margini da una
staccionata che
aveva ormai perso il bianco acceso di un tempo, e per un istante mi
sembrò di
vedere una bambina mingherlina dalla chioma arancione che giocava a
nascondino
con i figli dei vicini, gridava di eccitazione ed euforia sul
seggiolino
dell'altalena al primo volo in alto e si riparava nello sgabuzzino
degli attrezzi
per sfuggire all'ira funesta del papà che, nonostante le
minacce, non avrebbe
osato nemmeno torcerle uno dei suoi lunghi capelli.
Sul
viso prese forma un sorriso amaro.
E,
a questo punto, la domanda che continuava a martellarmi nella testa
era: chi avrebbe
acquistato il mio passato? A che prezzo, poi? Quale bambino (o bambina)
avrebbe
rigurgitato il pranzo sulla parete della cucina o segnato la propria
altezza
sullo stipite della porta d'ingresso? Quale uomo di famiglia si sarebbe
appropriato del garage e avrebbe allestito lì un posto dove
evadere dalla
routine quotidiana? Ma soprattutto, chiunque fosse la nuova famiglia,
avrebbe
amato quella casa come l'avevano amata i miei genitori, anche se era
l'unica
che potessero permettersi con il misero budget di partenza? Come
l'avevo amata,
e continuavo ad amarla, io?
Mi
accasciai sconsolata contro le ante chiuse dell'armadio in legno e
affondai la
testa tra le ginocchia.
Respira,
Talia.
Perdere
la calma non cambierà le cose.
A
meno che...
-Talia!-
Mio padre continuava a bussare con insistenza alla porta. -Apri la
porta, ti
prego-.
Iniziai
a frugare tra le mie cose, alla ricerca della scatola a motivi floreali
in cui
avevo riposto tutti i soldi che le mie vecchie zie mi avevano regalato
per
varie occasioni: compleanno, Natale, Epifania, Pasqua.
Ero
sicura di aver racimolato un bel gruzzolo.
Quando
lo trovai, sollevai il coperchio ed iniziai a contare le banconote sul
letto.
Siamo
ringraziate tutte le vecchie zie del mondo.
-Esci,
per favore-.
E
se avessi vissuto in quella casa per conto mio? Se nei primi tempi
avessi
badato a me stessa grazie al denaro del budget di partenza che avevo a
disposizione e poi avessi trovato un qualsiasi lavoro estivo, da
sostituire con
qualcosa di più serio nell'arco del prossimo,
nonché ultimo, anno scolastico?
Se
fossi stata completamente indipendente e... felice? Ormai avevo
diciotto anni,
non ero più una bambina. Potevo cavarmela.
Sì,
ce l'avrei fatta.
Quell'idea
mi provocò una scarica di adrenalina e di eccitazione che mi
fece tremare le
gambe e le mani.
C'era
ancora un misero barlume di speranza, in fondo. Ed io mi stavo
aggrappando ad
esso con tutta me stessa.
-Possiamo
parlarne!-
Rimasi
di ghiaccio.
Possiamo
parlarne.
Sapevo
che non l'aveva detto di proposito, probabilmente non ricordava nemmeno
in
quale occasione avesse usato quelle due parole, ma io sì.
Era questo il
problema.
E,
come sempre, mi sentivo colpevole.
Diedi
un'occhiata al letto dove le banconote, soggette al venticello estivo
che
rinfrescava la stanza attraverso la finestra aperta, si muovevano a
malapena.
Per
poco non ebbi la tentazione di sbattere la testa contro il muro.
Ma
cosa stavo facendo?
Avevo
davvero pensato a tutto quello, come se... volessi scappare.
Sono
uguale a lei.
No,
era impossibile.
Lei
ed io eravamo diverse.
Lo
dicevano tutti.
O
no?
Non
riuscivo neanche a sopportare quel pensiero e così, per
dimostrare agli altri
ma soprattutto a me stessa che era una grande menzogna, feci la
più grande
stronzata della storia che, ne ero sicura, avrei ricordato per tutta la
vita
con grande rimpianto.
Maledetto
orgoglio.
Uscii
dalla stanza, lo sguardo fisso sui piedi.
Mio
padre sorrise per il sollievo.
E
dopo nemmeno un paio di settimane mi ritrovai su un camion traslochi,
diretta
alla zona di campagna fuori Firenze.