CAPITOLO
2
Non
sarei mai più riuscita a dormire.
E
purtroppo non era una battuta.
Perfino
le pareti della stanza che mi era toccata mi creavano disagio, come se
avvertissi l'incessante bisogno di tornare alla mia vecchia
mediocrità. Strano,
no? Un povero, anche se sentimentalista, non dovrebbe avere
l'intenzione di
rimanere tale, anzi, sarebbe felicissimo di poter finalmente emergere
dal
cumulo di polvere che era la sua vita precedente. Mio padre ne era un
esempio:
saltellava da un posto all'altro come un coniglio impazzito e ripeteva
di
continuo, tra sé e sé: "Non è
stupenda? Non è meravigliosa?",
pretendendo che anche gli altri condividessero il suo immenso
entusiasmo.
Se
fosse stato qualcun altro a comportarsi in quel modo, e non lui, figura
genitoriale cui ero costretta a riservare il massimo rispetto (talvolta
a
scapito dei miei nervi)... Ecco, non volevo sapere come sarebbe andato
a
finire. Perché quella vita stupenda, meravigliosa, agiata,
da signori che
purtroppo fino ad allora non eravamo mai stati, non faceva per me o,
meglio,
non mi sembrava autentica, quasi che in realtà si trattasse
di uno spettacolo
da quattro soldi in cui eravamo sfortunatamente capitati e ogni nostra
mossa
fosse controllata da qualcuno di assai superiore.
La
perfezione può risultare insopportabile a tal punto?
Be',
a quanto pare sì.
Claudia,
dal canto suo, non era minimamente turbata dal trasloco, al contrario,
si
muoveva in quella casa con la stessa disinvoltura di chi non ha mai
conosciuto
realtà diversa. Prevedibile: i suoi genitori navigavano
nell'oro grazie
all'eccellente intuito nel campo dell'imprenditoria, e i genitori dei
suoi
genitori, e i genitori dei genitori dei suoi genitori... Una famiglia
ricca da
diverse generazioni, insomma.
Aveva
addirittura il coraggio di definire "casetta" la villa in cui eravamo
capitati.
No,
giusto, in effetti non si trattava di una villa.
Ma
di un castello.
Balconate
lunghe quanto interi corridoi allineavano le stanze del primo e del
secondo
piano, delimitate da ringhiere di metallo e protette da tettoie in
legno
chiaro, mentre quelle che sembravano due piccole torri, rivestite
all'esterno
da cemento misto a pagliuzze d'ardesia, dominavano i due lati della
struttura,
di un color bianco acceso che le conferiva un tocco di
modernità. Il piano
terra, dove si trovavano la cucina, la sala da pranzo, il soggiorno e
il bagno
più grande, era quasi interamente invaso dalla luce solare
grazie alle ampie
vetrate, semplici o in mattoni, da cui si aveva una visione parziale
della strada
sterrata, diramazione della principale, e delle colline poco distanti.
E
percorrendo le rampe di scale, fino a raggiungere la soffitta tramite
una scala
retrattile, era possibile accedere ad una spaziosa terrazza che
consentiva di
assistere al meraviglioso spettacolo di luci dell'alba e del tramonto.
Per non
parlare della bellezza surreale del giardino, un vasto prato costellato
da
aiuole in cui si ergevano alberi dalle foglie rossastre, gialle e verde
smeraldo, o anche piccoli arbusti e fiori di campagna che lo rendevano
a tutti
gli effetti un paradiso terreno, uno di quelli descritti dai libri e
dalle
storie popolari. Lo percorreva un sentiero ciottoloso che zigzagava
dolcemente
da un angolo all'altro, sbucando da un elegante patio di legno sul
quale dava la
porta-finestra della cucina.
E
lì, proprio lì, era sistemata la sola cosa che
fosse valsa la pena di
trasportare dal nostro vecchio giardino: un dondolo arrugginito, dai
cuscini
logori e sporchi, che una persona normale avrebbe gettato via senza
pensarci
due volte, ma non io, perché quella ferraglia, che
minacciava di cadere sotto
il peso di un uccellino e cigolava in maniera fastidiosa, era forse
l'unico
punto di riferimento di cui disponessi. Parecchio stupido legarsi ad un
oggetto
che in poco tempo si ridurrà ad un mucchio di sbarre di
metallo e bulloni,
giusto? Ne ero consapevole, ma non mi importava. Non mi importava e
basta.
Se
quello era il prezzo da pagare per preservare un po' di me stessa che
ormai non
riuscivo più a riconoscere... Be', lo avrei pagato.
Nonostante
Claudia, come al solito, avesse da ridire e si lamentasse con i suoi
continui:
"Ne compreremo un altro sicuramente migliore, non c'è
bisogno di rovinare
l'estetica del giardino con questo... coso". Sul serio, qualche volta
avrei voluto davvero aprirle gli occhi sulla realtà e farle
capire che i suoi
sudatissimi e amatissimi soldi non possono comprare qualsiasi cosa e
che prima
o poi avrebbe dovuto rassegnarsi all'idea che, sì, la nostra
vecchia vita non
era delle migliori, ma non aveva il diritto di mostrare il suo disgusto
in ogni
occasione, visto che la nuova non sembrava presentarsi meglio. Almeno
dal punto
di vista umano.
Eppure,
in maniera quasi paradossale, mi ritrovavo a giustificarla. In fondo,
al posto
suo, chi avrebbe visto qualcosa di diverso al posto di un aggeggio
ormai
inutile che minacciava l'incolumità delle persone che lo
usavano?
Nessuno
avrebbe mai capito, e non potevo di certo aspettarmi che lei
rappresentasse
un'eccezione.
O
fargliene una colpa, perché ne aveva molte altre, prima tra
tutte la
grandissima crisi di nervi che ormai la convivenza con lei mi stava
provocando.
Peggio
di come la immaginassi già, cazzo.
Cos'aveva
quella donna che non andava?
Avrei
dovuto trascorrere davvero l'ultimo anno della mia adolescenza in
quelle
condizioni?
Finché
un ragazzo allampanato e capellone, con un borsone pieno di vestiti e
una
custodia per violino ben fissati alle spalle, come un principe azzurro
giunto a
salvarmi, non bussò un pomeriggio al portone d'ingresso dopo
aver parcheggiato
in gran fretta la sua Porsche metallizzata davanti al maestoso
cancello,
urlando con un fischio di approvazione:
-Gran
bell'acquisto, mamma!-
Al
suono della sua voce, Claudia si bloccò sul divano accanto a
me, la tazza di tè
che aveva preparato poco prima accostata appena alle labbra, e
rivelò uno dei
suoi rari (e inquietanti) sorrisi. Ebbi più o meno la stessa
reazione, a parte
il tè e il sorriso inquietante.
-Ne
sapevi qualcosa?- mi chiese, avviandosi verso la porta.-Assolutamente
no-. E
nel momento stesso in cui pronunciai quelle parole, avvertii un fremito
d'eccitazione alla consapevolezza che ogni cosa sarebbe cominciata ad
andare
per il verso giusto una volta per tutte.
-Alessandro-.
Mio padre lo accolse confuso in casa con una pacca sulla spalla.
–Sbaglio, o
dovevi tornare a casa tra due settimane?-
Intanto,
Claudia si era già avvicinata al figlio per controllare che
il suo corpo non
avesse perso peso in quei sei mesi.
-È
successo qualcosa, Alessandro?- La preoccupazione e l'apprensione che
riempivano le sue parole e deformavano il suo volto mi davano uno
strano
effetto, come se non le appartenessero davvero ma le avesse prese in
prestito
da qualcun altro. Questa rimaneva comunque un'ipotesi plausibile,
certo, ma era
molto più probabile che in presenza del figlio la
modalità "Imprenditrice
spietata" andasse in stand-by per lasciare il posto a quella "Mamma
normale" che la rendeva finalmente una persona reale, accantonando il
robot che era in lei almeno per un po'.
-Perché
dovete per forza essere così pessimisti?- rispose lui
ridendo, alla ricerca di
un posto in cui sistemare il violino e il borsone. Alla fine
optò per la
poltroncina vicino all'ingresso. –Il professore che avrebbe
dovuto tenere
l'ultimo corso si è dato malato e l'ha spostato a settembre,
così ho deciso di
tornare prima e farvi una sorpresa-. Inarcò le sopracciglia,
fingendosi
vagamente offeso.
-Non
siete felici?-
Mi
sfuggì una risatina, la prima dopo... be', sei mesi, a
partire dall'esatto
momento in cui era entrato in auto e aveva gridato dal finestrino
aperto,
impegnato a compiere una manovra in retromarcia: -Tornerò.
Più morto che vivo,
ma tornerò-.
Alessandro
sembrò accorgersi di me soltanto adesso, e sul suo volto si
fece largo un gran
sorriso.
–Musona!-
-Quante
volte ti ho detto di non chiamarmi così?- protestai
scocciata, nonostante
avessi sentito in realtà la mancanza di quel soprannome che
mi mandava sempre
in escandescenze.
-Non
abbastanza, a quanto pare-. E si allontanò dalla mamma per
circondare e
sollevare il mio corpo minuto con le sue possenti braccia.
-Mettimi
giù!- Continuavo a ridere e, anche se non l'avrei ammesso ad
anima viva, quel
tipo di contatto fisico non mi infastidiva come gli tutti gli altri.
Anzi.
Un
cambiamento drastico, quasi incredibile, rispetto all'estate di due
anni prima,
quando non eravamo che una sedicenne e un diciottenne costretti dai
rispettivi
genitori ad incontrarsi e comportarsi come veri fratelli, e lui, alla
fine di
quella noiosa cena, aveva detto: -Bene, sorellina, è stato
proprio un vero
piacere conoscerti!- e mi aveva abbracciata nonostante i miei continui:
"Smettila di stritolarmi!"
Da
quella sera non ci eravamo più separati.
E
aveva deciso di chiamarmi "Musona".
Se
qualcuno mi avesse detto che il figlio di Claudia sarebbe diventato il
mio
migliore amico, gli avrei riso in faccia. Chi avrebbe mai immaginato
che
fossero l'esatto opposto sia nell'aspetto che nel carattere? O, molto
probabilmente, c'era stato uno scambio di culle nell'ospedale in cui
era nato e
adesso suo figlio naturale stava facendo impazzire una famiglia
innocente.
Poveri genitori.
Non
avrei voluto trovarmi nei loro panni per nulla al mondo.
Dopo
essere stato costretto a riportarmi a terra con un piccolo calcio sulla
pancia,
in segno di avvertimento, si sedette sul divano accanto a me mentre sua
mamma
poggiava un vassoio con biscotti e succo di frutta sul tavolino al
centro. Non
proprio il massimo per un ventenne, ma lui non lo diede a vedere.
-Com'è
andato il viaggio?- gli chiese lei, sistemandosi sull'altro divano
insieme a
mio padre. -Hai avuto difficoltà a trovare la casa?-
-No,
è praticamente l'unica a raggi di chilometri!-
Solo
per dare un'idea di quanto fossimo lontani dalla civiltà.
-E...-
Iniziò a lisciarsi pieghe inesistenti della gonna, segno che
stava per dare
inizio ad una discussione molto seria. –Sei stato
già contattato da qualche
orchestra?-
Alessandro
studiava Violino in un prestigioso conservatorio di Milano da quasi due
anni,
ormai, ed era bravo. Davvero. Non mi sarei stupita se qualche musicista
di alto
livello si fosse messo in contatto con lui, anche se continuava a
ripetere che,
semmai avesse ricevuto un'email o una telefonata, si sarebbe rifiutato
di
presentarsi perché preferiva proseguire gli studi con
serenità, senza stress o
pressioni.
Ma
Claudia sembrava pensarla in maniera diversa.
Come
al solito.
-Non
ancora, mamma-. Il tono di voce tradiva il fastidio.
-Hai
controllato?-
-No,
mamma-.
-E
allora fallo, no? Cosa stai aspettando?-
-Un
po' di pace, mamma-. Le rivolse un sorriso sarcastico che mi costrinse
a
coprire la bocca con una mano per soffocare una risata maleducata.
Claudia
assunse un'espressione offesa che sostituì a breve con la
sua solita freddezza.
–Se non pensi più seriamente al tuo futuro, ti
ritroverai a suonare il violino
per elemosina in mezzo alla strada-.
-Di
sicuro sarà più eccitante che controllare di
continuo i risultati della Borsa
sul cellulare-.
-Come
ti...- si trattenne a stento lei. Mio padre le poggiò una
mano sulla sua
schiena che scrollò di dosso con un movimento eloquente
delle spalle. –Dovresti
soltanto ringraziarmi per aver assecondato la tua scelta, invece che
costringerti ad entrare nell'attività di famiglia come i
tuoi nonni hanno fatto
con me-. Si alzò furibonda, la maschera di
impassibilità che tremava insieme al
labbro inferiore, e riprese:
-Come
farai quando non ci sarò più? Chi ti
darà i soldi per vivere?-
Se
non la conoscessi, avrei detto che fosse sul punto di piangere.
Perché lei era
Claudia, e le sue non potevano essere lacrime.
Forse
gocce di veleno.
O
anche olio di motore.
Papà
aveva un'aria preoccupata e continuava a lanciare occhiate
significative ad
Alessandro, anche lui consapevole di aver esagerato. Quanto a me,
l'istinto mi
intimava di agire ed intervenire come sempre, con la stessa prudenza e
accortezza
di un elefante in una cristalleria, ma il buon senso mi suggeriva di
evitare
discussioni non strettamente legate a me o alla mia famiglia e, per una
volta,
decisi di ascoltare l'ultimo.
-Ne
abbiamo già parlato- sospirò lui. –Non
andrà a finire così. In futuro troverò
qualcosa,
te lo prometto-.
-Non
mi interessano le tue promesse. Voglio delle certezze. E se non sarai
capace di
darmele, chiamerò tuo padre e ti farò iscrivere
all'università di Economia più
vicina. L'hai sempre saputo, no?-
-Non
pensi che...- fece per protestare mio padre.
-Non
ti immischiare, Pietro-.
Okay,
se adesso non reagisce lui,
ci penso io al posto suo.
-D'accordo,
come vuoi- alzò le mani lui.
Come
non detto.
Stavo
riscaldando le corde vocali, pronta alla battaglia che di lì
a poco si sarebbe
consumata nel soggiorno, quando Claudia si voltò di scatto e
iniziò a procedere
impettita verso la rampa di scale senza spiegarne il motivo,
probabilmente
diretta allo studio che si trovava al primo piano. E mio padre non
esitò a
correrle dietro con uno sconsolato: -Non dirmi che ora ce l'hai anche
con me!-
Rimanemmo
così soltanto noi due, Alessandro ed io, a dover sopportare
quel silenzio
consapevole in cui continuavano ad aleggiare le parole crude, spietate,
dannatamente razionali di Claudia che, per la prima volta, non avvertii
il bisogno
di celare con altre parole.
Poi,
quasi in un sussurro: -Bello schifo, eh?-
Puoi
ben dirlo.
–Purtroppo
sì-. Lo guardai con sincero dispiacere.
-Non
è la prima volta che me lo dice, ma mi ripeto sempre: "Ehi,
sei in gamba,
le dimostrerai di valere almeno in questo"- Sorridendo amaramente,
prese
un respiro profondo. –Sono passati due anni e non ci sono
ancora riuscito-.
-Stai
dicendo una grandissima stronzata-.
-E
allora perché continuiamo a parlare
dell'università di Economia?-
-Perché
tua madre vuole il meglio per te-. Gli poggiai istintivamente una mano
sulla
spalla e quasi non mi accorsi del sussulto che la sua schiena ebbe al
mio
tocco. –Ma non riesce a capire che quello che stai facendo
è il meglio per te,
perché hai talento e farai strada, credimi. E anche lei se
ne accorgerà presto
-.
E
dal sorriso che mi rivolse, capii che mi stava ringraziando in
silenzio; io non
potei fare a meno di aggiungere con una smorfia: -Anche se a volte
quella donna
mi spaventa un po'-.
-Spaventa
anche me. E sono suo figlio!-
La
sua risata gutturale si perse nell'aria mentre calava di nuovo il
silenzio tra
di noi, ed io mi ritrovai a pensare a come ci fossimo trovati senza
qualcosa da
dire per portare avanti la conversazione. In genere era così
semplice divagare,
scherzare, ridere, ma in quel momento no, sembrava quasi inappropriato.
Perché
quel tipo di silenzio non aveva lo stampo dell'indifferenza reciproca,
nelle
situazioni in cui non si ha nulla a che vedere con un determinato
interlocutore
e l'unica cosa che esiste è l'enorme vuoto da riempire con
qualche domanda a
caso.
No,
anzi, era fin troppo intimo, forse anche imbarazzato, come di due
persone che
non hanno bisogno di parole per parlarsi. Quasi... fuori luogo.
E
quelle persone erano di solito unite da un legame molto più
forte
dell'amicizia.
Sto
davvero pensando ad Alessandro, Alessandro, in quel modo?
Stavo
per scoppiare a ridere: ed eccomi qui in compagnia dei miei film
mentali, una
coppia che difficilmente qualcuno sarebbe riuscito a sciogliere.
Eppure
c'era qualcosa di sbagliato in quella situazione, me lo sentivo.
Come
sentivo che i suoi occhi color verde slavato continuavano a scrutarmi
il viso,
nonostante il mio sguardo fosse rivolto altrove e i capelli formassero
un lungo
sipario rosso, e il cuore prese a battere all'impazzata senza motivo.
Non
mi era mai capitato.
Ed
era... strano. Forse anche piacevole.
-E
tu?- sussurrò improvvisamente lui con voce flebile.
-Io
cosa?- Iniziavo ad essere consapevole di ogni suo gesto (le dita che si
muovevano sinuose mentre gesticolava, la bocca che si arricciava
leggermente
quando parlava, le piccole rughe intorno alle palpebre che si formavano
insieme
ai suoi sorrisi) e questa cosa non mi piaceva affatto
perché...
Al
diavolo, non lo sapevo nemmeno io il perché.
-Tu
come stai?-
Quella
domanda non me la sarei proprio aspettata da lui, che era l'unico ad
essere a
conoscenza di quanto detestassi parlarne; probabilmente quel giorno
doveva
essersi sentito fortunato e aveva deciso di sfidare il destino e il mio
umore
oscillante dal picco della felicità a quello della rabbia.
Qual
era il mio problema con il "Come stai?"?
Non
di certo le parole in sé, visto che erano soltanto
un'accozzaglia di suoni che
le persone rivolgevano ad altre per pura cortesia.
Era
la risposta.
Perché
dovresti dire come ti senti a qualcuno cui magari non interessa affatto?
E
se anche fosse interessato, tu saresti in grado di rivelare la
verità?
No,
ovviamente.
Nessuno
ha il coraggio di affrontare se stesso.
E
forse il problema, nel mio caso, era che nemmeno io conoscevo quella
verità.
Esiste
qualcosa di peggio?
Successe
così, senza che me ne accorgessi o potessi fermarlo in tempo.
In
un attimo rimossi dalla mente qualsiasi pensiero fuori luogo, tornando
a considerare
Alessandro semplicemente "Alessandro", il ragazzo dalla
personalità
stravagante e imprevedibile che mi faceva ridere, zittii la vocina che
mi
ricordava del fastidio che le dimostrazioni d'affetto mi provocavano e
poggiai
la testa sulla sua spalla, gli occhi chiusi e le spalle rilassate,
insolitamente confortata dalla familiarità del suo corpo.
Il
torpore del sonno mi avvolse all'improvviso e notai a malapena che mi
stava
accarezzando dolcemente i capelli.
Salve
a tutti!
Non
sono riuscita a scrivere
l'Angolo Autrice nell'altro capitolo per mancanza di tempo, ma
cercherò di
rimediare a partire dall'ultimo aggiornamento.
Che
ne dite? Vi sta incuriosendo la
storia?
C'è
ancora molto da scoprire, anche
se, personalmente, già inizio a shippare i miei personaggi
come se non ci fosse
un domani (le fangirls capiranno).
Al
prossimo capitolo (che spero di
pubblicare il prima possibile),
the_scream_of_silence