La
storia inversa
«Fiori
d’arancio e improbabili complicazioni»
Giovedì«
Vancouver,
Columbia Britannica, Canada.
17 luglio, ore nove e due del mattino.
Gwen si
sarebbe aspettata ogni cosa quella mattina.
Magari
avrebbero chiamato da lavoro, chiedendole di venire in ufficio per
coprire le
ore di qualche collega malato o in vacanza; oppure avrebbe ricevuto
finalmente
quel nuovo banco da lavoro che aveva ordinato su internet settimane fa;
o forse
qualche altro invitato sarebbe arrivato in città in anticipo
e avrebbe deciso
di passare a trovarla.
Ma, di
certo, Gwen non si sarebbe mai aspettata quello.
Courtney,
seguita a ruota da John e Duncan, era piombata nel suo salotto e si era
limitata ad annunciare: «Ho prenotato estetista, parrucchiere
e una mezza giornata
alle terme per noi due».
La
ragazza, sveglia da poco e ancora in pigiama, si limitò a
sbadigliare,
analizzando per bene ciò che le avesse detto. Ma, dopo
essere tornata a casa a
l’una e mezza passata, la sua mente faticava ad elaborare
pensieri e concetti
di ogni tipo.
«Scusami?»
si limitò a domandare stropicciandosi gli occhi, mentre
dalla sua bocca uscì un
altro grosso sbadiglio.
«Ho
detto che oggi io e te andremo dal parrucchiere,
dall’estetista e alle terme»
scandì per bene Courtney, con più pazienza che
poteva.
Questa
volta riuscì a recepire per bene le parole e non le
piacquero per niente. Lei
sapeva bene che detestava ogni singola cosa che aveva nominato, eppure
aveva
deciso ugualmente di portarcela.
«Perché
mi odi?» fu l’unica cosa che riuscì a
dire, dopo aver tenuto la bocca aperta
per due minuti.
«Non ti
odio, lo faccio per il tuo bene» rispose comprensiva.
«Hai delle doppie punte
che si vedono da un chilometro e, senza offesa, quelle sembrano
più le gambe di
un orso che di una giovane donna».
Gwen si
passò una mano tra i capelli e abbassò lo sguardo
verso le gambe, coperte solo
da un leggero pantaloncino di cotone. A lei la situazione non pareva
così
disastrosa, ma evidentemente Courtney non la pensava così, a
giudicare dallo
sguardo scettico con cui la stava studiando.
Doveva
trovare una scusa adeguata per scampare a quell’intera
giornata di torture,
doveva assolutamente farlo. E poi, come un fulmine a ciel sereno,
l’idea
perfetta le si presentò davanti.
«Mi
dispiace Court, ma avevo progettato di svolgere alcune mansioni
stamattina,
come ritirare le fedi e i fiori per la chiesa. Senza dimenticare che
devo
sistemare degli ultimi dettagli per il ristorante»
spiegò dettagliatamente,
cercando di suonare il più mortificata possibile.
«Purtroppo devo farlo io,
Trent è molto impegnato con il locale oggi. Senza contare
che deve passare in
città, per provarsi lo smoking».
Era
certa di avercela fatta, ma la risposta dell’altra fece
crollare il suo bel
castello di carte.
«Ed è
qui che entrano in scena loro» esclamò, indicando
Duncan e John, che non
avevano esattamente un’aria entusiasta.
«Svolgeranno tutti i lavoretti
pre-matrimoniali che li chiederai di fare, mentre noi due ci prendiamo
una
giornata di relax».
Gwen
non era sicura che farsi strappare peli da ogni parte del corpo fosse
rilassante, ma evitò di contraddirla.
«Noi
sgobbiamo per tutta la città e voi alle terme. Non mi sembra
esattamente equo»
si lamentò Duncan. «Alla faccia della
parità di sessi!»
«Senza
contare che io avevo di meglio da fare, come ad esempio dormire fino a
tardi, e
invece qualcuno non solo mi ha buttato giù dal letto ad un
orario indecente -
le otto di mattina, ci rendiamo conto?! -, ma vuole anche obbligarmi ad
andare
a fare shopping!» quasi urlò John indignato.
«Scordatelo, sorella».
«Dai,
non puoi obbligarli a fare qualcosa che non vogliono»
cercò di difenderli Gwen,
sollevata che i due avessero tanto da ridire. «E poi
è il mio matrimonio, non è
giusto che ci pensino loro».
Ma
anche questa volta la sorprese.
«Certo
che posso obbligarli!» esclamò.
«Lui,» e qui indicò John, che
sbarrò gli occhi,
«mi deve un favore grande come questa città: gli
ho trovato una sistemazione a
prezzo zero».
«Peccato
che quella sistemazione sia casa mia e chi ci rimette sono
io» specificò
Duncan, sentendosi chiamato in causa.
Ma
Courtney fece finta di non ascoltare, incrociando invece le braccia al
petto e
assumendo un atteggiamento intimidatorio, che li fece zittire
all’istante; poi
tornò a guardare la ragazza.
«Gwen,
non è solo perché sei - perdona la schiettezza -
impresentabile, io voglio
davvero passare un giorno con te, completamente sole, come ai vecchi
tempi»
disse, cambiando completamente approccio e mostrandosi il più
dolce possibile. «È da
tanto che non ci prendiamo un po’
di tempo solo per noi. Ti prego!»
E poi mise su una delle sue armi più
letali, il labbruccio.
Era già successo molte altre volte:
ogni volta che Courtney voleva fare qualcosa che lei detestava con
tutta se
stessa, metteva su quell’espressione tenera e compassionevole
e la faceva
cedere nel giro di cinque secondi.
E avvenne anche quella volta.
La mora tentò in ogni modo di sembrare
impassibile, ma dovette ammettere che era troppo esperta. Quel
labbruccio
tremolante le sciolse il cuore e, come sempre, non riuscì
più a resistere.
«E va bene» sospirò alla fine,
avviandosi sconsolata verso le scale. «Vado a
prepararmi».
E, vedendola scomparire al piano di
sopra, Duncan e John si scambiarono uno sguardo di puro terrore: lo
shopping li
attendeva.
• •
•
Ore
dieci e ventitré.
«Non
posso credere che Gwen si sia
fatta intenerire dall’espressione da cucciolo abbattuto di
Courtney» sbraitò
Duncan, non appena furono scesi dall’autobus.
«Fossi in te, eviterei» lo fermò John,
con un ghigno. «Sbaglio o anche tu ti sei fatto raggirare
più volte dalla
stessa espressione?»
Tacque all’improvviso, ripensando a
tutte le volte che il labbruccio di Courtney lo aveva spinto a fare
cose che
non avrebbe mai fatto in vita sua. In generale, lo costringeva ad
accompagnarla
a fare compere, poiché aveva bisogno di qualcuno che le
reggesse le borse.
«È una cosa diversa» ringhiò.
«Io lo
faccio per riconquistarla».
«Cioè, ti fai miseramente sfruttare
solo perché vuoi riconquistarla?» chiese
l’altro scettico. «Bah, contento te».
«È un metodo di corteggiamento
infallibile. Ma cosa vuoi saperne tu, che negli ultimi sei anni avrai
avuto sì
e no quattro donne?»
«Perlomeno io ho ancora una dignità, a
differenza di una certa persona».
Non riusciva a concepire che John
avesse una battuta pronta per ogni cosa che dicesse, non era umanamente
possibile.
«Lasciamo perdere» sbuffò Duncan,
cambiando discorso. «Secondo le indicazioni, la gioielleria
dovrebbe essere qui
vicino».
E infatti, non appena svoltarono
l’angolo, si ritrovarono davanti ad un enorme vetrina
stracolma di collane e
anelli che costavano più di qualunque cosa avessero mai
visto.
Prima che il bruno potesse entrare, fu
bloccato da una mano.
«Vedi di combinare uno dei tuoi soliti
danni, mi raccomando» disse con molta ironia il suo compagno
di avventura,
alludendo alla vetrinetta che aveva devastato tre giorni prima. Tutti
quegli
zero continuavano a tormentarlo nel sonno.
«Rilassati, ex cresta verde» lo rassicurò,
togliendogli la mano dalla sua spalla. «Non sono un bambino,
so come comportarmi».
Duncan non ne era propriamente
convinto, ma siccome voleva farla finita in fretta e litigare con quel
pazzo
non rientrava nei suoi piani, decise di evitare ogni commento
sarcastico e di
entrare nel negozio.
A differenza di quella a Toronto, la
gioielleria era enorme e, a quanto sembrava dall’affluenza,
gli affari andavano
a gonfie vele. I prezzi erano comunque molto simili, esponenziali a
livelli
estremi.
Il moro si avvicinò al bancone e
premette il campanellino d’ottone piazzato sopra ad esso. In
un nanosecondo si
materializzò una signora rugosa e spigolosa sulla
cinquantina, con un paio di
occhiali rossi e vistosi sugli occhi.
«Posso esservi d’aiuto?» chiese con
tono cordiale.
«Sì, dovrebbe esserci una prenotazione
a nome McCord» rispose. «Si tratta di due fedi
nuziali».
La gioielliera annuì e scomparve dietro
la cassa, per farvi ritorno qualche istante più tardi con
una scatoletta di
velluto blu aperta, dove vi erano depositate due splendide fedi
d’oro.
«L’ordinazione è già stata
pagata» specificò,
per poi sporgersi verso di loro. «Personalmente, ho sempre
appoggiato le unioni
tra persone dello stesso sesso, dopotutto l’amore
è amore. Auguri!»
A quella frase Duncan sbiancò e John
prese a tremare di orrore. Quella signora aveva appena ipotizzato che i
due non
solo fossero gay, ma anche in procinto di sposarsi. Sembrava una storia
del
terrore.
«Deve esserci stato un malinteso»
mormorò Duncan, il primo dei due che riuscì a
ricordare come si parlasse. «Non…
stiamo insieme… e non si
tratta del
nostro matrimonio».
«È di due amici» specificò
ancora di
più il bruno, ancora profondamente traumatizzato.
«Oh, capisco» disse la gioielliera a
disagio. «Mi spiace, davvero. Pensavo che fossero per voi
due. Vi porgo le mie
scuse».
«Non si preoccupi» la rassicurò Duncan,
mentre dietro di lui sembrava che John volesse ucciderla con lo
sguardo. Poi
prese la scatola e, uscendo dal negozio, aggiunse:
«Arrivederci».
Una volta fuori, John prese a sbottare
il suo disappunto con aria indignata.
«Ho praticamente scritto sulla fronte
la parola etero»
gridò sconvolto. «E,
anche se fosse, di certo non mi metterei con te».
L’altro borbottò di risposta:
«Più che
altro sulla fronte hai tatuata a lettere cubitali la parola
cogl-».
Ma non riuscì a finire la frase: poiché
guardava dritto davanti a sé come se fosse incantato, non si
accorse di un
crepa nel marciapiede e ci inciampò. Duncan
riuscì a rimettersi in equilibrio
subito, senza che sbattesse la testa per terra, ma, durante il breve
volo, la
scatoletta con le fedi gli sfuggì di mano e
cominciò a rotolare lungo la
strada. John prese a rincorrerla il più velocemente
possibile - e la dieta a
base di pizza e coca cola non lo aiutò affatto - ma, prima
che potesse
afferrarla, cadde in un tombino aperto e, con lei, tutte le speranze di
completare quelle mansioni del giro di mezza giornata.
«Ma porco Duncan!» imprecò,
inginocchiandosi vicino al tombino.
«Sì, io sto bene, grazie per
l’interessamento» disse colui a cui era rivolta la
“bestemmia”, avvicinandosi e
spolverandosi i vestiti.
«Non me ne frega niente di come stai.
Ti rendi conto di quello che hai fatto? Hai mandato all’aria
la possibilità di
sbrigarcela in due o tre ore e, soprattutto, quella di riuscire a fare
un
pranzo decente!» gli urlò in faccia, rialzandosi.
«Poi sono io Mister Mani di
Burro, colui che non fa che combinare danni e rompere oggetti
preziosi!»
«Punto primo, non sputare» disse
allontanandosi e stropicciandosi un occhio, dentro il quale era entrata
della
saliva. «E punto secondo, solitamente tu rompi
qualcos’altro di altrettanto
prezioso e che mi appartiene» aggiunse alludendo ai suoi
genitali e cercando di
allentare la tensione senza alcun successo.
«Basta con le volgarità e muovi quelle
chiappe flaccide che ti ritrovi. Ho intenzione di trovare
un’altra gioielleria
prima di sera».
«Io sarei volgare!» replicò Duncan
beffardo, seguendolo per il marciapiede lungo il cui procedeva quasi
correndo.
«E, ad ogni modo, se fossi gay, nemmeno io farei mai la
pazzia di mettermi con
te, almeno che non diventi un pazzo masochista».
«Vedo che su una cosa siamo d’accordo,
cresta verde!»
Ah, quant’era solida ed armoniosa la
loro amicizia!
•
• •
Ore
undici e cinquantotto.
«Potresti
rallentare un secondo?»
Courtney, che procedeva a passo svelto
lungo le vetrine, si fermò a guardare Gwen, un paio di metri
più indietro, la
quale camminava lentamente e con le gambe stranamente divaricate e
un’espressione sofferente in volto.
«Era proprio necessario?» chiese non
appena riuscì ad affiancarla. «Sai
com’è, l’inguine mi va a
fuoco».
«Certo che lo era» rispose la bruna
roteando lo sguardo. «Non si è mai vista una sposa
con tutti quei peli che
avevi. E dovresti ringraziarmi, avrai probabilmente perso tre
chili» ironizzò,
con un sorrisetto malizioso.
«Grazie, Courtney, per avermi provocato
del male fisico» disse con più sarcasmo possibile.
«Credo che il tuo dolore l’abbia
sentito chiunque in quel posto» ridacchiò la
diretta interessata, alludendo
alle urla che Gwen aveva lanciato ogni volta che l’estetista
le strappava via i
peli. «Hai mai fatto una ceretta?»
«No. Sai com’è, preferisco il pratico e
soprattutto indolore rasoio».
Gwen temeva che l’amica avesse potuto
portare ancora avanti il discorso - come se farsi depilare ogni parte
del corpo
non fosse già abbastanza umiliante; per sua fortuna,
però, erano arrivati
davanti al parrucchiere e, prima che potesse farci caso, Courtney era
già
entrata e si era diretta verso le casse.
«Ho prenotato a nome Barlow per
mezzogiorno» disse alla cassiera, una ragazza di colore con
una zazzera di
capelli riccissimi in testa.
Quella prese un blocco appunti da sotto
il banco, lo aprì e cominciò a scorrere fino a
quando non trovò il suo nome.
«Oh sì, eccolo qui» annunciò.
Poi
indicò con un dito due sedute in fondo al locale e disse:
«Potete cominciare ad
accomodarvi lì. I miei colleghi arrivano tra un
attimo».
Il negozio era piccolo, con una fila di
poltroncine sistemate davanti a degli specchi e dei lavandini neri per
lavare i
capelli sistemati sulla parete affianco. I muri erano tappezzati di
poster di
capigliature di ogni tipo.
«Posso chiederti una cosa?» proferì
Gwen, non appena prese posto, a Courtney, che leggeva una rivista presa
da un
cesto di vimini all’ingresso.
Lei annuì distrattamente, senza alzare
lo sguardo da quelle pagine. Cercava un’acconciatura che la
soddisfacesse a
pieno.
Ma prima che riuscì a spiccicare una
singola parola, dietro di lei si era materializzato un ragazzo
muscoloso e con
dei lunghi e setosi capelli bruni.
«Buongiorno!» esclamò raggiante,
salutando la sua immagine nello specchio. «Tu devi essere
Gwen».
«In persona» confermò con aria
annoiata.
«La tua amica ci ha detto che sabato ti
sposi» vaneggiò lui, estasiato.
«Congratulazioni!»
«Grazie» rispose con cortesia, mentre
il suo sguardo saettò alla sua destra.
Courtney parlava con una signora da un
folto caschetto rosso riguardo al suo taglio e usando parole che,
giurò, non
riusciva a comprendere. Non era molto pratica di capelli, unghie e
tutto ciò
che riguardasse il termine “estetica” oppure il
più specifico “moda”.
«Mio Dio, tesoro!» esclamò la voce del
parrucchiere, facendola sussultare. «Questi capelli sono un
disastro!»
Gwen si guardò meglio allo specchio,
mentre quello studiava le sue ciocche con estrema
professionalità e uno sguardo
scettico.
Si era sempre occupata dei suoi capelli
da sola, sin da quando aveva quindici anni e sua mamma le aveva
categoricamente
proibito di farsi le mèche blu. In quel periodo ascoltava
solo quello che la
sua testa le diceva di fare - non che ora le cose fossero molto diverse
-,
quindi, non andandole giù quel divieto, comprò la
tinta e, con l’aiuto di una
sua amica del liceo, se le fece da sola. Per sua madre fu uno shock,
tanto che
la mise in punizione per tre settimane intere.
Da allora, aveva cominciato a gestire
da sola i suoi capelli, tagliandoli quando era necessario e tingendoli
quando
il colore cominciava a rovinarsi. Solo che non era mai stata brava, e
si
vedeva.
«Da quanto tempo non vai da un
parrucchiere?» domandò il ragazzo, confrontando
due ciocche di lunghezza
diversa, strapiene di doppie punte.
“Da quasi dieci anni” pensò, ma non
poteva di certo dirlo, o avrebbe rischiato di ucciderlo sul colpo.
«Ehm, da un po’» decise di rispondere,
dopo un attimo di meditazione, rimanendo sul vago.
«E si vede» borbottò, passandosi una
mano dietro la nuca.
La stava trattando come una bambinetta
di otto anni. Probabilmente credeva che fosse una menomata mentale
oppure una
sciatta con nessun gusto. O magari entrambe.
«Ci sarà molto da lavorare»
sentenziò
alla fine Brandon - Gwen aveva scoperto che si chiamava
così, leggendo il suo
nome dal cartellino affisso sul petto -, porgendole una mano per
aiutarla ad
alzarsi. «Seguimi, cara» disse, accompagnandola
verso uno dei lavandini.
Un’ora e mezza più tardi, dopo
sforbiciate e frecciatine di Brandon riguardo il suo pessimo stile e la
sua
scarsa conoscenza in materia di moda, Gwen, che era arrivata a meditare
di
ammazzarlo usando solo un paio di forbici, ebbe l’onore di
vedere il risultato
finale. E dovette ricredersi: per quanto presuntuoso e narcisista
fosse, aveva
fatto un gran lavoro. Il suo caschetto, più nero e ordinato
che mai, senza
nessuna ciocca fuori posto, non era mai stato così perfetto.
Dopo averlo ringraziato, si avviò verso
Courtney, seduta su uno dei pouf all’ingresso, adibito come
sala attesa, che
rispondeva a delle mail di lavoro dal suo palmare. Nel suo vocabolario
non
esisteva la parola vacanza.
Si schiarì la voce e, finalmente, la
ragazza si accorse della sua presenza.
«Finalmente ti stai trasformando in una
donna» sorrise.
A differenza di Gwen, lei aveva deciso
di non alterare la lunghezza dei suoi capelli, preferendo renderli solo
leggermente più mossi in vista del matrimonio.
«Anche tu sei splendida» disse,
vedendola tornare con lo sguardo sul suo palmare.
Era sempre così: ogni volta che uscivano
insieme, Courtney passava buona parte del tempo al telefono. Era una
donna in
carriera, lo capiva, ma rischiava davvero l’esaurimento
nervoso, se continuava
così.
«Dovresti smetterla di usare
quell’affare, sei in vacanza!» la
rimproverò, portando le mani sui fianchi. Poi
si rese conto che c’era qualcosa che non andava, lo vedeva dal
suo volto. «Sei
sicura di stare bene? Ti vedo giù».
Smise per un secondo di ticchettare
sulla tastiera e aprì la bocca, cercando di parlare.
Sospirò solamente.
«Sto benissimo, davvero» la rassicurò
Courtney, guardandola per un secondo. Per quanto si sforzò
di sorridere, si
vedeva che non era così. Poi prese a riscrivere la mail.
Gwen stava per indagare più a fondo,
quando anticipò le sue mosse. Rimise il palmare in borsa, da
dove cacciò il
portafoglio. Si alzò e, dirigendosi verso la cassa, disse:
«Paghiamo, così
possiamo andare a mangiare».
Non
stava bene.
• •
•
Ore
tre e dodici del pomeriggio.
In
quelle ore, John e Duncan avevano
girato ben sei gioiellerie e in nessuna di queste avevano avuto
fortuna. Una
era chiusa per ristrutturazione, due per ferie, una perché
era il giorno di
riposo e le altre due erano così piene che faticarono
persino ad entrare. La
loro ultima possibilità era quel squallido negozietto fuori
città.
«È tutta la mattina che giriamo a
vuoto» sbottò John. «Se non abbiamo
fortuna nemmeno qui, giuro che bestemmio».
«Avremmo potuto metterci di meno, se
non ti fossi fermato a quella panineria» borbottò
Duncan, ricordando fin troppo
bene i tre quarti d’ora spesi dentro quel posto che sapeva di
pane bruciato.
«Dovevo pur mettere sotto i denti
qualcosa» si giustificò, scrollando le spalle e
spingendo la porta per entrare.
Presto fu ben chiaro perché quel posto
era desertico e dimenticato da Dio. Era piccolo, decadente e polveroso,
circondato da vetrinette mezze vuote.
«Benvenuti» li accolse un uomo sulla quarantina,
con una camicia verde vomito, da dietro il bancone. «In cosa
posso esservi
utile?»
«Stiamo cercando delle fedi quanto più
simili alle originali, spesse e dorate» spiegò
Duncan, avvicinandosi. «E ci
servono entro oggi, altrimenti la sposa e la sua testimone ci
ammazzano.
Soprattutto la testimone».
Immaginò vagamente cosa avrebbe potuto
dire e fare Courtney, non appena avrebbe scoperto cosa fosse successo
quella
mattinata. E in quel pensiero lui era morto.
«Ne abbiamo in quantità!»
esclamò,
felice che quel giorno avrebbe concluso un affare.
«E prima che possa supporre cose
assolutamente false, sono per due amici, non siamo gay, non siamo
legati
sentimentalmente in alcun modo, ed è colpa sua se abbiamo
girato l’intera
città, poiché ha fatto cadere le fedi originali
in un tombino» lo precedette
John, ancora traumatizzato dalle parole di quella gioielliera,
indicando
l’amico.
L’uomo uscì da dietro la cassa e li
fece segno di seguire. Li condusse davanti ad una cristalliera, in cui
vi erano
anelli di ogni tipo e dimensione.
«Scegliete pure quello che ci
assomiglia di più» disse con tono gioviale.
«Il terzo della seconda fila» disse con
aria sicura Duncan, dopo aver esitato a lungo.
Il negoziante stava per prenderlo,
quando John si intromise nel discorso.
«Stai scherzando, vero?» domandò.
«Hai
scelto quello che ci somiglia di meno. Guarda il quarto della prima
fila, è
identico».
Spostò lo sguardo verso la posizione
indicata dal ragazzo e assunse un’aria dubbiosa e scettica.
«Ma ci vedi? Non c’entra niente con
quelli originali».
«Mentre invece quello che hai scelto tu
ci somiglia parecchio. Ma per favore, ho una memoria fotografica, so
esattamente com’erano!»
«Ti prego, dimmi una volta sola in cui
hai ritrovato una cosa senza sfasciare casa, signor Memoria
Fotografica!»
«Ma non c’entra nulla, questo! Fatto
sta che il quarto della prima fila ci somiglia molto di
più».
«Il terzo della seconda fila, al
limite».
«Il quarto della prima».
«Il terzo della seconda».
Il gioielliere stava impazzendo. Quei
due avevano davvero intrapreso una conversazione su quale anello fosse
migliore. Doveva fare qualcosa.
«Che ne dite,» propose a voce alta,
intromettendosi tra i ragazzi per fermare la litigata focosa,
«della terzultima
della prima fila? È molto simile a entrambi gli anelli che
vi piacciono».
Duncan e John si limitarono a guardarsi
in cagnesco. Nella loro lingua, significava un
“sì”.
Aprì la cristalliera, con una piccola
chiave in ottone che gli pendeva da collo, ed estrasse un anello
piuttosto
spesso color oro. Poi, mentre le portava al bancone,
annunciò: «Ho bisogno di
un’oretta per le incisioni. Se volete, potete farvi un giro e
tornare più
tardi, così concorderemo anche il prezzo».
«Per me va bene» grugnì John.
«Ho
bisogno di un gelato».
L’altro lo guardò disgustato.
«Dopo cinque panini vuoi anche un
gelato?»
«Che c’è? Dimostrare che io ho ragione
e tu torto è un’attività che richiede
molte calorie».
A distanza di sei anni, Duncan si chiedeva ancora
perché erano amici.
•
• •
Ore quattro e
trentasei.
«Ora
che hai finito, vieni o no a rilassarti?»
gridò Gwen dalla piscina.
Courtney chiuse la telefonata con il suo capo,
turbata. Il processo era stato anticipato alla prossima settimana e lei
si
trovava fuori città, con pochissimo tempo a disposizione per
prepararsi per
bene. Con tutta probabilità avrebbe perso per la prima volta
in tutta la sua
breve carriera, e non poteva permetterlo.
Rimise il palmare in borsa e la chiuse. Non ne
poteva più.
«Perdonami, era urgente. Una chiamata
improrogabile»
si giustificò una volta a bordo vasca.
Raccolse i suoi capelli freschi di parrucchiere in
una pinza, lasciò scivolare ai suoi piedi
l’accappatoio e si tuffò.
«Io dico che dovresti darci un taglio» la
rimproverò. «Spegni il telefono per qualche ora,
non sarà una tragedia».
Courtney la guardò come se avesse detto un’eresia.
«Nel mio lavoro non esistono ferie» si
limitò a
dire.
Aveva raggiunto il culmine dello stress. Se
avesse continuato con quei ritmi, il suo organismo ne avrebbe
risentito, e lo
sapeva. Ma non poteva comunque farne a meno.
E poi, onestamente, riempirsi di lavoro la aiutava
anche a non pensare a quello che i suoi occhi avevano visto ieri sera.
Più ci
ripensava, più ci soffriva. Quindi, se avesse fatto
dell’altro, non avrebbe
avuto modo di rimuginarci ancora e ancora.
«C’è qualcosa che ti turba, non
è vero?» chiese
all’improvviso Gwen, muovendosi in sua direzione.
«Cosa te lo fa pensare?» mormorò,
sentendo la sua
mano sulla spalla.
«È tutto il giorno che non ti fermi un secondo,
persino a pranzo hai passato più tempo al cellulare che a
parlare con me!»
espose, ed erano tutte argomentazioni valide. «E comincio a
sospettare che
tutto questo,» aggiunse, guardandosi attorno, «sia
un escamotage per non
pensare a questo qualcosa».
Da quando era diventata così perspicace?
Courtney esitò un secondo, indecisa se parlargliene o
continuare a mentire.
Poi, si disse, che era la sua migliore amica e che si era sempre
confidata. Non
sarebbe stato onesto nei suoi confronti.
«Ieri sera,» cominciò, prendendo un
respiro
profondo per rilassarsi, «ho visto Duncan in compagnia di una
ragazza… erano
appiccicati, si stavano baciando» e dopo una breve pausa
aggiunse, rendendo
completamente vano il suo tentativo di calmarsi:
«Quell’infido, schifoso
bastardo la stava baciando!»
Dirlo, ammetterlo a voce alta, faceva ancora più
male.
Sul viso di Gwen apparve un enorme sorriso, e non
capì se era di conforto o era seriamente felice.
«Ma è fantastico» si limitò
ad esclamare.
Courtney pensò che la stesse prendendo in giro e la
cosa la fece irritare ancora di più.
«Hai sentito quello che ho detto?!»
domandò,
cercando di non urlare. Anche se ci era andata molto vicino.
«Non capisci?» disse, scuotendo la testa e
cercando di reprimere la risatina che minacciava di uscire dalla sua
bocca.
«Quello che è successo ti rende gelosa, non
provare a negarlo!,» la bloccò non
appena la vide sul punto di replicare, «E sei gelosa
perché lo ami».
Scoppiò a ridere, una risata isterica e di
scherno.
Non amava Duncan, affatto! Certo, le dava fastidio
che parlasse di altre ragazze in sua presenza, che le fissasse e che lo
trovasse in atteggiamenti scomodi con una di loro, ma questo non
significava
che l’amasse.
Dopotutto, non l’aveva atteso sotto il suo ufficio
quasi ogni sera.
Non aveva aspettato anche solo un singolo
messaggio o una semplice chiamata, quando non lo vedeva per tutto il
giorno.
Non aveva visto andare e venire miriadi di donne e
non si era ripetuta più volte di non darci conto, ogni volta
che ce n’era una
nuova, mentre dentro di sé moriva di gelosia.
Non aveva passato ogni giorno degli ultimi sei
anni a sperare che si accorgesse di lei, che si rendesse conto che
dietro ogni
sfuriata e insulto che gli rivolgeva c’era molto di
più.
E non aveva fatto tutto questo e altro solo perché
lo amava da quanto era una sciocca bambinetta di sedici anni.
«No che non lo amo!» ribatté,
riassumendo tutti i
pensieri caotici che le attraversavano la testa in quel momento.
Cercò di convincere più se stessa che Gwen che
non
fosse così. Bugiarda.
«Potrai mentire quanto vuoi, ma sai che non è
così» rispose lei. «E, detto tra di noi,
anche Duncan è cotto di te. Ci sarà
sicuramente un motivo valido per cui l’ha fatto».
Courtney voleva credere che avesse ragione, lo
voleva davvero. Ma, più si sforzava di giustificare
quell’azione, più non
riusciva a trovare argomentazioni valide.
E, anche se non
l’avrebbe mai ammesso, voleva anche
credere che l’amasse.
Le scoppiava la testa, aveva bisogno di spegnere i
suoi ragionamenti contorti, di dimenticarsi di quella faccenda per un
po’, di
tenere a bada i suoi sentimenti. E ci riuscì solo quando
Gwen la abbracciò. E
per ora bastò.
• •
•
Ore cinque e
cinquanta.
«Questa
è senza dubbio una delle cose più
imbarazzanti che abbiamo mai fatto» mormorò John,
digrignando i denti.
Lui e Duncan erano seduti sul fondo di un autobus,
che li avrebbe riportati a casa di Trent e Gwen dopo quella lunga
giornata,
circondati da vasi e mazzi di fiori di ogni tipologia e colore. Inutile
dire
che gli occhi di tutti erano puntati su quella strana coppia.
«Direi che hai un criterio di valutazione pessimo»
disse l’altro. «Non ricordi di quando siamo rimasti
chiusi nell’ascensore
assieme?»
Il bruno rabbrividì al solo ricordo.
Courtney li aveva invitati a cena e, abitando al
penultimo piano, avevano deciso di prendere l’ascensore.
Erano quasi arrivati,
quando si sentì un tonfo e rimasero completamente al buio.
Dopo varie
imprecazioni e movimenti di vario genere, si era accesa la luce di
emergenza,
mostrando i due ragazzi a pochi centimetri tra di loro, avvinghiati e
con i
nasi che si sfioravano. Era seguito un urlo di puro terrore e disgusto.
Avevano chiamato immediatamente Courtney, ma
quella li aveva lasciati marcire un’ora lì dentro,
solo perché entrambi si
erano inventati una scusa colossale per non accompagnarla a fare
shopping
durante la settimana dei saldi. Ragion per cui avevano trascorso
quell’ora
seduti a gambe incrociate, separati da un ragionevole spazio vitale, a
guardarsi in silenzio religioso, limitandosi a balbettare monosillabi
imbarazzati
di tanto in tanto. Dopodiché, la ragazza aveva mandato i
soccorsi, per infinita
gioia di entrambi.
Inutile dire che, una volta saputa del
quasi-bacio, li aveva derisi per tutta la serata, che si era
trasformata più
che altro in un inferno.
«Okay, cambio la mia risposta».
Dopo aver taciuto per un po’, limitandosi ad
ignorare quelle occhiate invadenti, Duncan gli chiese: «Sai
se Courtney ce l’ha
con me?»
Quella frase sorprese pure lui. Nessuno dei due
aveva mai confidato le proprie preoccupazioni all’altro,
quella era
effettivamente la prima volta. La loro amicizia si basava su insulti
pesanti e
scherzi di pessimo gusto.
«Insomma,» continuò, dopo aver superato
lo stupore
iniziale, «questa mattina a colazione non mi ha rivolto la
parola, ha fatto finta
che non esistessi. Non mi ha nemmeno salutato!»
«Magari si è finalmente resa conto di quanto tu
sia inutile e fastidioso, cominciando a trattarti come il
sottoscritto» rispose
risoluto. Poi, cambiando totalmente atteggiamento, sbottò:
«Pensi che lo venga
a dire a me? E anche se fosse,
probabilmente non l’avrei ascoltata. Non è affare
mio se voi due avete dei
problemi».
Duncan cominciò a ricordare perché non
si fosse mai aperto a lui: era menefreghista e si interessava solo di
ciò che
gli facesse comodo.
Sbuffò infastidito.
«La prossima fermata è la nostra»
borbottò, chiudendo la conversazione.
•
• •
Ore dieci
e diciassette di sera.
Courtney
aveva rifiutato l’invito di
John di rimanere con lui nel salone del hotel a guardare un reality in
TV-
targato, ironia della sorte, Chris McLean -, preferendo invece
ritirarsi nella
sua stanza e concludere finalmente quella faticosa giornata. E
riordinare un
po’ i suoi pensieri.
Non appena salì fino al suo piano,
però, una voce familiare la chiamò.
«Courtney, aspetta!»
Si trattava di Duncan, che aveva il
fiatone dopo averla rincorsa lungo tutta la hall e su per le scale.
Non lo degnò nemmeno di una sguardo,
continuando a percorrere il corridoio con passo svelto. Quando si
fermò davanti
alla porta della stanza numero 97 e stava per infilare la chiave nella
toppa,
però, la bloccò afferrandole il braccio.
«Lasciami andare!» sbraitò lei senza
guardarlo, cercando di dimenarsi. Aveva dimenticato quanto fosse forte
fisicamente.
«Gradirei che mi guardassi in faccia,
quanto ti parlo».
La ragazza perse la testa. Senza
ragionare, la mano le partì in automatico ma non
colpì mai la sua guancia.
Quando finalmente guardò in sua direzione, si rese conto che
lui l’aveva
prontamente fermata.
«Ora, mi dici qual è il tuo problema?»
La situazione era piuttosto tesa:
Courtney, con entrambi i polsi immobilizzati, gli lanciava occhiate di
fuoco e
per un momento sembrò considerare l’idea di
prenderlo a calci.
«Assolutamente nessuno» sputò con
acidità.
«Non sei mai stata brava a mentire»
ridacchiò, facendola arrabbiare ancora di più.
«È
tutto il giorno che non mi rivolgi
la parola. Che ti ho fatto?»
«Devo avercela
per forza con te?» chiese, nascondendo tutto il suo sarcasmo.
«Magari posso
solo aver avuto una giornata no. Sai, non sei il centro
dell’universo».
«Oh beh, allora
tutto apposto» scherzò lui. «Per un
momento ho temuto-»
«Ma sei
stupido? È ovvio che ce l’ho con te, come
sempre!» urlò interrompendolo.
Calò il
silenzio, che fu interrotto poco dopo dalle risatine di Duncan, che
evidentemente trovava la situazione divertente. Cercò di
mascherarle meglio che
poteva… peccato che Courtney le sentì comunque e
queste gli costarono una
potente ginocchiata nelle parti intime, come
ai vecchi tempi.
«Perché?»
chiese dolorante, allontanandosi e portandosi le mani sui gioielli.
«Perché ce l’ho
con te o perché il calcio?» chiese innocentemente
lei, cosa che gli fece
roteare gli occhi.
«Al perché
della seconda ci arrivo pure da solo, grazie»
biascicò annoiato.
Lei si morse un
labbro, non riuscendo a trovare le parole più adatte. Parole
che, poi, uscirono
tutte insieme, all’improvviso.
«Ieri sera ti
ho visto con una ragazza, e non provare ad insinuare che non sia
così!» disse
tutto d’un fiato, come se così potesse risultare
meno doloroso.
Dilatò gli
occhi per la sorpresa. Non avrebbe mai dovuto saperlo, men che meno
vederlo con
i suoi stessi occhi.
«Ah, la bionda»
mormorò . «Ascolta, ti posso spiegare. Era ubriaca
e distrutta per la rottura
con il fidanzato. Io ho solo provato a
confortarla…»
«E hai pensato
di confortarla infilandole la lingua in bocca, brutto
stronzo?!» strillò con
tutto il rancore che aveva in corpo.
A Duncan parve
di sentire un singhiozzo e improvvisamente un bruciante senso di colpa
si
impossessò di lui, come mai era successo. Aveva davvero
fatto del male alla sua
principessa per l’ennesima volta?
«Non ci sono
andato a letto» disse, come se quello potesse giustificarlo.
«Ero qui con voi
ieri sera, lo sai».
«Lo so» annuì
lei.
E poi successe
qualcosa di straordinario.
Le si avvicinò
e le prese il viso tra le mani, guardando intensamente quegli splendidi
occhi
neri da cerbiatta.
«Perdonami
Courtney» disse, e lei capì che non era mai stato
più sincero di così.
Affondò la
testa nel suo petto e lo strinse come non aveva mai fatto. Quelle braccia erano casa.
Si staccò
controvoglia da lui, sussurrandogli un
«Buonanotte», ed entrò nella sua camera,
chiudendosi la porta alle spalle.
Due cose erano
certe.
La prima che
non poteva essere arrabbiata con lui troppo a lungo.
E la seconda
che Gwen aveva ragione, si era davvero innamorata di Duncan
un’altra volta.
Angolo
dell’autrice
Non
ho mai
impiagato così poco tempo per aggiornare. Una settimana
precisa, questo sì che
è un record!
Ed è anche il
capitolo più lungo finora, più di cinquemila
parole.
Devo dire che
ero molto ispirata e che Bang Bang, la nuova canzone dei Green Day, mi
ha
caricata così tanto da rendermi più produttiva
del solito.
Mi dispiace di
non aver parlato di Trent in questo capitolo, ma prometto di rifarmi
nei
prossimi due. Dopotutto, il matrimonio si avvicina.
E ho intenzione
di cimentarmi in una Gwent, una missing moment di questa serie,
ambientata tra
la prima e la seconda storia. Ho bisogno di tempo per sistemare un
po’ le idee,
spero di riuscire a scriverla e a pubblicarla presto.
In questo capitolo
John e Duncan - o, se preferite, i Johncan - diventano sempre
più
spudoratamente canon. Prima la gioielliera, poi l’aneddoto
sull’ascensore… sì,
ci regalano tante gioie.
Così come ce le
regala Courtney, che ha finalmente ammesso di amare Duncan. Se volete,
possiamo
festeggiare assieme. E sappiate che nei prossimi due capitoli ci
saranno
esplosioni di Duncney feels ovunque, vi avviso in anticipo
così potete
prepararvi.
Con questo
chiudo. Vado subito a scrivere il capitolo sei, prima che la mia
ispirazione
termini tutta d’un botto.
Ci vediamo
presto, un grosso abbraccio!
Hayle xx