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Autore: WhileMyGuitarGentlyWeeps    17/08/2016    1 recensioni
Joan Cameron si trasferisce a New York dopo aver capito che la vita che credeva perfetta era in realtà una gabbia dorata. Arriva al 4D in una fredda mattina di febbraio e la sua porta non si apre.
Accorre in suo aiuto, come un principe su un cavallo bianco, quello che sarà poi il suo vicino, aprendo la porta di casa sua. Lui di fiabesco non ha nulla. E’ un’anima tormentata, svuotata.
Da quel freddo giorno di febbraio le loro vite si incrociano e si scontrano in una danza in cui non ci sono né vincitori né vinti.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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21.
"That's me in the corner
That's me in the spotlight
Losing my religion
Trying to keep up with you
And I don't know if I can do it
Oh no I've said too much
I haven't said enough"


 

“Cosa vuoi?” Aprì la porta quel tanto che bastava per vedere chi era, ma si rifiutò di aprirla completamente. Voleva che fosse chiara la sua rabbia e soprattutto voleva fosse chiaro che lei non lo voleva lì.

Le mise la scatolina davanti agli occhi.

Joan non avrebbe fatto il primo passo, non quella volta. Si limitò ad alzare le spalle, noncurante.

“Perché?”

“Perché cosa?”

“Perché questo!” Mosse l’oggetto davanti al suo naso.

“Beh era il tuo compleanno, no?!”

Cult abbassò lo sguardo, per la prima volta Joan ebbe l’impressione che si stesse arrendendo. Estrasse il contenuto dalla piccola scatola. Fece penzolare la catenina d’oro, sottile e luccicante dalle dita.

“Non avresti dovuto”.

“Ormai l’ho fatto”. Si schiarì la voce, improvvisamente priva della forza che sentiva di avere solo pochi attimi prima. “E poi il tuo ciondolo è così bello… E’ un peccato
che tu non lo possa indossare per colpa di una catenina rotta”.

Cult alzò finalmente lo sguardo. Con una manata aprì la porta e subito dopo afferrò la sua vita, stringendola a sé.

Joan, scioccata, tentò di indietreggiare, ma la presa del ragazzo era troppo ferma sul suo fianco destro.

Le loro fronti si sfioravano, i loro respiri si incontrarono, spezzati e caldi.

“Mi dispiace”. Sussurrò lui, gli occhi improvvisamente più scuri fissi in quelli caldi di lei.

Joan boccheggiò, non riuscendo ad emettere alcun suono. Non si sarebbe mai aspettata un atteggiamento del genere da lui.

Cult con un calcio secco chiuse la porta, senza staccarsi da lei. Appoggiò sul tavolino l’oggetto che teneva in mano e finalmente potè cingerle la vita con entrambe le mani. La spinse delicatamente contro il muro, appoggiando una delle mani alla parete, mentre l’altra rimaneva salda sul fianco.

Joan era interdetta, non sapeva come comportarsi, non sapeva cosa voleva, chi voleva.

La parte razionale del suo cervello, quella che ci teneva alla sua sanità, la spinse a pensare a Huck, che rappresentava la calma, la tranquillità; quella irrazionale, invece, le diceva di spegnere il cervello definitivamente e non pensare a nulla.

“Smettila di pensare, ragazzina”. Sussurrò Cult al suo orecchio, la voce roca e calma. Quando lei lo guardò stupita lui sogghignò. “Vedo le rotelline girare”.

Le sfiorò appena il viso, con una delicatezza che non pensava gli appartenesse.

“Io…” Iniziò lei, ma lui non le diede tempo di dire nulla, tappando la sua bocca con un bacio.

Fu meglio del primo, o forse no, forse era semplicemente più preparata. Era come se conoscesse bene quelle labbra, come se sapesse quale inclinazione fosse necessaria per incastrare la sua bocca a quella di lui.

Era caldo e umido. La sua lingua era morbida e si adeguò perfettamente a quella di lei.

Joan infilò una mano nei capelli, mentre l’altra era sul petto, all’altezza del cuore che pompava velocemente. Cult spostò la mano dal fianco alla schiena di Joan, oltrepassando la sottile maglietta e facendo sì che la ragazza fosse percorsa da mille brividi.

Con Huck non era successo: era stato dolce, sì, ma quei brividi, così forti, così decisi, lei li aveva provati solo con Cult e ormai non c’era motivo di negarlo.

Huck.

Un campanello d’allarme le si accese in quell’angolo razionale che era rimasto.

Si staccò da Cult che, perplesso, ritirò la mano, quasi fosse scottato. Le mai di lei erano ora entrambe sul petto di lui.

“Non posso, mi dispiace”. Era così difficile dire quelle parole. Si sentiva stupida e incoerente, ma era semplicemente confusa. Confusa dai mille segnali contrastanti di Cult e da quella nuova presenza nella sua vita, che sembrava aver portato tranquillità.

Cult indietreggiò impercettibilmente. “E’ per Huck? E’ perché state insieme?”

Joan, imbarazzata, scosse la testa. Cult, però, voleva capire. “E allora qual è il problema?”

La ragazza stette in silenzio, incapace di dar voce ai suoi pensieri.

“Joan…” La incitò lui.

Odiava quando la chiamava Joan. All’inizio odiava in fatto che la chiamasse ‘ragazzina’, ma ora era l’unico modo in cui voleva essere chiamata da lui.

“Io sono confusa…” Sussurrò. La voce era talmente bassa e impaurita che non le sembrò possibile fosse proprio la sua.

“Non capisco…” Cult, immobile davanti a lei, continuava a guardarla, mentre lei fissava il vuoto.

“Io… Tu mi piaci, Cult, davvero… M-ma non penso di farcela coi tuoi continui cambi di umore, di idea, io…” Prese un respiro, ormai a corto d’ossigeno. “Io non posso,
capisci?! Non posso fare questo”. Indicò il loro corpi, finalmente guardando il suo interlocutore negli occhi. “Non posso perché finirei con l’innamorarmi seriamente di te e non voglio soffrire, sono stanca di soffrire…”

Cult, sorpreso dalla crudezza e dalla verità di quelle parole, indietreggiò di un paio di passi. Ormai era vicino alla porta.

“Capisco… E Huck?”

“Huck non c’entra, Cult… Siamo io e te!” Spiegò con la voce che tremava. “Tu cosa provi per me? Cosa sono io per te?”

Cult non parlò, incapace di dar voce ai propri sentimenti, incapace di spiegare cosa provava perché nemmeno lui era in grado di etichettarlo.

Joan scacciò nervosamente una lacrima. “Ecco, appunto…” Sospirò. “Forse dovremmo semplicemente essere amici… Quando non litighiamo e ci aiutiamo a vicenda funzioniamo bene”.

Dì di no. Dì che non è questo che vuoi. Dì che sono pazza!

Lui annuì. Non era ciò che avrebbe voluto da lei, ma poteva accontentarsi. Lui non poteva darle ciò di cui lei aveva bisogno, quindi la soluzione proposta da Joan era la migliore.

“Mi sembra un’ottima idea”. Concluse con voce priva di ogni intonazione.

“Ottimo”. Disse Joan di rimando, trattenendo le lacrime a fatica. Prese la scatolina con la collanina e gliela porse.

Lui la prese, sorridendo malinconico e lasciò l’appartamento.

Solo in quel momento Joan si lasciò andare ad un pianto nervoso, seduta per terra e con la schiena appoggiata al muro.

 
“No ma dico, Cult, ti dispiacerebbe ascoltarmi?”

Cult, con lo sguardo perso oltre la finestra annuì, totalmente distratto.

“Ok, quindi arriviamo lì e facciamo lo scambio, poi scappiamo a Rio de Janeiro e apriamo un chiringito sulla spiaggia, poi magari possiamo anche preparare hamburger, oppure imparerò finalmente a giocare a calcio e diventerò pallone d’oro..”

“Ma che cazzo stai dicendo?!”

“Ah, finalmente sei tornato sul pianeta Terra!”

“Ci sono sempre stato!” Ribattè Cult versandosi del whiskey.

“Sì… Certo…” Steve gli si avvicinò circospetto e indagatore. “Tutto bene?”

Cult buttò giù il liquido ambrato in un solo grande sorso. “Certo, perché dovrebbe esserci qualche problema?!”

Steve alzò le spalle, continuando a osservarlo guardingo. “Ho parlato per almeno dieci minuti e sono sicuro che tu non stessi ascoltando, per cui mi piacerebbe sapere per quale motivo ho appena buttato dieci minuti della mia vita…”

Cult, col bicchiere di nuovo pieno e una sigaretta stretta fra indice e medio, si sedette, guardando l’amico dritto negli occhi. “Ero solo sovrappensiero, stavo pensando alla scambio di stasera, tutto qui!”

Steve non era per niente soddisfatto, conosceva Cult meglio di quanto lui conoscesse se stesso e aveva capito che c’era qualcosa che non andava.

“Come vuoi… Quando fai così non c’è verso di farti parlare, quindi non ci perdo neanche tempo. L’importante è che tu sia pronto per lo scambio di stasera, non voglio che qualcun altro finisca al pronto soccorso”.

Cult ghignò. “Non preoccuparti, stasera filerà tutto liscio. Dì a Bolton che andrà tutto come da piani”.

Steve guardò Cult, ormai senza speranze. “Il tizio si chiama Barton, non Bolton!”

Cult, noncurante, alzò le spalle. “E’ lo stesso, l’importante è che almeno lui paghi subito, non come l’altro a cui ho dovuto fare due visitine…”

“Ok. Ti passo a prendere io!” Steve uscì dall’appartamento, salutando l’amico con un cenno.

 
Cult era appena uscito dalla doccia quando qualcuno bussò alla sua porta. Si trovò inconsciamente a sperare che fosse Joan e questa speranza lo fece tentennare, prima di aprire la porta.

La persona che si trovò davanti, però, non era Joan.

“Melody cosa diavolo ci fai qui?!”

La ragazza si fece spazio nella stanza, senza togliere gli occhi dal petto nudo e bagnato del ragazzo.

“Beh…” Disse sensuale sedendosi sul bracciolo del divano e accavallando le gambe. “Sei stato così gentile a riaccompagnarmi a casa ieri e io non ti ho neanche ringraziato…”

“Prego!” Disse Cult sbrigativo, tenendo ben aperta la porta per farle capire che non era la benvenuta. “Ora scusa ma vado di fretta, devi andartene!”

Melody si rabbuiò. Scavallò le gambe e lo guardò imbronciata. “Ma come?! Io sono venuta fin qui apposta per te…”

“Beh hai fatto tanta strada per niente”. Concluse lui impassibile.

Melody si sentì ferita, non c’era più alcuna traccia di sensualità o spavalderia nel suo sguardo. Era delusa.

“Bene…Allora è proprio vero quello che ha detto Joan, mi rendo ridicola e basta!” Urlò. “Sempre a tornare da te con la coda tra le gambe e tu mai una volta che mi tratti bene!”

Era la prima volta che parlava di Joan usando il suo nome e non i soliti ‘figa di legno’ o ‘strizzacervelli’.

Cult si rese conto di essere stato, probabilmente, eccessivamente insensibile e quindi addolcì il tono: “Senti, Melody, forse sono stato un po’ brusco, ma ho davvero da
fare questa sera…”

“No, non è per stasera. E’ per tutte le volte in cui mi hai trattato di merda! Credi davvero che io non provi nulla?!” La voce si era abbassata drasticamente. “Ci conosciamo da una vita, mi piaci da quando avevamo dieci anni, ma evidentemente io non piaccio a te!”

“Ma no, non è questo è che…”

“E che non ti piaccio nel modo in cui tu piaci a me… Io per te sono solo una con cui divertirsi e fino ad ora ho pensato che potevo farmelo bastare ma non è così!”

Cult fece per parlare, ma lei lo bloccò alzando una mano. “Non voglio più accontentarmi, Cult… E se questo vuol dire dirti addio, allora…” Scacciò malamente una lacrima che, solitaria, si era avventurata sulla sua guancia. “Addio!”

Si alzò e a testa alta uscì dall’appartamento, senza voltarsi indietro. Cult gettò la testa all’indietro, sospirando sonoramente. Si voltò per chiudere la porta proprio nello stesso momento in cui Joan stava per uscire di casa per andare al lavoro.

I loro sguardi si incrociarono per un millesimo di secondo e questo bastò ad incatenarli per alcuni secondi. Joan non potè fare a meno di notare il ciondolo luccicare sulla pelle umida del petto di lui, mentre Cult si soffermò sul ciuffo che, ribelle, sfuggiva alla coda circondandole la guancia destra.

“Ciao”.

“Ciao”.

 
L’aria era afosa e l’umidità doveva essere almeno all’80%. Fortunatamente i treni della metro erano più freschi e il viaggio fu almeno vagamente confortevole.

Una volta al locale cercò Steve, ma non lo trovò da nessuna parte. Credendo che fosse stranamente in ritardo sistemò alcuni bicchieri in attesa dell’arrivo dei clienti. Qualche minuto dopo entrò nel locale Duck, ancora con le stampelle, ma che camminava decisamente meglio rispetto ai giorni precedenti.

“Ciao Duck! Se cerchi Steve non è ancora arrivato!”

“Lo so”. Rispose lui sorridente appoggiando le stampelle ala parete e andando dietro il bancone. “Questa sera è impegnato con Cult, ha preso il mio posto siccome sono ancora convalescente. Comunque lo sostituisco io, so che non vedevi l’ora di passare la notte con me”. Concluse ammiccando.

“Preferirei passarla non lavorando, ma non si può avere tutto dalla vita…” Disse lei alzando gli occhi al cielo.

Si voltò, recuperando un blocchetto per le ordinazioni e fece per metterselo nella tasca posteriore quando qualcosa o meglio, qualcuno, attirò la sua attenzione.

“Oh no…” Esclamò tra sé e sé quando si accorse che Melody le stava andando incontro. Si guardò in giro e notò la desolazione intorno a lei: Duck era sparito chissà dove, Caroline non era ancora arrivato e lei era sola con la sua peggiore nemica.
 
Buonsera!
Capitolo fresco fresco, non particolarmente lungo, ma che è un po' la continuazione e conclusione del precedente e che segna anche una sorta di svolta, capirete bene il perchè...
Spero di non aver deluso/fatto arrabbiare nessun sostenitore dei Joalt, che poi sarebbe il nome della ship Joan-Cult, che ho inventato io perchè creare ship va tanto di moda e volevo sentirmi al passo coi tempi! ;)
Prima di lasciarvi vorrei fare un appunto sulla frase iniziale perchè mai prima d'ora avevo trovato una frase che fosse così calzante per un capitolo: sembra che quelle parole siano proprio scritte per questo capitolo (seee, magari!) e hanno anche ispirato il dialogo tra Joan e Cult. Credo che la conoscano tutti perchè è un pezzo di storia della musica, ma in caso contrario si tratta di Losing my religion, dei REM. Ascoltatela se non la conoscete e riascoltatela se la conoscete già, perchè fa bene all'anima!
A presto!
xx

 
  
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