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Autore: Lost In Donbass    15/08/2016    4 recensioni
Tom non ne vuole sapere di studiare, vuole vivere la vita sulla pelle, vuole suonare agli angoli delle strade, vuole rivoluzionare qualcosa che è solo nella sua testa. Ma forse è ancora troppo giovane.
Bill è semplicemente un genio, si sente un dio, vuole che lo osannino, passa tutto il suo tempo a studiare cose che non gli interessano per sentirsi uguale agli altri. Ma nasconde qualcosa di troppo doloroso per poter essere tenuto nascosto troppo a lungo.
Ed entrambi sono troppo e sono troppo poco, sono padroni e schiavi di loro stessi, e soprattutto sono nemici giurati da anni. E se quest'anno qualcosa cambiasse? In un saliscendi di amore, odio, passione, lacrime, incomprensioni, e segreti inconfessabili, riusciranno i due ragazzi a trovare l'accordo di pace tra loro stessi?
Genere: Angst, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate
Capitoli:
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CAPITOLO DODICI: WENN NICHTS MEHR GEHT
Keiner mehr da der mich wirklich kennt
Meine welt brich grad’zusammen
Und es lauft ‘n happy end
Um dich weinen sol lich nicht
Ich weiss unsterblich sind wir nicht
 
-Bill, tesoro, vuoi che ti accompagno in classe?
-Ti portiamo noi due i libri, non ti preoccupare.
-Oggi, a mensa, preferisci che ti prepari io l’anguria?
-Se sei stanco, ti porto a casa in macchina quando usciamo.
Bill sospirò rumorosamente, trattenendo l’istinto omicida che aveva preso il sopravvento nei confronti delle sue amiche. Dio, erano diventate quasi esasperanti. Così orribilmente pazze di lui e servizievoli da fargli venire mal di stomaco. Si girò con cautela verso le ragazze che lo guardavano ansiose, e si limitò a dire, col tono più mieloso che gli riusciva
-Ragazze, care, state tranquille. Ho solo perso la vista da un occhio, nemmeno da tutti e due, e sono solamente più stanco di prima. Niente di cui non eravate già a conoscenza. Rilassatevi che poi vi vengono le rughette attorno agli occhi!
Tentò di sorridere amabilmente, ma solamente una smorfia stanca prese vita sul suo viso tirato, abilmente truccato come al solito. Era ufficialmente a pezzi, in tutti i sensi; era a pezzi nel cuore, nel corpo, nella mente. Si spalleggiava delle sue amiche per sopperire alla semi cecità e ai suoi barcollamenti continui sui tacchi troppo alti e le gambe che si stancavano in fretta, curava ancora di più il suo aspetto e lo studio per impegnarsi continuamente in qualcosa che non portasse il nome di Tom. Lo vedeva sempre, nei corridoi. Lo vedeva e tentava di distogliere lo sguardo senza riuscirci mai, combatteva un gioco di sguardi e di rimorso, vedeva il rasta che lo fissava ferito e umiliato, mentre lui tentava di mantenere una sorta di integrità personale, contrariamente al suo cuore che non pensava ad altro che a corrergli incontro e saltargli al collo urlando sconclusionate dichiarazioni d’amore. Aveva osato così tanto, dicendo a Tom che non lo voleva più quando lui stesso era il primo che ogni notte non faceva che piangere e disperarsi, attaccato al cellulare e a tutte le foto dell’altro che gli aveva scattato nel corso delle settimane. Tom non era più venuto in ospedale, e ora sicuramente non gli rivolgeva la parola, ma erano i loro giochi di sguardi a bruciare più di tutto, quell’odio incompreso e bastardo che era stato spodestato da un amore travolgente e disperato. Bill si era rotto l’anima di essere trattato in quel modo, voleva cambiare. Ma in cuor suo sperava che Tom sarebbe venuto da lui con un mazzo di fiori e un anello di fidanzamento, in ginocchio, cosa che però non era nemmeno successa. Non un biglietto, una scusa, niente di niente se non occhiate sconvolte e ferite. Bill avrebbe tanto desiderato poter dimenticarsi di quel ragazzo, tagliare i ponti, ma più si imponeva di farlo, meno ne aveva la forza. Lo amava ancora, al diavolo. Lo amava talmente tanto da non poter fare a meno di incolpare se stesso per averlo mandato via, per non aver sopportato in silenzio le maniera brusche e volgari di Tom, per aver voluto tirare su la testa invece che fare la vittima masochista. Aveva voluto essere forte, per una volta nella sua breve vita, e quel suo essere forte aveva semplicemente distrutto la cosa che più lo teneva in vita. Affanculo la morale Kaulitz: lui era di cristallo, checché dicessero tutti, e aveva bisogno di Tom per non rompersi in mille schegge affilate. Ora Tom non c’era, e anche il suo fisico si stava disintegrando come una bolla di vetro soffiato. Passava i suoi pomeriggi a letto, con qualche libro sotto mano, oppure seduto sulle panchine del parco con le ragazze, depresso e apatico, ignorando volutamente le attenzioni di tutti, alla perenne ricerca di un segno da parte di Tom, un occhiolino, un sorriso, un bacino soffiato da un capo all’altro della classe, un pianto di scuse. Tutto, anche un “vaffanculo razza di puttana” sarebbe stato meglio di quel silenzio snervante e deprimente che lo stava ammattendo.
Voleva tornare da Tom, ma il suo orgoglio gli vietava categoricamente di tornare da lui strisciando. Avrebbe voluto dire fare il suo gioco, e quello non gli stava bene; o se ne stava prima, oppure aspettava dopo. Tentava di invitarlo a fare qualcosa con la sua ostentata indifferenza, ma non sortiva i risultati sperati, continuando a rincorrere un’araba fenice che diventava polvere sotto le sue dita ingioiellate.
Sbuffò, appoggiandosi al braccio che immediatamente Octavia gli aveva porto, cominciando a barcollare con tutte le sue ragazze verso l’uscita della scuola, ruggendo silenziosamente per la depressione di aver perso uno dei suoi splendidi occhi che vagava sulla folla cieco e meraviglioso nel suo orrore. Era stata colpa di Tom, a ben vedere. Perché se lui non avesse spudoratamente baciato un’altra persona davanti ai suoi occhi esterrefatti, non gli sarebbe venuta una crisi isterica messa insieme a una vera e distruttiva crisi fisica, e di conseguenza le probabilità di perdere la vista da una parte sarebbero diminuite.
Si strinse nella giacchetta di jeans con le borchie, gli stivali laccati neri ticchettavano sul selciato, le risatine e i racconti delle sue amiche gli rimbalzavano inutilmente addosso, senza che nemmeno li sentisse, il venticello che gli scuoteva la folta criniera nera sparata, una smorfia triste dipinta sul visetto perfetto, quando sentì una voce che gli era anche troppo familiare. Una voce che amava e odiava con tutte le sue forze, una voce che avrebbe voluto sentire tanto tempo prima di quel uggioso pomeriggio
-Ehi, Bill, aspetta un attimo!
Tom li stava rincorrendo, inciampando nei jeans larghissimi, lo zaino mezzo vuoto gli sbatteva sulla schiena insieme alla coda di dread, lo skate sotto braccio e quell’intramontabile espressione da bamboccio.
-Lo ammazziamo, Bill-sama?- chiesero in coro June e May, cominciando a tirarsi su le maniche delle camicette e a guardare male il ragazzo sopraggiungente.
-No, June-chan e May-chan. Ragazze, lasciatemi da solo.- Bill guardò severamente le sue amiche, facendo uno sbrigativo gesto con la mano. Non voleva dare a vedere che in realtà nel suo cuore scoppiavano fuochi d’artificio di ogni tipo.
-Da solo con quello lì? Ma sei scemo?- abbaiò Ria – Giammai!
-Potrebbe violentarti, è un proletario schifoso.- gemette Anastasia.
-Quello è psicotico, non ti conviene, Billy!- strillò isterica Nora.
A Octavia bastò raccogliere lo sguardo supplicante del capo per sbottare
-Basta, ragazze, gli ordini di Bill non si discutono! Forza, marmaglia, lasciamo il generale per i fatti suoi!
Bill le guardò seguire Octavia a capo chino, soddisfatto, prima di voltarsi verso Tom, ora piantato di fronte a lui, rosso in faccia, impacciato come un bambino
-Sì, Tom? Cosa vuoi?- disse Bill, cercando di trattenere il cuore che stava esplodendo nel petto dalla voglia di saltare in braccio al rasta e non mollarlo mai più. Doveva farsi vedere d’acciaio, lo aveva deciso. Innamorato, sì, ma non schiavo.
Tom si grattò la guancia, facendo vagare lo sguardo sul corpo del moro, non sapendo bene dove posarlo, e poi borbottò
-Come stai?
“Sto di merda senza di te, ti prego ignora il mio schizzo ospedaliero e dimmi che mi ami come non ami nemmeno tua madre”
-Come devo stare, grazie dell’interessamento.
-Senti, Bill, dobbiamo parlare io e te.- Tom infilò le mani nella tasca della felpa, guardandolo con aria molto colpevole.
“Sì, dobbiamo parlare, chiederci scusa seriamente e andare a fare una passeggiatina mangiando il gelato dalla stessa coppetta come due piccioncini teneri”
-Io non ho niente da dirti, caro. Mi sembra di essere stato esauriente, la settimana scorsa, in ospedale.
-E’ quello di cui dobbiamo parlare, genio!- Tom lo fissò con occhi fiammeggianti – Non credere che io mi rassegni a una cosa simile. Che cazzo di storia è questa? Tu mi devi delle fottute spiegazioni!
“Hai ragione, ora ti spiego tutto ciò che mi succede, poi ci baciamo e andiamo a fare l’amore in casa tua e tua madre ci beccherà a letto nudi a coccolarci e ce ne fregheremo di tutto”
-Io non ti devo un cazzo, pasticcino alla vaniglia.- Bill fece un sorrisetto – Mi hai usato, ora ne paghi le conseguenze.
-E tu mi hai dannato l’anima, quindi ora ne paghi anche tu le conseguenze.- sbottò Tom, prendendolo per la collottola della maglietta. – Che cosa ti è successo, voglio saperlo, voglio che mi dici in che casino ti sei andato a infognare!
“Il casino di averti allontanato da me, e sì, stringimi ancora, baciami con passione davanti al fiume come fanno nei film, solo tu mi puoi salvare dalla mia depressione”.
-Lasciami stare, zotico!- Bill si dimenò dalla stretta dell’altro, spazzolandosi con aria fintamente nauseata la maglietta – Non provare più a farmi una cosa del genere!
-Cos’è, tutt’a un tratto ti faccio schifo? Non ti ricordi più quando mi pregavi in ginocchio di baciarti, abbracciarti, scoparti?- latrò Tom, gli occhi fuori dalle orbite per la rabbia cieca che si stava impossessando di lui come un fiume in piena. Lo voleva, voleva Bill come non lo aveva mai voluto, cercando di venire a patti con quel sentimento che lo stava distruggendo nel cuore e nel fisico, che lo estenuava. Quell’amore, oramai lo accettava, che lo divorava e lo sfibrava in ogni momento.
-Sì! Sì, mi fai fottutamente schifo, sono nauseato da te e da tutto quello che fai, non voglio più vederti!- Bill non avrebbe voluto dirlo, quello no, ma qualcuno nella sua testa parlò al posto suo. Cercò di trattenere le lacrime che cominciavano a sgorgare, piantandosi le lunghe unghie laccate nei palmi delle mani.
-Ah, quindi sarei io a farti schifo?!- Tom diede un pugno sul muro del palazzo accanto a dove litigavano, ignorando le nocche sbucciate e l’occhiata scioccata di una vecchietta che transitava accanto a loro. – Perché, tu cosa credi di essere? Sei solo una fottuta checca viziata! Ho provato a …
-Provato a fare cosa, scusa?- lo interruppe Bill, sfarfallando incredulo le ciglia. – Mi hai usato, te ne sei sempre fregato di me, e ora tenti anche di passare per la vittima della situazione? Scusa, tesoro, ma quello è il mio ruolo! Sono io che ci sono uscito distrutto da questa storia, sono io che ci ho rimesso la salute, sono io che ho perso il sonno per te. Per te, lurido bastardo stronzo senza cuore!
A quel punto, Bill stava piangendo. Piangeva forte, appoggiato al muro del palazzo, guardando tra le lacrime Tom che lo fissava, mascherando la disperazione con la rabbia. Avrebbe tanto voluto farselo accoccolare tra le braccia, lì per terra, sul marciapiede di quell’archivolto, accarezzargli i capelli e baciargli quel viso da ninfa, dirgli che andava tutto bene, che gli dispiaceva e giurargli il suo amore infinito per tutta l’eternità. Sì, Tom sapeva di aver sbagliato, ma non l’avrebbe mai ammesso. Era l’orgoglio rocker a parlare, quello che inneggiava ancora a un brano stoner in cui non bisognava essere pietosi, ma prendersi con violenza quello che si voleva. Insomma, la sua linea di pensiero si stava sgretolando sotto i suoi occhi, mostrandogli come anche la musica dark potesse fare da sfondo alla loro turpe storia d’amore e depressione, come potessero seguire la voce dei The Cure invece che affidarsi solo ai Kyuss. Però, in fondo lo diceva Robert Smith, boys don’t cry, come l’omonima canzone. Tom non piangeva, combatteva. Era come un militare in Afghanistan, di quelli che la gente non sopporta. Proprio per quello resisté stoicamente alla necessità di avvolgere Bill in un abbraccio e asciugargli le lacrime con i baci, limitandosi ad afferrarlo per la spalla
-Che diavolo hai, adesso? La smetterai una volta o l’altra di fare l’attrice?
-Ti odio!- Bill lo guardò con un astio bruciante – Non provare mai più a rivolgermi la parola, maledetto bastardo!
Era furibondo, con se stesso e col rasta. Lo odiava, sì, forse lo odiava da quanto era forte l’amore che gli scaldava le viscere e che forse gli aveva evitato di tagliarsi le vene e farla finita una volta per tutte con quella vita che non poteva più sopportare. Era così dannatamente stupido da non poter fare a meno di lui, anche in un momento così palese del menefreghismo dell’altro nei suoi confronti. Cominciava a girargli la testa, sentendo il classico e insopportabile morso sul cuore e sulla bocca dello stomaco, il respiro corto. Dio, ancora. Una dannata crisi, di fronte a Tom. Perché anche quello doveva aggiungersi? Perché diavolo non era rimasto con le ragazze? Perché non gliene andava dritta una, dannazione?! Beh, forse non sarebbe stato nulla di grave se non che si era rotto le palle di fare sempre la figura del debole di fronte al rasta, di non poter mai davvero imporre la sua presenza come avrebbe voluto. Era stanco di essere debole. Bill chiuse gli occhi, sentendo irradiarsi nel suo petto quell’orribile dolore che preannunciava uno dei suoi classici e antipatici svenimenti. No, non ce l’avrebbe fatta a resistere fino a che l’altro se ne fosse andato. Si piegò in due, cominciando a sentire le gambe cedere e l’equilibrio scomparire, sentendo solamente con l’anticamera del cervello la voce di Tom fattasi improvvisamente preoccupata dire qualcosa come “Bill, che hai? Cosa c’è, Bill, cosa diavolo ti succede?” e le sue braccia forti e calde che lo afferravano sotto le braccia per tenerlo in piedi, il suo corpo che si afflosciava come quello di una marionetta su quello dell’altro. Si rese solamente conto delle mani del rasta sul suo viso e del suo fiato bollente che gli gemeva qualcosa in faccia prima di cadere svenuto per terra.
 
Tom non ci stava capendo un cazzo, in quel momento, seduto sul divano immacolato della casa di Bill, immobile come una statua, l’orribile sensazione di sentirsi sporco in quella casa asettica, le mani che tormentavano il berretto da skater e il cuore che non la voleva smettere di decelerare i battiti. Si era trovato da solo, in un vicolo, con Bill svenuto tra le braccia e l’unica cosa che gli era venuta in mente in quel momento era portarlo a casa sua, tenendoselo tra le braccia come una bambola, la sua bambola, lacrime di terrore che premevano per sgorgare, correndo e inciampando quanto più veloce poteva, fino a trovarsi davanti al portoncino rosso della villetta di Bill, aspettando che Monica gli aprisse e lo squadrasse con acidità, lanciando poi un’occhiata schifata al fratello. Aveva balbettato qualcosa, continuando a stringere Bill come a non volerlo lasciare andare, stringendogli il polso tra le dita, per poi essere gelidamente spedito al piano di sopra, in camera del moro, come se non fosse successo nulla, come se lui non fosse lì in lacrime col corpo del ragazzo che amava e detestava follemente svenuto tra le braccia e il viso atterrito dalla paura di perderlo. Perché sì, ora l’incubo di Tom non era più perdere una gara di skate ma perdere Bill, anche se si rendeva conto che per colpa del suo orgoglio cretino e folle lo stava lasciando scivolare via. Monica glielo aveva fatto deporre sulle coperte nere del letto, ordinandogli perentoriamente di spogliarlo e di metterlo sotto le coperte, scomparendo poi al piano di sotto borbottando insulti velenosi verso il fratello. Tom lasciava le lacrime correre sulle guance paonazze, mentre spogliava Bill, rendendosi conto di quanto fosse strano spogliare un corpo come morto, lui, abituato a spogliarlo quando era vivo, vegeto e eccitato. Si era preso il suo tempo ad ammirare il corpo che non aveva mai debitamente amato, studiando la pelle pallidissima e senza imperfezioni, anche se non comprendeva cosa fosse quella specie di reticolato scuro sottopelle, decorata da tatuaggi meravigliosi, le ossa quasi sporgenti per l’eccessiva magrezza, mentre lo copriva con una dolcezza a lui estranea con le coperte e aspettava che Monica rientrasse e lo spedisse abbaiando in salotto.
Non sapeva da quanto aspettasse notizie di Bill, forse almeno due ore, lì immobile, intento a pensare a che diavolo gli stesse accadendo tutt’a un tratto, come mai quello svenimento, come mai quell’incidente, come mai tutto. Aveva ragione, in fondo. Si erano ustionati, a stare vicini, si erano trascinati a vicenda in un maelstrom infuocato di passione e orrore, soffocandosi con rose grondanti sangue, ammanettandosi uno all’altro in una gabbia di spine e seta. Nessuno dei due aveva vinto un bel niente, erano morti entrambi, feriti e disintegrati, come soldati che non sapevano più per che parte combattere, persi nel loro personale Afghanistan.
Alzò lo sguardo, e intravide Monica transitare di fronte al salotto. Si alzò di scatto, chiamandola con voce non propriamente ferma
-Ehm, Monica, io … come sta Bill?
La ragazza lo guardò con sdegno, limitandosi a grugnire un
-Sta bene, non è nulla di grave. Gli succede spesso; comunque vai pure da lui.
Tom si grattò la guancia, annuendo, cominciando ad avviarsi su per lo scalone di marmo, cercando di ignorare gli occhietti malvagi di Monica fissi sulla sua schiena. Entrò nella camera del ragazzo, aprendo piano la porta, timoroso, vedendolo seduto sul letto con gli occhi bassi e i lunghi capelli arruffati, avvolto in una vestaglia di chiffon rosa confetto, i piedini nudi che strisciavano sul pavimento. Era bello anche quando piangeva, pensò Tom. Anzi, forse era ancora più bello, con quei cristalli di pianto incastonati nelle lunghe ciglia, brillanti come prismi dei mille colori della strada. Si avvicinò lentamente al letto, in silenzio, sedendoglisi accanto, sentendosi così dannatamente a disagio in mezzo a quelle coperte nere di seta. Lo guardava di sottecchi, tormentando il berretto tra le mani, non avendo il coraggio di allungare la mano per accarezzarlo, cercando una cosa intelligente da dire per spezzare il silenzio di tomba che li opprimeva.
-Grazie per avermi portato a casa.
Bill lo guardò da sotto la cortina di capelli, mordendosi il labbro inferiore, cercando di non sorridere a vedere l’espressione al contempo imbarazzata ma felice di Tom, il sorriso incerto, gli occhi ombreggiati dalle lunghe ciglia che mandavano lampi di gioia infantile.
-Bill, senti … per prima … - cominciò il rasta, grattandosi la testa – Mi dispiace che abbiamo litigato. Non volevo essere così brutale nei tuoi confronti.
-Pasticcino alla vaniglia, non ti scusare. Lo sappiamo benissimo che io e te siamo fatti per comandare e non per sottostare.- Bill lo guardò, mordicchiandosi un’unghia. – Io e te non funzioneremo mai, insieme.
-Forse hai ragione.- Tom sospirò, buttandosi a peso morto sul letto – Avremmo dovuto piantarla subito. Ora però mi vorresti spiegare che diavolo ti succede?
Bill si passò una mano tra i capelli, massaggiandosi il ponte del naso.
-Non è nulla, Tom, è solo …
-Non è nulla?! Senti, sarò ignorante quanto vuoi, ma stupido no!- il rasta lo afferrò per un braccio tirandoselo vicino, con quell’ira che non poteva togliersi da dentro – Possiamo pure tornare a odiarci, ma questo me lo devi. Che cosa ti succede?
-Sei un fottuto manesco.- Bill lo guardò male, però non provo nemmeno a scostarsi dalla presa ferrea dell’altro. No, lui non voleva odiare Tom, lui voleva di nuovo piegarsi al suo volere, forse a quel punto era pure disposto a fare la seconda opzione. Gli mendicava un bacio, un solo bacio, avrebbe dato l’anima per una carezza di Tom, anche un abbraccio, qualunque cosa. Oramai stava troppo, troppo male per non potersi pentire del suo orgoglio cieco e non desiderare piegarsi come un fuscello al volere del ragazzo che lo aveva dannato. Voleva piangere forte e farsi compatire, oramai non gliene fregava più nulla, bastava avere il rasta e tutto sarebbe tornato al suo posto. Ma Bill sapeva che non lo avrebbe mai fatto suo; aveva scelto male il ragazzo di cui innamorarsi. Lui non gli avrebbe dato nulla.
-Perché non lo sapevi.- grugnì Tom, mollando la presa sulla vestaglietta – Voglio delle risposte, Bill, risposte. Poi me ne andrò, come mi hai detto di fare.
A quel punto Bill avrebbe voluto mettersi a strillare come un’aquila che no, lui non doveva andarsene, doveva restare con lui per sempre, che quello che gli aveva detto in ospedale erano solo cazzate senza capo né coda. Ma non lo fece. Si limitò a sospirare e decidere di fare il grande passo, per davvero vedere se Tom in qualche modo contorto ricambiava il suo amore folle, oppure se in effetti voleva solo il suo corpo e la sua sporadica compagnia. Era arrivato a un livello di follia talmente elevato che avrebbe addirittura sottoposto Tom a una prova del genere, pur di smetterla col tartassarsi il cervello ogni ora del giorno e della notte.
-Aspettami qui.- disse, alzandosi e ancheggiando fino al bagno privato di camera sua.
Tom rimase seduto sul letto a torturarsi il piercing al labbro, guardando con ansia la porta del bagnetto. Non aveva la più pallida idea di cosa avesse voluto dire con le risposte in bagno, ma non disse nulla. Attese, semplicemente, gli occhi gonfi di qualcosa che non avrebbe voluto chiamare lacrime, l’ansia immane di quello che Bill stava per comunicargli. Al diavolo, Tom amava Bill. Si era innamorato di lui senza rendersene conto, attimo dopo attimo, sperimentando la sua magia, la sua follia, la sua meravigliosa esistenza, la sua splendida energia che scaturiva a onde dal suo essere. Si opponeva a questo, cercava di combatterlo, ma oramai non ce la faceva più a venire a patti con se stesso. Ci soffriva da impazzire, dopo l’ospedale e tutte le occhiate in sordina che si erano lanciati, dormiva male, era diventato nervoso e violento con tutti, intrattabile perché Bill non era più di sua proprietà. Sì, Tom era possessivo oltre misura, e si era reso conto che oramai considerava il moro più suo che ogni altra cosa. Lo amava di un amore violento, passionale, distruttivo, lo voleva solo per sé ma allo stesso tempo non era capace di tenerselo accanto come avrebbe voluto. Mandava a puttane tutto non appena qualcosa non quadrava, quando il suo cervello lo bloccava, cercando di ostacolare il cuore. Lo voleva e non lo voleva allo stesso tempo, vittima e carnefice del suo stesso amore come mai era stato con nessuno prima dell’arrivo del ragazzo.
Il rasta non si accorse del rientro in camera dell’altro se non quando vide le mani pallidissime con le lunghe unghie smaltate posarsi sulle sue spalle e udì la voce dolce e melodiosa soffiargli direttamente in un orecchio, facendolo tremare
-Ora girati, amore.- odiava quando lo chiamava con quei nomignoli sdolcinati, ma da quando non li sentiva più aveva cominciato a bramarli disperatamente – Non urlare, non scappare, ti prego.
Tom deglutì rumorosamente, sentendo la mano accarezzargli il braccio e si voltò, lentamente, terrorizzato da quello che avrebbe potuto trovare ma allo stesso tempo incuriosito come non mai. E quando posò lo sguardo su Bill, non poté fare a meno di urlare, con voce strozzata, gli occhi comicamente dilatati e un fastidioso sudore freddo a corrergli nella spina dorsale. Sì, Tom urlò, rotolando giù dal letto, perché quell’essere che stazionava dietro di lui non poteva Bill, il perfetto, meraviglioso, androgino Bill Kaulitz. Quello … quello era un mostro. Lo guardò ancora, incapace di distogliere lo sguardo contemporaneamente affascinato e sconvolto da Bill, in ginocchio sul letto, sempre uguale ma terribilmente diverso. Il suo viso era cambiato, perché nonostante i tratti femminei e stupendi fossero quelli, non aveva più la bella pelle liscia e pallida ma una pelle squamosa, grigiastra, vecchia. Le labbra piene erano spente, gli occhioni brillanti senza trucco erano avvolti da borse, le guance cadenti.
-Sono io, Tom.- Bill lo guardò sprezzante, stringendosi meglio nella vestaglia rosa, passandosi una mano nei capelli sempre accuratamente sparati e corvini – Sono io al naturale, senza quei quintali di trucco che mi tengo addosso per mostrarmi bello. Guardami, pasticcino. Guardami.
Tom si alzò in piedi, incapace di spiccicare parola, sconvolto da quella visione del suo adorato Bill, intento a slacciarsi la vestaglia e lasciarla cadere sensualmente per terra, mostrando il corpicino che il rasta trovava mostruosamente eccitante pallido e ricoperto di vene scurissime, come fossero un’intricata ramificazione di radici. Non se ne era mai accorto prima, sempre troppo preso dal sesso per poter davvero far caso alla pelle dell’altro.
-Ora che vuoi fare? Darmi del mostro? Vomitarmi addosso? Su, fallo!
Bill stava piangendo, lacrime di cristallo che gli imperlavano il viso, le braccia scheletriche avvolte attorno al corpicino magro.
-Ma … i tuoi capelli sono veri, no?- fu l’unica cosa che Tom riuscì a balbettare, ricevendo in compenso un sorriso tra le lacrime e una tirata di ciuffi neri e bianchi per dirgli che sì, i suoi capelli erano più che veri.
Si guardarono a lungo negli occhi, prima che Tom si avvicinasse al letto e si sedesse tra le coltri, avvolgendo nuovamente Bill nella vestaglietta e lo facesse accoccolare al suo fianco, sfregandogli le spalle come a riscaldarlo
-Non sto scappando, piccolo. Sono qui per ascoltare la tua storia.
Bill lo guardò, sfarfallando gli occhi, quello cieco che fissava l’Infinito e quello vivo che fissava il rasta, le lacrime che continuavano imperterrite a scorrere sulle guance spente e malate, raggomitolandosi più stretto a Tom, cercando rifugio nelle sue braccia calde e confortevoli. Le braccia che amava.
-Sono malato, pasticcino.- sussurrò, sentendo il respiro di Tom nei suoi capelli farsi decisamente più pesante – Sono nato affetto da una patologia degenerativa dei tessuti.
-Ehm, cosa vuol dire?- Tom si grattò la testa, incontrando solo uno sbuffo divertito di Bill e un buffetto sulla guancia.
-Me l’aspettavo, Tom. In parole povere, le mie cellule si rigenerano con una lentezza eccessiva, e certe non si rigenerano affatto, come quelle del mio viso.- spiegò Bill, per poi spostarsi dall’abbraccio del rasta e sistemarsi sotto il piumone. – Spogliati.
-Cosa?- Tom lo guardò interrogativamente, notando che, diamine, Bill era dannatamente sexy e affascinante anche in quelle condizioni.
-Voglio che rimani in mutande e ti metti sotto le coperte con me, che mi abbracci e che mi lasci finire di raccontare così.- Bill lo guardò con i suoi occhi penetranti, la bocca stretta in una linea sottile – Cos’è, ti vergogni dopo tutto quello che abbiamo fatto in un letto? Fammi il piacere.
Tom sospirò rumorosamente, cominciando lentamente a spogliarsi, sotto gli occhi tristi del moro che lo scrutavano con quell’amorevolezza che lo terrorizzava e che lo ammaliava contemporaneamente, sempre sospeso tra la voglia di abbandonare la sua indipendenza e cadere tra le braccia dell’altro e il rivoltoso che aveva dentro, incapace di fermarsi in un porto. Da un lato, voleva continuare a essere libero da ogni legame, un pirata che non poteva fermarsi, che ogni tanto tornava a Tortuga e trovava il suo amato seduto sul molo ad aspettarlo, per poi lasciarlo di nuovo per mesi, forse sapendo che non sarebbe più tornato. La vedeva così, il loro rapporto. Lui, un pirata coraggioso e spavaldo, inseguito dai demoni di un passato ancora troppo presente, sempre impegnato in una navigazione spregiudicata e pericolosa, alla ricerca dei tesori spagnoli e della fonte della giovinezza, e Bill, una prostituta di Tortuga che lo aspettava ogni volta, che bruciava d’amore per lui, che sopportava imperterrito ogni sua matta scelta, vittima del suo egoismo e sempre pronto a piangere lacrime per lui ogni volta che partiva per una missione coi suoi pirati. Oppure, la versione gangster, in cui lui era un gangster americano sempre pronto a lanciarsi in nuovi e complessi affari da cui uscirne vivi era difficile, nemico dei Grandi Mafiosi, solipsista fino al midollo e brutale, e Bill era il suo amante che sopportava in silenzio ogni sua intemperanza, che lo attendeva con un sorriso costruito, pronto a disperarsi per lui e a fargli da capro espiatorio amandolo. C’erano tante storie, nella chitarra di Tom e nel baule di Bill, tante storie troppo simili per non significare davvero qualcosa per il legame sempre più fragile ma al contempo forte tra i due ragazzi. Se le raccontavano a vicenda per convincersi di qualcosa che sarebbe bastato dire a voce alta ma di cui entrambi erano in fondo terrorizzati. Erano due isole, due mercenari, due vulcani. Si vendevano e si compravano come sigarette.
Tom si sdraiò sotto al piumone nero, cercando di mantenere la calma, stringendo Bill in un abbraccio mozzafiato, soffiandogli un bacio nei capelli arruffati, sentendo le gambe dell’altro avvolgersi al suo bacino, le sue braccia esili afferrarlo, il suo viso schiacciarsi contro il suo collo. Gli accarezzò la schiena ossuta, piano, creandogli una sorta di guscio protettivo attorno, come una bolla di sapone, come una conchiglia di madreperla.
-Vedi, io sono molto debole.- raccontò Bill, sfregando il nasino nel collo del rasta – Ho complicazioni piuttosto serie al sistema circolatorio e a quello cardiaco, la mia autonomia è sempre a rischio.
-Perché non me l’hai mai detto, Bill? Se l’avessi saputo … - iniziò Tom, guardandolo fisso in quei due occhi profondissimi, studiando con attenzione le comete che precipitavano in quello vivo e lo tingevano di mille sfumature violente e iridescenti, sbocciando come fiori dalle nebulose che scoppiavano e maturavano, mentre in quello cieco turbinavano enormi buchi neri che si ingrandivano e rimpicciolivano alla velocità di un nanosecondo, risucchiando piccole matasse di stelline argentee nelle loro tenebre distruttive.
-Se l’avessi saputo cosa? Ti saresti comportato in modo differente? Ti faccio pena, adesso?- ringhiò Bill, con tono tagliente e amaro, lasciando Tom metaforicamente pugnalato a morte e sanguinante depressione. – Sei uno stronzo, tesoro, non cambio idea così facilmente!
-E tu sei una cazzo di attricetta da avanspettacolo.- sbottò a sua volta Tom, e la cosa così strana era che continuavano a litigare follemente sempre rimanendo avvinghiati uno all’altro come due rocce. Erano entrambi l’appoggio dell’altro, erano i rispettivi demoni e angeli, pronti a dannare come erano pronti a salvare. Non si sarebbero salvati da soli, lo sapevano benissimo, e non sarebbero nemmeno affondanti da soli. Erano fatti per essere una cosa unica, per morire o vivere assieme, perché se uno perdeva il treno, era inevitabile che l’altro, anche se fosse riuscito a salirci, si sarebbe buttato giù per raggiungere quello in stazione. – Avresti potuto dirmi che eri malato, forse avrei capito più cose!
-Ti stai tirando indietro, te ne rendi conto?- Bill rise istericamente – Sei uno schifoso ipocrita, te ne sei sempre sbattuto di come stessi io, dentro e fuori. Anche se avessi saputo che sono malato, cosa ti sarebbe cambiato? Un cazzo, ovviamente.
-Perché tu? Non crederti tanto un santo, Bill, perché non lo sei.- ribatté inviperito Tom, anche se sapeva che in fondo la colpa era solo che sua.
Bill gli lanciò un’occhiata di fuoco con l’occhio vivo, per poi continuare con voce rotta dalla stanchezza
-Vedi, Tom, i miei globuli rossi sono gravemente malati, come lo è la mia pelle e il mio sangue. È come se io non avessi riciclo, ma quello che ho è quello, non lo posso cambiare. Il mio corpo marcisce, pian pianino. Ho perso la vista da un occhio non perché abbia avuto un incidente, ma solamente perché mi era venuta una crisi.
-Una crisi?- Tom lo fissò stralunato.
-Ho spesso delle crisi.- Bill si strinse di più a lui – Come quella di oggi, a volte più forti, altre, come adesso, più deboli. Le mie ossa non sono stabili, spesso non mi reggono in piedi, soffro di emicranie così lancinanti che tu non puoi nemmeno immaginare, vomito spessissimo fino a non rimanere stremato dagli spasmi osceni del mio stomaco. Quando ti ho visto che baciavi un altro, al Kalende May, sono scappato. La crisi già in corso, lo shock tremendo, mi hanno fatto svenire per strada, soffocato dal mio stesso vomito. Tutto ciò ha aiutato i miei occhi già non propriamente al sicuro a mollare la presa, e ora sono mezzo cieco. Anzi, sono destinato a diventarlo del tutto, prima o poi.
-Quindi … è tutta colpa mia.- Tom voleva vomitare, a quel punto, ma si limitò a lasciare qualche lacrimuccia solitaria ornargli le lunghe ciglia. Era un altro orribile incubo, quello. La sua vita era diventata un orrore da quando era entrato a contatto con quella supernova distruttiva di Bill.
-Un po’, ma non del tutto. Hai accelerato i tempi.- Bill fece un mesto sorriso – Non ce l’ho con te per l’occhio, sia chiaro, non ne sapevi nulla. Ce l’ho con te per tutto il resto, come prima.
-Bill … c’è altro che devi dirmi?- Tom glielo leggeva in faccia, quella faccia così distrutta ma sempre così bella, che non era finita la sua nemesi.
-Sì, amore, c’è dell’altro.- Bill lo guardò triste, lasciando che le sue lacrime incontrassero quelle di Tom sul guanciale, unendosi in una vaga forma cristallina che al moro, per un attimo, sembrò un cuoricino.
Si guardarono in silenzio per un po’, prima che Bill sussurrasse, direttamente sulle labbra di Tom, le lacrime a bagnargli le guance smunte
-Sono un malato terminale, tesoro. Mi hanno dato ancora cinque anni.- gli strinse la mano sotto alle coperte, intrecciando dolcemente le loro dita, baciandolo piano – Tom, pasticcino, io sto morendo.
  
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