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Autore: smarsties    17/08/2016    3 recensioni
Sequel de «La storia inversa: ovvero, come distruggersi in sette giorni»
Sei anni dopo gli eventi del prequel, mentre tutti sono impegnati a fare i conti col mondo degli adulti, Trent e Gwen decidono di compiere il grande passo, ma alcuni inviti vengono recapitati all'ultimo momento.
Ciò innescherà una folle corsa contro il tempo prima, e una serie di esilaranti imprevisti poi, fra regali di nozze, fedi smarrite e antichi sentimenti mai scomparsi, sino al finale più dolce che possa esistere.
• • •
Dal settimo capitolo:
Davanti a lei vi era Duncan, spettinato e senza maglia. Cercò di sorvolare su quell’ultimo dettaglio.
«Almeno, principessa, abbi la decenza di metterti qualcosa addosso la prossima volta» la derise sghignazzando. «Ti sembra il caso di venire ad aprire conciata così? C’è il rischio che ti salti addosso» aggiunse con un occhiolino, accennando al suo pigiama - che comprendeva un top e un pantaloncino entrambi grigi.
Con una vaga nota di imbarazzo, replicò acidamente: «Hai forse perso la maglietta? In tal caso, mi dispiace deluderti, ma non è qui».
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Nuovo Personaggio, Trent | Coppie: Duncan/Courtney, Trent/Gwen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La storia inversa: quando tutto va come non dovrebbe'
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La storia inversa

«Fiori d’arancio e improbabili complicazioni»

 

 

 

Giovedì«

 
Vancouver, Columbia Britannica, Canada.
17 luglio, ore nove e due del mattino.

Gwen si sarebbe aspettata ogni cosa quella mattina.
Magari avrebbero chiamato da lavoro, chiedendole di venire in ufficio per coprire le ore di qualche collega malato o in vacanza; oppure avrebbe ricevuto finalmente quel nuovo banco da lavoro che aveva ordinato su internet settimane fa; o forse qualche altro invitato sarebbe arrivato in città in anticipo e avrebbe deciso di passare a trovarla.
Ma, di certo, Gwen non si sarebbe mai aspettata quello.
Courtney, seguita a ruota da John e Duncan, era piombata nel suo salotto e si era limitata ad annunciare: «Ho prenotato estetista, parrucchiere e una mezza giornata alle terme per noi due».
La ragazza, sveglia da poco e ancora in pigiama, si limitò a sbadigliare, analizzando per bene ciò che le avesse detto. Ma, dopo essere tornata a casa a l’una e mezza passata, la sua mente faticava ad elaborare pensieri e concetti di ogni tipo.
«Scusami?» si limitò a domandare stropicciandosi gli occhi, mentre dalla sua bocca uscì un altro grosso sbadiglio.
«Ho detto che oggi io e te andremo dal parrucchiere, dall’estetista e alle terme» scandì per bene Courtney, con più pazienza che poteva.
Questa volta riuscì a recepire per bene le parole e non le piacquero per niente. Lei sapeva bene che detestava ogni singola cosa che aveva nominato, eppure aveva deciso ugualmente di portarcela.
«Perché mi odi?» fu l’unica cosa che riuscì a dire, dopo aver tenuto la bocca aperta per due minuti.
«Non ti odio, lo faccio per il tuo bene» rispose comprensiva. «Hai delle doppie punte che si vedono da un chilometro e, senza offesa, quelle sembrano più le gambe di un orso che di una giovane donna».
Gwen si passò una mano tra i capelli e abbassò lo sguardo verso le gambe, coperte solo da un leggero pantaloncino di cotone. A lei la situazione non pareva così disastrosa, ma evidentemente Courtney non la pensava così, a giudicare dallo sguardo scettico con cui la stava studiando.
Doveva trovare una scusa adeguata per scampare a quell’intera giornata di torture, doveva assolutamente farlo. E poi, come un fulmine a ciel sereno, l’idea perfetta le si presentò davanti.
«Mi dispiace Court, ma avevo progettato di svolgere alcune mansioni stamattina, come ritirare le fedi e i fiori per la chiesa. Senza dimenticare che devo sistemare degli ultimi dettagli per il ristorante» spiegò dettagliatamente, cercando di suonare il più mortificata possibile. «Purtroppo devo farlo io, Trent è molto impegnato con il locale oggi. Senza contare che deve passare in città, per provarsi lo smoking».
Era certa di avercela fatta, ma la risposta dell’altra fece crollare il suo bel castello di carte.
«Ed è qui che entrano in scena loro» esclamò, indicando Duncan e John, che non avevano esattamente un’aria entusiasta. «Svolgeranno tutti i lavoretti pre-matrimoniali che li chiederai di fare, mentre noi due ci prendiamo una giornata di relax».
Gwen non era sicura che farsi strappare peli da ogni parte del corpo fosse rilassante, ma evitò di contraddirla.
«Noi sgobbiamo per tutta la città e voi alle terme. Non mi sembra esattamente equo» si lamentò Duncan. «Alla faccia della parità di sessi!»
«Senza contare che io avevo di meglio da fare, come ad esempio dormire fino a tardi, e invece qualcuno non solo mi ha buttato giù dal letto ad un orario indecente - le otto di mattina, ci rendiamo conto?! -, ma vuole anche obbligarmi ad andare a fare shopping!» quasi urlò John indignato. «Scordatelo, sorella».
«Dai, non puoi obbligarli a fare qualcosa che non vogliono» cercò di difenderli Gwen, sollevata che i due avessero tanto da ridire. «E poi è il mio matrimonio, non è giusto che ci pensino loro».
Ma anche questa volta la sorprese.
«Certo che posso obbligarli!» esclamò. «Lui,» e qui indicò John, che sbarrò gli occhi, «mi deve un favore grande come questa città: gli ho trovato una sistemazione a prezzo zero».
«Peccato che quella sistemazione sia casa mia e chi ci rimette sono io» specificò Duncan, sentendosi chiamato in causa.
Ma Courtney fece finta di non ascoltare, incrociando invece le braccia al petto e assumendo un atteggiamento intimidatorio, che li fece zittire all’istante; poi tornò a guardare la ragazza.
«Gwen, non è solo perché sei - perdona la schiettezza - impresentabile, io voglio davvero passare un giorno con te, completamente sole, come ai vecchi tempi» disse, cambiando completamente approccio e mostrandosi il più dolce possibile. «
È da tanto che non ci prendiamo un po’ di tempo solo per noi. Ti prego!»
E poi mise su una delle sue armi più letali, il labbruccio.
Era già successo molte altre volte: ogni volta che Courtney voleva fare qualcosa che lei detestava con tutta se stessa, metteva su quell’espressione tenera e compassionevole e la faceva cedere nel giro di cinque secondi.
E avvenne anche quella volta.
La mora tentò in ogni modo di sembrare impassibile, ma dovette ammettere che era troppo esperta. Quel labbruccio tremolante le sciolse il cuore e, come sempre, non riuscì più a resistere.
«E va bene» sospirò alla fine, avviandosi sconsolata verso le scale. «Vado a prepararmi».
E, vedendola scomparire al piano di sopra, Duncan e John si scambiarono uno sguardo di puro terrore: lo shopping li attendeva.
 

• • •

 
Ore dieci e ventitré.
«Non posso credere che Gwen si sia fatta intenerire dall’espressione da cucciolo abbattuto di Courtney» sbraitò Duncan, non appena furono scesi dall’autobus.
«Fossi in te, eviterei» lo fermò John, con un ghigno. «Sbaglio o anche tu ti sei fatto raggirare più volte dalla stessa espressione?»
Tacque all’improvviso, ripensando a tutte le volte che il labbruccio di Courtney lo aveva spinto a fare cose che non avrebbe mai fatto in vita sua. In generale, lo costringeva ad accompagnarla a fare compere, poiché aveva bisogno di qualcuno che le reggesse le borse.
«È una cosa diversa» ringhiò. «Io lo faccio per riconquistarla».
«Cioè, ti fai miseramente sfruttare solo perché vuoi riconquistarla?» chiese l’altro scettico. «Bah, contento te».
«È un metodo di corteggiamento infallibile. Ma cosa vuoi saperne tu, che negli ultimi sei anni avrai avuto sì e no quattro donne?»
«Perlomeno io ho ancora una dignità, a differenza di una certa persona».
Non riusciva a concepire che John avesse una battuta pronta per ogni cosa che dicesse, non era umanamente possibile.
«Lasciamo perdere» sbuffò Duncan, cambiando discorso. «Secondo le indicazioni, la gioielleria dovrebbe essere qui vicino».
E infatti, non appena svoltarono l’angolo, si ritrovarono davanti ad un enorme vetrina stracolma di collane e anelli che costavano più di qualunque cosa avessero mai visto.
Prima che il bruno potesse entrare, fu bloccato da una mano.
«Vedi di combinare uno dei tuoi soliti danni, mi raccomando» disse con molta ironia il suo compagno di avventura, alludendo alla vetrinetta che aveva devastato tre giorni prima. Tutti quegli zero continuavano a tormentarlo nel sonno.
«Rilassati, ex cresta verde» lo rassicurò, togliendogli la mano dalla sua spalla. «Non sono un bambino, so come comportarmi».
Duncan non ne era propriamente convinto, ma siccome voleva farla finita in fretta e litigare con quel pazzo non rientrava nei suoi piani, decise di evitare ogni commento sarcastico e di entrare nel negozio.
A differenza di quella a Toronto, la gioielleria era enorme e, a quanto sembrava dall’affluenza, gli affari andavano a gonfie vele. I prezzi erano comunque molto simili, esponenziali a livelli estremi.
Il moro si avvicinò al bancone e premette il campanellino d’ottone piazzato sopra ad esso. In un nanosecondo si materializzò una signora rugosa e spigolosa sulla cinquantina, con un paio di occhiali rossi e vistosi sugli occhi.
«Posso esservi d’aiuto?» chiese con tono cordiale.
«Sì, dovrebbe esserci una prenotazione a nome McCord» rispose. «Si tratta di due fedi nuziali».
La gioielliera annuì e scomparve dietro la cassa, per farvi ritorno qualche istante più tardi con una scatoletta di velluto blu aperta, dove vi erano depositate due splendide fedi d’oro.
«L’ordinazione è già stata pagata» specificò, per poi sporgersi verso di loro. «Personalmente, ho sempre appoggiato le unioni tra persone dello stesso sesso, dopotutto l’amore è amore. Auguri!»
A quella frase Duncan sbiancò e John prese a tremare di orrore. Quella signora aveva appena ipotizzato che i due non solo fossero gay, ma anche in procinto di sposarsi. Sembrava una storia del terrore.
«Deve esserci stato un malinteso» mormorò Duncan, il primo dei due che riuscì a ricordare come si parlasse. «Non… stiamo insieme… e non si tratta del nostro matrimonio».
«È di due amici» specificò ancora di più il bruno, ancora profondamente traumatizzato.
«Oh, capisco» disse la gioielliera a disagio. «Mi spiace, davvero. Pensavo che fossero per voi due. Vi porgo le mie scuse».
«Non si preoccupi» la rassicurò Duncan, mentre dietro di lui sembrava che John volesse ucciderla con lo sguardo. Poi prese la scatola e, uscendo dal negozio, aggiunse: «Arrivederci».
Una volta fuori, John prese a sbottare il suo disappunto con aria indignata.
«Ho praticamente scritto sulla fronte la parola etero» gridò sconvolto. «E, anche se fosse, di certo non mi metterei con te».
L’altro borbottò di risposta: «Più che altro sulla fronte hai tatuata a lettere cubitali la parola cogl-».
Ma non riuscì a finire la frase: poiché guardava dritto davanti a sé come se fosse incantato, non si accorse di un crepa nel marciapiede e ci inciampò. Duncan riuscì a rimettersi in equilibrio subito, senza che sbattesse la testa per terra, ma, durante il breve volo, la scatoletta con le fedi gli sfuggì di mano e cominciò a rotolare lungo la strada. John prese a rincorrerla il più velocemente possibile - e la dieta a base di pizza e coca cola non lo aiutò affatto - ma, prima che potesse afferrarla, cadde in un tombino aperto e, con lei, tutte le speranze di completare quelle mansioni del giro di mezza giornata.
«Ma porco Duncan!» imprecò, inginocchiandosi vicino al tombino.
«Sì, io sto bene, grazie per l’interessamento» disse colui a cui era rivolta la “bestemmia”, avvicinandosi e spolverandosi i vestiti.
«Non me ne frega niente di come stai. Ti rendi conto di quello che hai fatto? Hai mandato all’aria la possibilità di sbrigarcela in due o tre ore e, soprattutto, quella di riuscire a fare un pranzo decente!» gli urlò in faccia, rialzandosi. «Poi sono io Mister Mani di Burro, colui che non fa che combinare danni e rompere oggetti preziosi!»
«Punto primo, non sputare» disse allontanandosi e stropicciandosi un occhio, dentro il quale era entrata della saliva. «E punto secondo, solitamente tu rompi qualcos’altro di altrettanto prezioso e che mi appartiene» aggiunse alludendo ai suoi genitali e cercando di allentare la tensione senza alcun successo.
«Basta con le volgarità e muovi quelle chiappe flaccide che ti ritrovi. Ho intenzione di trovare un’altra gioielleria prima di sera».
«Io sarei volgare!» replicò Duncan beffardo, seguendolo per il marciapiede lungo il cui procedeva quasi correndo. «E, ad ogni modo, se fossi gay, nemmeno io farei mai la pazzia di mettermi con te, almeno che non diventi un pazzo masochista».
«Vedo che su una cosa siamo d’accordo, cresta verde!»
Ah, quant’era solida ed armoniosa la loro amicizia!
 

• • •

 
Ore undici e cinquantotto.
«Potresti rallentare un secondo?»
Courtney, che procedeva a passo svelto lungo le vetrine, si fermò a guardare Gwen, un paio di metri più indietro, la quale camminava lentamente e con le gambe stranamente divaricate e un’espressione sofferente in volto.
«Era proprio necessario?» chiese non appena riuscì ad affiancarla. «Sai com’è, l’inguine mi va a fuoco».
«Certo che lo era» rispose la bruna roteando lo sguardo. «Non si è mai vista una sposa con tutti quei peli che avevi. E dovresti ringraziarmi, avrai probabilmente perso tre chili» ironizzò, con un sorrisetto malizioso.
«Grazie, Courtney, per avermi provocato del male fisico» disse con più sarcasmo possibile.
«Credo che il tuo dolore l’abbia sentito chiunque in quel posto» ridacchiò la diretta interessata, alludendo alle urla che Gwen aveva lanciato ogni volta che l’estetista le strappava via i peli. «Hai mai fatto una ceretta?»
«No. Sai com’è, preferisco il pratico e soprattutto indolore rasoio».
Gwen temeva che l’amica avesse potuto portare ancora avanti il discorso - come se farsi depilare ogni parte del corpo non fosse già abbastanza umiliante; per sua fortuna, però, erano arrivati davanti al parrucchiere e, prima che potesse farci caso, Courtney era già entrata e si era diretta verso le casse.
«Ho prenotato a nome Barlow per mezzogiorno» disse alla cassiera, una ragazza di colore con una zazzera di capelli riccissimi in testa.
Quella prese un blocco appunti da sotto il banco, lo aprì e cominciò a scorrere fino a quando non trovò il suo nome.
«Oh sì, eccolo qui» annunciò. Poi indicò con un dito due sedute in fondo al locale e disse: «Potete cominciare ad accomodarvi lì. I miei colleghi arrivano tra un attimo».
Il negozio era piccolo, con una fila di poltroncine sistemate davanti a degli specchi e dei lavandini neri per lavare i capelli sistemati sulla parete affianco. I muri erano tappezzati di poster di capigliature di ogni tipo.
«Posso chiederti una cosa?» proferì Gwen, non appena prese posto, a Courtney, che leggeva una rivista presa da un cesto di vimini all’ingresso.
Lei annuì distrattamente, senza alzare lo sguardo da quelle pagine. Cercava un’acconciatura che la soddisfacesse a pieno.
Ma prima che riuscì a spiccicare una singola parola, dietro di lei si era materializzato un ragazzo muscoloso e con dei lunghi e setosi capelli bruni.
«Buongiorno!» esclamò raggiante, salutando la sua immagine nello specchio. «Tu devi essere Gwen».
«In persona» confermò con aria annoiata.
«La tua amica ci ha detto che sabato ti sposi» vaneggiò lui, estasiato. «Congratulazioni!»
«Grazie» rispose con cortesia, mentre il suo sguardo saettò alla sua destra.
Courtney parlava con una signora da un folto caschetto rosso riguardo al suo taglio e usando parole che, giurò, non riusciva a comprendere. Non era molto pratica di capelli, unghie e tutto ciò che riguardasse il termine “estetica” oppure il più specifico “moda”.
«Mio Dio, tesoro!» esclamò la voce del parrucchiere, facendola sussultare. «Questi capelli sono un disastro!»
Gwen si guardò meglio allo specchio, mentre quello studiava le sue ciocche con estrema professionalità e uno sguardo scettico.
Si era sempre occupata dei suoi capelli da sola, sin da quando aveva quindici anni e sua mamma le aveva categoricamente proibito di farsi le mèche blu. In quel periodo ascoltava solo quello che la sua testa le diceva di fare - non che ora le cose fossero molto diverse -, quindi, non andandole giù quel divieto, comprò la tinta e, con l’aiuto di una sua amica del liceo, se le fece da sola. Per sua madre fu uno shock, tanto che la mise in punizione per tre settimane intere.
Da allora, aveva cominciato a gestire da sola i suoi capelli, tagliandoli quando era necessario e tingendoli quando il colore cominciava a rovinarsi. Solo che non era mai stata brava, e si vedeva.
«Da quanto tempo non vai da un parrucchiere?» domandò il ragazzo, confrontando due ciocche di lunghezza diversa, strapiene di doppie punte.
“Da quasi dieci anni” pensò, ma non poteva di certo dirlo, o avrebbe rischiato di ucciderlo sul colpo.
«Ehm, da un po’» decise di rispondere, dopo un attimo di meditazione, rimanendo sul vago.
«E si vede» borbottò, passandosi una mano dietro la nuca.
La stava trattando come una bambinetta di otto anni. Probabilmente credeva che fosse una menomata mentale oppure una sciatta con nessun gusto. O magari entrambe.
«Ci sarà molto da lavorare» sentenziò alla fine Brandon - Gwen aveva scoperto che si chiamava così, leggendo il suo nome dal cartellino affisso sul petto -, porgendole una mano per aiutarla ad alzarsi. «Seguimi, cara» disse, accompagnandola verso uno dei lavandini.
Un’ora e mezza più tardi, dopo sforbiciate e frecciatine di Brandon riguardo il suo pessimo stile e la sua scarsa conoscenza in materia di moda, Gwen, che era arrivata a meditare di ammazzarlo usando solo un paio di forbici, ebbe l’onore di vedere il risultato finale. E dovette ricredersi: per quanto presuntuoso e narcisista fosse, aveva fatto un gran lavoro. Il suo caschetto, più nero e ordinato che mai, senza nessuna ciocca fuori posto, non era mai stato così perfetto.
Dopo averlo ringraziato, si avviò verso Courtney, seduta su uno dei pouf all’ingresso, adibito come sala attesa, che rispondeva a delle mail di lavoro dal suo palmare. Nel suo vocabolario non esisteva la parola vacanza.
Si schiarì la voce e, finalmente, la ragazza si accorse della sua presenza.
«Finalmente ti stai trasformando in una donna» sorrise.
A differenza di Gwen, lei aveva deciso di non alterare la lunghezza dei suoi capelli, preferendo renderli solo leggermente più mossi in vista del matrimonio.
«Anche tu sei splendida» disse, vedendola tornare con lo sguardo sul suo palmare.
Era sempre così: ogni volta che uscivano insieme, Courtney passava buona parte del tempo al telefono. Era una donna in carriera, lo capiva, ma rischiava davvero l’esaurimento nervoso, se continuava così.
«Dovresti smetterla di usare quell’affare, sei in vacanza!» la rimproverò, portando le mani sui fianchi. Poi si rese conto che c’era qualcosa che non andava, lo vedeva dal suo volto. «Sei sicura di stare bene? Ti vedo giù».
Smise per un secondo di ticchettare sulla tastiera e aprì la bocca, cercando di parlare. Sospirò solamente.
«Sto benissimo, davvero» la rassicurò Courtney, guardandola per un secondo. Per quanto si sforzò di sorridere, si vedeva che non era così. Poi prese a riscrivere la mail.
Gwen stava per indagare più a fondo, quando anticipò le sue mosse. Rimise il palmare in borsa, da dove cacciò il portafoglio. Si alzò e, dirigendosi verso la cassa, disse: «Paghiamo, così possiamo andare a mangiare».

Non stava bene.
 

• • •

 
Ore tre e dodici del pomeriggio.
In quelle ore, John e Duncan avevano girato ben sei gioiellerie e in nessuna di queste avevano avuto fortuna. Una era chiusa per ristrutturazione, due per ferie, una perché era il giorno di riposo e le altre due erano così piene che faticarono persino ad entrare. La loro ultima possibilità era quel squallido negozietto fuori città.
«È tutta la mattina che giriamo a vuoto» sbottò John. «Se non abbiamo fortuna nemmeno qui, giuro che bestemmio».
«Avremmo potuto metterci di meno, se non ti fossi fermato a quella panineria» borbottò Duncan, ricordando fin troppo bene i tre quarti d’ora spesi dentro quel posto che sapeva di pane bruciato.
«Dovevo pur mettere sotto i denti qualcosa» si giustificò, scrollando le spalle e spingendo la porta per entrare.
Presto fu ben chiaro perché quel posto era desertico e dimenticato da Dio. Era piccolo, decadente e polveroso, circondato da vetrinette mezze vuote.
«Benvenuti» li accolse un uomo sulla quarantina, con una camicia verde vomito, da dietro il bancone. «In cosa posso esservi utile?»
«Stiamo cercando delle fedi quanto più simili alle originali, spesse e dorate» spiegò Duncan, avvicinandosi. «E ci servono entro oggi, altrimenti la sposa e la sua testimone ci ammazzano. Soprattutto la testimone».
Immaginò vagamente cosa avrebbe potuto dire e fare Courtney, non appena avrebbe scoperto cosa fosse successo quella mattinata. E in quel pensiero lui era morto.
«Ne abbiamo in quantità!» esclamò, felice che quel giorno avrebbe concluso un affare.
«E prima che possa supporre cose assolutamente false, sono per due amici, non siamo gay, non siamo legati sentimentalmente in alcun modo, ed è colpa sua se abbiamo girato l’intera città, poiché ha fatto cadere le fedi originali in un tombino» lo precedette John, ancora traumatizzato dalle parole di quella gioielliera, indicando l’amico.
L’uomo uscì da dietro la cassa e li fece segno di seguire. Li condusse davanti ad una cristalliera, in cui vi erano anelli di ogni tipo e dimensione.
«Scegliete pure quello che ci assomiglia di più» disse con tono gioviale.
«Il terzo della seconda fila» disse con aria sicura Duncan, dopo aver esitato a lungo.
Il negoziante stava per prenderlo, quando John si intromise nel discorso.
«Stai scherzando, vero?» domandò. «Hai scelto quello che ci somiglia di meno. Guarda il quarto della prima fila, è identico».
Spostò lo sguardo verso la posizione indicata dal ragazzo e assunse un’aria dubbiosa e scettica.
«Ma ci vedi? Non c’entra niente con quelli originali».
«Mentre invece quello che hai scelto tu ci somiglia parecchio. Ma per favore, ho una memoria fotografica, so esattamente com’erano!»
«Ti prego, dimmi una volta sola in cui hai ritrovato una cosa senza sfasciare casa, signor Memoria Fotografica!»
«Ma non c’entra nulla, questo! Fatto sta che il quarto della prima fila ci somiglia molto di più».
«Il terzo della seconda fila, al limite».
«Il quarto della prima».
«Il terzo della seconda».
Il gioielliere stava impazzendo. Quei due avevano davvero intrapreso una conversazione su quale anello fosse migliore. Doveva fare qualcosa.
«Che ne dite,» propose a voce alta, intromettendosi tra i ragazzi per fermare la litigata focosa, «della terzultima della prima fila? È molto simile a entrambi gli anelli che vi piacciono».
Duncan e John si limitarono a guardarsi in cagnesco. Nella loro lingua, significava un “sì”.
Aprì la cristalliera, con una piccola chiave in ottone che gli pendeva da collo, ed estrasse un anello piuttosto spesso color oro. Poi, mentre le portava al bancone, annunciò: «Ho bisogno di un’oretta per le incisioni. Se volete, potete farvi un giro e tornare più tardi, così concorderemo anche il prezzo».
«Per me va bene» grugnì John. «Ho bisogno di un gelato».
L’altro lo guardò disgustato.
«Dopo cinque panini vuoi anche un gelato?»
«Che c’è? Dimostrare che io ho ragione e tu torto è un’attività che richiede molte calorie».
A distanza di sei anni, Duncan si chiedeva ancora perché erano amici.
 

• • •

 
Ore quattro e trentasei.
«Ora che hai finito, vieni o no a rilassarti?» gridò Gwen dalla piscina.
Courtney chiuse la telefonata con il suo capo, turbata. Il processo era stato anticipato alla prossima settimana e lei si trovava fuori città, con pochissimo tempo a disposizione per prepararsi per bene. Con tutta probabilità avrebbe perso per la prima volta in tutta la sua breve carriera, e non poteva permetterlo.
Rimise il palmare in borsa e la chiuse. Non ne poteva più.
«Perdonami, era urgente. Una chiamata improrogabile» si giustificò una volta a bordo vasca.
Raccolse i suoi capelli freschi di parrucchiere in una pinza, lasciò scivolare ai suoi piedi l’accappatoio e si tuffò.
«Io dico che dovresti darci un taglio» la rimproverò. «Spegni il telefono per qualche ora, non sarà una tragedia».
Courtney la guardò come se avesse detto un’eresia.
«Nel mio lavoro non esistono ferie» si limitò a dire.
Aveva raggiunto il culmine dello stress. Se avesse continuato con quei ritmi, il suo organismo ne avrebbe risentito, e lo sapeva. Ma non poteva comunque farne a meno.
E poi, onestamente, riempirsi di lavoro la aiutava anche a non pensare a quello che i suoi occhi avevano visto ieri sera. Più ci ripensava, più ci soffriva. Quindi, se avesse fatto dell’altro, non avrebbe avuto modo di rimuginarci ancora e ancora.
«C’è qualcosa che ti turba, non è vero?» chiese all’improvviso Gwen, muovendosi in sua direzione.
«Cosa te lo fa pensare?» mormorò, sentendo la sua mano sulla spalla.
«È tutto il giorno che non ti fermi un secondo, persino a pranzo hai passato più tempo al cellulare che a parlare con me!» espose, ed erano tutte argomentazioni valide. «E comincio a sospettare che tutto questo,» aggiunse, guardandosi attorno, «sia un escamotage per non pensare a questo qualcosa».
Da quando era diventata così perspicace?
Courtney esitò un secondo, indecisa se parlargliene o continuare a mentire. Poi, si disse, che era la sua migliore amica e che si era sempre confidata. Non sarebbe stato onesto nei suoi confronti.
«Ieri sera,» cominciò, prendendo un respiro profondo per rilassarsi, «ho visto Duncan in compagnia di una ragazza… erano appiccicati, si stavano baciando» e dopo una breve pausa aggiunse, rendendo completamente vano il suo tentativo di calmarsi: «Quell’infido, schifoso bastardo la stava baciando!»
Dirlo, ammetterlo a voce alta, faceva ancora più male.
Sul viso di Gwen apparve un enorme sorriso, e non capì se era di conforto o era seriamente felice.
«Ma è fantastico» si limitò ad esclamare.
Courtney pensò che la stesse prendendo in giro e la cosa la fece irritare ancora di più.
«Hai sentito quello che ho detto?!» domandò, cercando di non urlare. Anche se ci era andata molto vicino.
«Non capisci?» disse, scuotendo la testa e cercando di reprimere la risatina che minacciava di uscire dalla sua bocca. «Quello che è successo ti rende gelosa, non provare a negarlo!,» la bloccò non appena la vide sul punto di replicare, «E sei gelosa perché lo ami».
Scoppiò a ridere, una risata isterica e di scherno.
Non amava Duncan, affatto! Certo, le dava fastidio che parlasse di altre ragazze in sua presenza, che le fissasse e che lo trovasse in atteggiamenti scomodi con una di loro, ma questo non significava che l’amasse.
Dopotutto, non l’aveva atteso sotto il suo ufficio quasi ogni sera.
Non aveva aspettato anche solo un singolo messaggio o una semplice chiamata, quando non lo vedeva per tutto il giorno.
Non aveva visto andare e venire miriadi di donne e non si era ripetuta più volte di non darci conto, ogni volta che ce n’era una nuova, mentre dentro di sé moriva di gelosia.
Non aveva passato ogni giorno degli ultimi sei anni a sperare che si accorgesse di lei, che si rendesse conto che dietro ogni sfuriata e insulto che gli rivolgeva c’era molto di più.
E non aveva fatto tutto questo e altro solo perché lo amava da quanto era una sciocca bambinetta di sedici anni.
«No che non lo amo!» ribatté, riassumendo tutti i pensieri caotici che le attraversavano la testa in quel momento.
Cercò di convincere più se stessa che Gwen che non fosse così. Bugiarda.
«Potrai mentire quanto vuoi, ma sai che non è così» rispose lei. «E, detto tra di noi, anche Duncan è cotto di te. Ci sarà sicuramente un motivo valido per cui l’ha fatto».
Courtney voleva credere che avesse ragione, lo voleva davvero. Ma, più si sforzava di giustificare quell’azione, più non riusciva a trovare argomentazioni valide.

E, anche se non l’avrebbe mai ammesso, voleva anche credere che l’amasse.
Le scoppiava la testa, aveva bisogno di spegnere i suoi ragionamenti contorti, di dimenticarsi di quella faccenda per un po’, di tenere a bada i suoi sentimenti. E ci riuscì solo quando Gwen la abbracciò. E per ora bastò.
 

• • •

 
Ore cinque e cinquanta.
«Questa è senza dubbio una delle cose più imbarazzanti che abbiamo mai fatto» mormorò John, digrignando i denti.
Lui e Duncan erano seduti sul fondo di un autobus, che li avrebbe riportati a casa di Trent e Gwen dopo quella lunga giornata, circondati da vasi e mazzi di fiori di ogni tipologia e colore. Inutile dire che gli occhi di tutti erano puntati su quella strana coppia.
«Direi che hai un criterio di valutazione pessimo» disse l’altro. «Non ricordi di quando siamo rimasti chiusi nell’ascensore assieme?»
Il bruno rabbrividì al solo ricordo.
Courtney li aveva invitati a cena e, abitando al penultimo piano, avevano deciso di prendere l’ascensore. Erano quasi arrivati, quando si sentì un tonfo e rimasero completamente al buio. Dopo varie imprecazioni e movimenti di vario genere, si era accesa la luce di emergenza, mostrando i due ragazzi a pochi centimetri tra di loro, avvinghiati e con i nasi che si sfioravano. Era seguito un urlo di puro terrore e disgusto.
Avevano chiamato immediatamente Courtney, ma quella li aveva lasciati marcire un’ora lì dentro, solo perché entrambi si erano inventati una scusa colossale per non accompagnarla a fare shopping durante la settimana dei saldi. Ragion per cui avevano trascorso quell’ora seduti a gambe incrociate, separati da un ragionevole spazio vitale, a guardarsi in silenzio religioso, limitandosi a balbettare monosillabi imbarazzati di tanto in tanto. Dopodiché, la ragazza aveva mandato i soccorsi, per infinita gioia di entrambi.
Inutile dire che, una volta saputa del quasi-bacio, li aveva derisi per tutta la serata, che si era trasformata più che altro in un inferno.
«Okay, cambio la mia risposta».
Dopo aver taciuto per un po’, limitandosi ad ignorare quelle occhiate invadenti, Duncan gli chiese: «Sai se Courtney ce l’ha con me?»
Quella frase sorprese pure lui. Nessuno dei due aveva mai confidato le proprie preoccupazioni all’altro, quella era effettivamente la prima volta. La loro amicizia si basava su insulti pesanti e scherzi di pessimo gusto.
«Insomma,» continuò, dopo aver superato lo stupore iniziale, «questa mattina a colazione non mi ha rivolto la parola, ha fatto finta che non esistessi. Non mi ha nemmeno salutato!»
«Magari si è finalmente resa conto di quanto tu sia inutile e fastidioso, cominciando a trattarti come il sottoscritto» rispose risoluto. Poi, cambiando totalmente atteggiamento, sbottò: «Pensi che lo venga a dire a me? E anche se fosse, probabilmente non l’avrei ascoltata. Non è affare mio se voi due avete dei problemi».
Duncan cominciò a ricordare perché non si fosse mai aperto a lui: era menefreghista e si interessava solo di ciò che gli facesse comodo.
Sbuffò infastidito.
«La prossima fermata è la nostra» borbottò, chiudendo la conversazione.
 

• • •

 
Ore dieci e diciassette di sera.

Courtney aveva rifiutato l’invito di John di rimanere con lui nel salone del hotel a guardare un reality in TV- targato, ironia della sorte, Chris McLean -, preferendo invece ritirarsi nella sua stanza e concludere finalmente quella faticosa giornata. E riordinare un po’ i suoi pensieri.
Non appena salì fino al suo piano, però, una voce familiare la chiamò.
«Courtney, aspetta!»
Si trattava di Duncan, che aveva il fiatone dopo averla rincorsa lungo tutta la hall e su per le scale.
Non lo degnò nemmeno di una sguardo, continuando a percorrere il corridoio con passo svelto. Quando si fermò davanti alla porta della stanza numero 97 e stava per infilare la chiave nella toppa, però, la bloccò afferrandole il braccio.
«Lasciami andare!» sbraitò lei senza guardarlo, cercando di dimenarsi. Aveva dimenticato quanto fosse forte fisicamente.
«Gradirei che mi guardassi in faccia, quanto ti parlo».
La ragazza perse la testa. Senza ragionare, la mano le partì in automatico ma non colpì mai la sua guancia. Quando finalmente guardò in sua direzione, si rese conto che lui l’aveva prontamente fermata.
«Ora, mi dici qual è il tuo problema?»
La situazione era piuttosto tesa: Courtney, con entrambi i polsi immobilizzati, gli lanciava occhiate di fuoco e per un momento sembrò considerare l’idea di prenderlo a calci.
«Assolutamente nessuno» sputò con acidità.
«Non sei mai stata brava a mentire» ridacchiò, facendola arrabbiare ancora di più. «
È tutto il giorno che non mi rivolgi la parola. Che ti ho fatto?»
«Devo avercela per forza con te?» chiese, nascondendo tutto il suo sarcasmo. «Magari posso solo aver avuto una giornata no. Sai, non sei il centro dell’universo».
«Oh beh, allora tutto apposto» scherzò lui. «Per un momento ho temuto-»
«Ma sei stupido? È ovvio che ce l’ho con te, come sempre!» urlò interrompendolo.
Calò il silenzio, che fu interrotto poco dopo dalle risatine di Duncan, che evidentemente trovava la situazione divertente. Cercò di mascherarle meglio che poteva… peccato che Courtney le sentì comunque e queste gli costarono una potente ginocchiata nelle parti intime, come ai vecchi tempi.
«Perché?» chiese dolorante, allontanandosi e portandosi le mani sui gioielli.
«Perché ce l’ho con te o perché il calcio?» chiese innocentemente lei, cosa che gli fece roteare gli occhi.
«Al perché della seconda ci arrivo pure da solo, grazie» biascicò annoiato.
Lei si morse un labbro, non riuscendo a trovare le parole più adatte. Parole che, poi, uscirono tutte insieme, all’improvviso.
«Ieri sera ti ho visto con una ragazza, e non provare ad insinuare che non sia così!» disse tutto d’un fiato, come se così potesse risultare meno doloroso.
Dilatò gli occhi per la sorpresa. Non avrebbe mai dovuto saperlo, men che meno vederlo con i suoi stessi occhi.
«Ah, la bionda» mormorò . «Ascolta, ti posso spiegare. Era ubriaca e distrutta per la rottura con il fidanzato. Io ho solo provato a confortarla…»
«E hai pensato di confortarla infilandole la lingua in bocca, brutto stronzo?!» strillò con tutto il rancore che aveva in corpo.
A Duncan parve di sentire un singhiozzo e improvvisamente un bruciante senso di colpa si impossessò di lui, come mai era successo. Aveva davvero fatto del male alla sua principessa per l’ennesima volta?
«Non ci sono andato a letto» disse, come se quello potesse giustificarlo. «Ero qui con voi ieri sera, lo sai».
«Lo so» annuì lei.
E poi successe qualcosa di straordinario.
Le si avvicinò e le prese il viso tra le mani, guardando intensamente quegli splendidi occhi neri da cerbiatta.
«Perdonami Courtney» disse, e lei capì che non era mai stato più sincero di così.
Affondò la testa nel suo petto e lo strinse come non aveva mai fatto. Quelle braccia erano casa.
Si staccò controvoglia da lui, sussurrandogli un «Buonanotte», ed entrò nella sua camera, chiudendosi la porta alle spalle.
Due cose erano certe.
La prima che non poteva essere arrabbiata con lui troppo a lungo.
E la seconda che Gwen aveva ragione, si era davvero innamorata di Duncan un’altra volta.

 

 

 

 

 

 
Angolo dell’autrice
Non ho mai impiagato così poco tempo per aggiornare. Una settimana precisa, questo sì che è un record!
Ed è anche il capitolo più lungo finora, più di cinquemila parole.
Devo dire che ero molto ispirata e che Bang Bang, la nuova canzone dei Green Day, mi ha caricata così tanto da rendermi più produttiva del solito.
Mi dispiace di non aver parlato di Trent in questo capitolo, ma prometto di rifarmi nei prossimi due. Dopotutto, il matrimonio si avvicina.
E ho intenzione di cimentarmi in una Gwent, una missing moment di questa serie, ambientata tra la prima e la seconda storia. Ho bisogno di tempo per sistemare un po’ le idee, spero di riuscire a scriverla e a pubblicarla presto.
In questo capitolo John e Duncan - o, se preferite, i Johncan - diventano sempre più spudoratamente canon. Prima la gioielliera, poi l’aneddoto sull’ascensore… sì, ci regalano tante gioie.
Così come ce le regala Courtney, che ha finalmente ammesso di amare Duncan. Se volete, possiamo festeggiare assieme. E sappiate che nei prossimi due capitoli ci saranno esplosioni di Duncney feels ovunque, vi avviso in anticipo così potete prepararvi.
Con questo chiudo. Vado subito a scrivere il capitolo sei, prima che la mia ispirazione termini tutta d’un botto.
Ci vediamo presto, un grosso abbraccio!

Hayle xx

  
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