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Autore: LB Shadow    23/08/2016    5 recensioni
IN PAUSA REVISIONE (REVISIONE IN CORSO, L'ULTIMO CAPITOLO ANCORA DA CORREGGERE)
*
Questa storia parla di ossessione, di orgoglio ferito, di passioni che scavano nel profondo.
Ma anche di hamburgers mastodontici, cuochi incompetenti, giudici psicotici, magia nera e vendette efferate quanto, alla fin fine, improbabili.
O forse no, chi lo sa, magari il destino ha in mente qualche scherzo. Partiamo dall’inizio, vi va?
Un terribile evento ha allontanato Arthur Kirkland, chef inglese di dubbie speranze, da Londra e di lui non se n'è saputo più nulla.
Fino ad ora.
Dopo un anno, infatti, Arthur è tornato, portando con sé un giovane studente straniero al fine di ospitarlo. Dietro ai suoi modi gentili sono però nascosti un bruciante desiderio di rivincita verso chi l'ha costretto a fuggire e molti, troppi segreti.
I piani, però, verranno messi duramente alla prova. Incidenti di percorso e sentimenti che si credeva ormai appartenenti al passato travolgeranno sia lui che chi gli sta attorno in una spirale da cui nessuno uscirà illeso.
È davvero possibile vincere contro dei mostri quando in realtà fanno parte di noi? Chi è l'eroe e chi il cattivo della storia?
*
(presenti più possibili ship, anche oneside, a vostro piacere)
Genere: Commedia, Dark, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Scelte rischiose
 
III

 
 
Basta uno sguardo, a volte. Questione di un attimo, fugace come lampo e potente come tuono, e si rimane folgorati, neanche il tempo di rendersene conto.
Toris si era innamorato a prima vista.
Il cielo era plumbeo, quel pomeriggio, minacciava pioggia a breve. Nell’aria aleggiava l’odore dell’umidità mista alla polvere, allo scarico delle auto delle auto che passavano rapide distanti l’una dall’altra. Il vento sollevò alcune foglie secche sfuggite dal parco pubblico di fronte all’edificio, facendole volare sul marciapiede antistante.
C’era una panchina vuota, lì: Toris pensò bene di sedercisi per tirare il fiato e posare l’ombrello, osservando i passanti che camminavano accelerando il passo sotto le nuvole minacciose. Completamente preso dai suoi pensieri, dall’ansia che gli divorava i nervi, Toris stava pensando che finalmente avrebbe potuto mettersi l’animo un po’ in pace e che almeno una delle sue preoccupazioni sarebbe stata finalmente risolta con il lavoro appena trovato, quando alzò gli occhi e improvvisamente al mondo non ci fu che lei.
Lunghi, luminosi capelli biondi che incorniciavano il viso diafano. Labbra imbronciate appoggiate al palmo della mano, mentre osservava distrattamente il mondo al di fuori dalla finestra aperta con occhi che parevano zaffiri, tanto erano blu e profondi. Toris sentì il cuore mancare un colpo. Si fermò a guardarla, lo sguardo inceppato su di lei, certo di non aver mai visto nessuna ragazza altrettanto meravigliosa, il petto pieno di farfalle e lo stomaco stretto dall’onnipresente ansia. Si era preso una cotta peggio di un moccioso delle medie.
La ragazza sbuffò da quelle splendide labbra rosee e il ragazzo sentì le ginocchia liquefarsi come cubetti di ghiaccio in mezzo al Sahara. May day, may day, lo stiamo perdendo.
Aaaaah, doveva assolutamente sapere chi fosse, assolutamente sì, ma come? Era così bella e lui non aveva idea di cosa dirle... Per alcuni secondi si dimenticò pure il motivo per cui si trovava lì.
Quasi senza pensarci si alzò dalla panchina e si diresse sulla strada davanti al palazzo, implorando il fato che gli desse una mano, finché la misteriosa fanciulla non guardò giù e i loro sguardi s’incontrarono.
Toris si portò una mano al colletto della camicia, aprendoselo un po’ e lasciando che l’aria fresca ci passasse attraverso. Le guance che in un batter d’occhio erano avvampate facevano capire al mondo intero quanto la sua temperatura corporea fosse salita a livelli insostenibili, e tutto per via di una bella ragazza. Quanto doveva sembrare patetico! Ma in quel momento non ci pensò. Non pensò a nulla.
Lei sollevò un sopracciglio sul viso di porcellana, il broncio continuò a sostare a contatto con le nocche. Lo fissava interrogativa. Toris mosse timidamente una mano nella sua direzione in segno di saluto, ma non ottenne risposta alcuna.
Improvvisamente, la ragazza si voltò all’indietro verso l’interno della stanza dove stava e finalmente la sua espressione mutò.
Tornò a guardare verso Toris. Gli occhioni blu lo squadrarono da testa a piedi, quindi fece un piccolo ghigno che forse nascondeva un sorriso e si girò nuovamente verso l’interno della stanza. Infine si alzò e chiuse la finestra, lasciando il ragazzo un po’ interdetto in mezzo alla strada.
− Dio... – riuscì solamente a sospirare Toris. E per un momento sembrò fosse stata appunto la mano di Dio a prenderlo per la spalla e tirarlo con forza all’indietro, sul ciglio della strada, prima che una macchina arrivasse su strombazzando. Lui non si era neanche accorto del pericolo incombente.
− Tipo, ma sei fuori di testa? Stava per prenderti sotto! – sbraitò una voce alle sue spalle. Toris si girò, ancora mezzo intontito, e vide quello che lo aveva appena salvato dall’incidente.− Sta più attento!
Era un ragazzetto quello che gli stava urlando contro, uno di quelli che non incutono timore neanche da infuriati e in quel caso non era infuriato, solo incredibilmente spaventato, come se fosse stato lui a rischiare grosso. Lo sconosciuto lo guardò storto, come aspettandosi una spiegazione a quel comportamento così incosciente.
− Scusa... – tentò di dire Toris, venendo interrotto da un gesto impaziente dell’altro: − Seh, vabbè. Lascia perdere, si vede che eri totalmente su un altro pianeta. –. Scosse violentemente la testa, muovendo un caschetto di capelli biondi che attentava alla sua mascolinità, già di per sé poco evidente. Che tipetto. Forse, però...
Accennò ad andarsene, ma Toris lo bloccò prendendolo per un braccio: − Aspetta! Per caso mi potresti dare un’informazione?
Il ragazzo raggelò. Si voltò più spaurito di prima, animaletto braccato: − Che vuoi? Non mi piacciono gli sconosciuti. Non sono neanche di qui, lasciami stare. Non so niente, non ho visto niente, io.
Toris mollò la presa, deluso. – Ok, perdonami, allora.
L’altro si sistemò la manica sgualcita e Toris ne approfittò per aggiungere: − Immagino tu non sappia chi fosse la ragazza che stava poco fa alla finestra, giusto?
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia e incrociò le braccia, fissandolo con uno sguardo tra il severo e il beffardo. – Ah, quella... la tizia per cui poco fa non ti sei fatto investire? Cioè, sì, la conosco di vista. Ѐ Natalia, la sorellina del giudice Braginski.
Toris sentì il cuore allargarsi: – Sorella? Vuol dire che vivono insieme?
− Ah-a, sì. Ma che ti serve saperlo? – il ragazzetto lo squadrò da capo a piedi e fece un passo indietro, portandosi orripilato una mano alla bocca. − Cioè, non vorrai mica salire e presentarti? Sei pazzo? Non te lo consiglio. Non lo consiglierei, tipo, a... boh, nessuno.
− E come mai?
L’altro alzò le spalle, senza rispondergli se non lanciando uno sguardo accusatorio alla finestra ora vuota. Toris respirò a fondo: non voleva arrabbiarsi per così poco.
− Non importa, io là sopra ci devo andare comunque. − disse, fingendo assoluta indifferenza − Ho un colloquio di lavoro con il giudice, sai.
Il ragazzo sorrise malizioso: – Buona fortuna, allora. Non è problema mio quello che fai della tua vita.
− Che intendi dire?
− Ѐ troppo presto per dirtelo. Voglio godermi lo spettacolo.
E lo sconosciuto lo guardò negli occhi, ogni traccia di timidezza andata perduta. Sembrava avesse un segreto nascosto in quegli occhi, che Toris notò somigliassero incredibilmente a quelli dei gatti, verdi come smeraldi. Sembrava fosse indeciso se svelargli
(che cosa, accidenti, se hai qualcosa da dirmi dimmela in faccia)
il segreto e evitare conseguenze oppure sfidare il destino. Sapeva qualcosa riguardo il giudice Braginski e la sua magnifica sorella, questo era sicuro, ma non aveva intenzione di dirglielo. Oh, al diavolo!
− Devo andare... – disse, allontanandosi da quello strano tizio, prima di arrivare in ritardo e fare brutta figura il primo giorno. Raggiunse l’altro lato della strada, quando l’altro gli urlò: − Feliks.
Toris si girò, come punto da uno spillo. − Come?
− Il mio nome è Feliks. – spiegò Occhi Verdi.
− Ah – Toris restò a guardarlo per un altro paio di secondi – Il mio nome invece è...
− Lascia stare – lo interruppe Feliks. – Me lo dirai quando uscirai da lì.
Sorrideva. Toris si sentì incoraggiato. – A dopo, allora! – salutò e suonò il citofono al nome di “Ivan Braginski”. Non udì il flebile, aspro sussurro: − Se uscirai da lì. Te lo auguro.
Appena gli fu aperto Toris balzò nell’atrio, gli occhi ansiosi che saettavano qua e là alla ricerca della graziosa figura di prima, le orecchie tese nella speranza di udire la sua voce nonostante non l’avesse mai sentita. Un lieve profumo nell’aria: che fosse il suo? No, accidenti, era semplicemente deodorante per ambienti. Ma cosa importava, tra poco l’avrebbe vista!
Andò dritto verso l’ascensore, un modello vecchiotto ben riconducibile all’edificio, per subito trattenere un’imprecazione: “GUASTO” segnava un minuscolo cartello sul battente. Vedi te la sfiga.
D’accordo, avrebbe salito tutti e quattro i piani per le scale, non era forse Shakespeare che aveva descritto le ali dell’amore, cui nessun limite di pietra può chiudere la via della passione? Beh, forse i limiti di pietra no, ma il sudore sì. Sugli ultimi scalini si pulì la fronte con un fazzoletto e pregò di non avere imbarazzanti tracce altrove. Aveva praticamente saltellato diviso tra l’euforia e la sua ansia perenne, giungendo al piano senza quasi accorgersene. Non avrebbe dovuto correre in quel modo, ma l’impazienza di rivederla era troppa... e se avesse aperto lei la porta? No, era solo una vana speranza. Queste cose succedevano solo nelle commediole romantiche. La realtà... la realtà è un’altra cosa.
Si mise in bocca una caramella alla menta mentre bussava alla porta con la dicitura “Braginski” sul campanello, e per poco non si strozzò quando ad aprire fu effettivamente lei. La principessa prigioniera e annoiata.
Non l’aveva notato prima, ma aveva un delizioso fiocco indaco che le adornava i capelli. Portava un vestito lungo, indaco anch’esso con inserti bianchi, con una gonna a campana che evidenziava la vita sottile, un figurino femminile e romantico.
Era semplicemente stupenda. Una bambola, quasi.
Quasi, perché le bambole di solito non ti puntano un coltello a serramanico alla gola.
− Eeerrr... – gracchiò Toris, mentre la lama gli solleticava la pelle.
− Che vuoi? – ringhiò Natalia. – Sei quello che ha accettato il lavoro?
Toris deglutì, il pomo d’Adamo sfiorò pericolosamente l’acciaio freddo. Sibilò un “sì” incerto e finalmente il coltello fu ritirato dalla sua postazione. La ragazza lo squadrò, sprezzante.
− C-ciao, tu sei Natalia, giusto? Io sono Toris, piacere di conoscerti... – si presentò, pregando di fare una buona impressione. Sentiva le gambe molli e sudore gelido gli scendeva lungo la spina dorsale. Lei per tutta risposta schioccò la lingua. Con un gesto secco della mano lo invitò nell’ingresso dell’appartamento e lo precedette dandogli le spalle.
Il soffitto era molto alto, di un bianco accecante come le pareti. L’illuminazione era fredda, rendeva l’ambiente simile a quello degli ospedali. Mobili scuri di legno pregiato si susseguivano intorno ben disposti, sopra di essi erano posti ninnoli e qualche foto, forse di famiglia: vi erano sempre raffigurate tre persone, un uomo e due ragazze.
− Ѐ stato mio fratello a dirti come mi chiamo? – chiese Natalia, prendendo la giacca e l’ombrello di Toris e riponendoli su un attaccapanni. Il suo tono di voce si era incredibilmente addolcito rispetto a soli pochi secondi fa.
− Ehm, no, è stato quel ragazzo qui fuori, Feliks. A dire la verità non avevo idea che il giudice avesse una sorella... – rispose Toris ma non riuscì a continuare perché l’occhiataccia di Natalia lo zittì: sembrava irritata dal fatto che non fosse stato Ivan a presentarla. Accidenti, ma come faceva a rovinare sempre tutto ancor prima di cominciare?
− Ma chissà... magari non voleva condizionare la mia scelta? Sì, insomma, la presenza di una ragazza tanto carina potrebbe, che so, influenzare la proposta di lavoro. – tentò di rimediare, maledicendosi perché non riusciva a trovare niente di più sensato. Ma forse a lei andò bene così, perché sul visetto si dipinse un minuscolo sorriso (quella sua caratteristica parodia di sorriso) e replicò: − Sì, probabilmente è così. Comunque non stare troppo a sentire Feliks, è un tipo che dà aria alla bocca per nulla −. Toris annuì, chiedendosi se ci fossero ostilità tra i due.
− Ti ha detto qualcosa anche sul fratellone? – domandò improvvisamente Natalia.
− Eh? No, no. Cioè, voleva dissuadermi nel presentarmi al colloquio, ma non ha detto il motivo.
La ragazza si avvicinò pericolosamente al volto di lui, una luce tagliente nelle iridi che rifletté il sibilo della sua voce. – Te lo do io un consiglio: evita di ascoltare quel piccolo demente, non sa quello che dice.
− O-ok... – Toris senza accorgersene era sbiancato come un lenzuolo davanti a quell’avviso autoritario, quasi avesse nuovamente la lama puntata alla carotide. Aveva persino alzato le mani in segno di resa.
Natalia annuì soddisfatta. Quel tipo non le sembrava degno del fratellone, ma d’altronde nessuno lo era, tranne lei ovviamente. Avrebbe dovuto adattarsi comunque, perché quella era la decisione dell’amato fratellone. Sospirò.
Toris subito si preoccupò: − Tutto bene?
− Sì. Ora muoviti, siamo già in ritardo. Ti porto nel suo studio.
Come il pifferaio della favola con un topolino sperduto, lo attirò in un intrico di corridoi che portavano verso l’interno della casa.
 
*  *  *
 
− Secondo te come se la caverà? – disse Arthur, passando lo straccio sui tavoli. Mancavano circa dieci minuti alle due del pomeriggio. Le prime nuvole cominciavano a scurire il cielo.
− Chi? – rispose Alfred, spazzando il salone al ritmo di una canzone pop che passava alla radio. Perché avesse bisogno della musica mentre faceva le pulizie, l’inglese non ne aveva idea: lo distraeva e faceva rallentare entrambi. Senza contare che aveva scelto una stazione orrenda, in cui uscivano ogni due per tre canzonette cantate da e per adolescenti brufolosi.
− Come chi, Toris ovviamente. Ѐ il suo primo lavoro quaggiù.
− Se non s’impappina con la lingua farà sicuramente una bella figura. Cioè, mica deve candidarsi come presidente, deve solo fare un colloquio per un lavoretto.
− Sarà... io sono preoccupato.
Alfred interruppe un attimo il suo lavoro, per la decima volta in un’ora a dire la verità (le altre volte erano state per alzare il volume e mettersi a ballare con lo spazzolone), e si avvicinò ad Arthur. Gli prese il volto tra le mani, costringendolo a guardarlo negli occhi.
− Oh, vecchiaccio – lo intimò, le iridi limpide come brandelli di cielo montano, – don’t worry: ricordi cosa ti ho detto poco fa?
− Di non trattarlo come un bambino di due anni.
− Bravo, si vede che non ti è ancora venuto l’Alzheimer – gli diede un buffetto sulla guancia e tornò a lavorare. Arthur rimase lì a rimuginare tra sé: c’era comunque qualcosa che gli puzzava. Dubbi laceranti. Ricordi. A forza di scavare negli stessi pensieri gli venne in mente un’altra questione, di tutt’altro genere.
− Yo, Alfred. – lo chiamò a un certo punto. Alfred si girò dalla sua postazione.
− Sì?
Arthur posò il mento sulle mani intrecciate, simulando indifferenza: − Tu com’è che sei venuto qua a lavorare in Inghilterra? Non si stava bene in America?
Alfred raggelò. La sua usuale espressione entusiasta si deformò, trasformandosi in malinconia. Durò tutto pochi attimi, perché esplose subito con la sua risata squillante.
− Ahahaha! Che ti devo dire? C’era bisogno di me nel vecchio continente, così non ho potuto resistere! Ora come farebbe la gente senza i miei favolosi panini?
Ma i suoi occhi azzurri non brillavano come prima, se ne accorse Arthur e se n’era accorto anche lui. Lasciò andare un sospiro arrendendosi all’evidenza.
− Sul serio, Kirkland, non mi va di parlarne. Un altro giorno, ok? Prometto che in futuro te lo dirò, ma non mi pare questo il momento – sussurrò, un sorriso terribilmente melanconico rannuvolò il suo volto. L’oscurità della memoria aveva momentaneamente preso possesso del suo cuore.
Che giaccia nell’ombra dove nessuno può vederlo, nessuno deve ricordare il passato prima che venga l’ora legittima, altrimenti s’infrangerà l’equilibrio su cui si basa quest’effimera felicità.
Arthur annuì. Comprendeva quando era meglio non insistere, e questo era il momento. Si tirò nuovamente su le maniche della camicia che ricadevano sempre sui polsi rischiando di bagnarsi. Il gesto venne notato da Alfred che lo rimbrottò: − Senti un po’, capisco che vuoi fare la figura da professorino, ma anche a casa le pulizie le fai in giacca e cravatta?
− Eh? No... cioè, è ovvio che sono un’altra tenuta. Cosa intendi dire con ciò?
Alfred mollò lo spazzolone, stavolta definitivamente perché tanto sapeva che di questo passo non sarebbe durato a lungo comunque, e afferrò per un braccio Arthur.
− Che ti prende? Dove mi porti? – domandò lui. Era un tantino spaventato dall’aria risoluta di Alfred, che lo stava trascinando come nulla fosse verso la cucina.
− Adesso vedi. I tuoi vecchi attrezzi non saranno l’unico regalino che ti faccio oggi!
− Che vuoi dire? Ehi, non tirare troppo o mi rovini la camicia!
Arrivarono nel retro della cucina, dove si trovava un piccolo sgabuzzino. Alfred lasciò il braccio dell’altro, vi entrò e riemerse qualche secondo più tardi con qualcosa di rosso in mano.
− Ecco qua. Mettiteli. – gli porse un fagotto. Arthur lo esaminò e gli sfuggì un versetto sorpreso: erano un cappellino da baseball e un grembiule entrambi rossi e con la scritta “The Eagle”. Il grembiule aveva pure disegnata un’aquila testa bianca sotto il nome.
− Scusa? Indossare questa... questa roba? Non che non mi piaccia, ma la trovo, ecco, inutile adesso che non ci sono clienti – protestò, la bocca storta in una smorfia. Quel vestiario gl’ispirava un senso istintivo di ribrezzo, però il suo senso di buona educazione gli impossibilitava il dirglielo in faccia.
− Devo ricordarti chi è il capo? Questo è il mio locale e le regole le decido io, quindi zitto. Ora cambiati, su! – rispose stizzito Alfred, indicando la camicia immacolata e la cravatta verde scuro del socio; avrebbe avuto anche una giacca, ma lui se l’era tolta prima di cucinare e no, lo stufato non aveva avuto il coraggio d’intaccare l’abbigliamento di un gentiluomo suo pari, grembiule o meno. Arthur suo malgrado dovette cedere. Fece il gesto d’indossare l’uniforme sopra ciò che aveva già addosso ma Alfred scosse la testa. − Devi spogliarti, prima – spiegò.
Il volto dell’inglese divenne più rosso del corredo.
− Cosa? Devo proprio? Non posso mica metterli sopra?
Alfred lo guardò come se fosse impazzito. – Senti, non so come siete abituati voi inglesi, ma nel mio Paese non ci facciamo tante seghe mentali. Se resti coi tuoi vestiti, t’avviso, tornerai a casa stasera che puzzerai come se avessi fatto un bagno nella friggitoria.
− Tzè, come se dovessi cucinare per un esercito. L’esercito di fantasmi della Rivoluzione Americana, ecco chi ci viene qui!
Non l’avesse mai detto. Il volto di Alfred divenne livido e la voce gli salì di un’ottava (rabbia o paura?). − Non azzardarti ad insinuare simili fandonie in mia presenza! – urlò − E ora muoviti, donnetta isterica. Ti do una t-shirt da mettere sotto se non hai nient’altro, da domani te la porti da casa.
Alfred rientrò nello sgabuzzino, mentre l’altro si spogliava tra i mugugni d’insofferenza. Rimasto a torso scoperto, Arthur sbuffò, stringendosi come se una folata gelida lo avesse avvolto e gli pungesse le ossa. Si sentì terribilmente a disagio, tremava come se gli avessero tolto i vestiti con la forza, lasciandolo nudo davanti a una folla schiamazzante. Non aveva problemi con il suo corpo, ciò che gli causava tanto fastidio era il doversi spogliare davanti a uno del suo stesso sesso. Esporsi. Mostrare la sua debolezza, ogni copertura caduta letteralmente a terra. Come se senza abiti la sua stessa anima fosse denudata e l’altro potesse rimanere sconvolto
(disgustato)
da ciò che vi nascondeva. “Lui” era sempre riuscito a leggere nell’anima di Arthur, “lui”, che lo conosceva da quando era un bambino e che sin da allora aveva continuato a distruggere ogni suo tentativo di celarne i pensieri, corazza d’acciaio divenuta cristallo. “Lui”, la persona cui cercava in tutti i modi di scordare il nome o perlomeno associarlo esclusivamente al sapore amaro che sentiva in bocca, al veleno che gli veniva istillato nel cuore giorno dopo giorno.
Quando Arthur tornò a guardare verso la stanzetta trovò Alfred con una maglietta in mano, fermo in piedi davanti alla porta: lo stava studiando come si fa con un animale mai visto prima d’ora. Non si riusciva a capirne il giudizio.
− Ho trovato questa, forse ti starà un po’ larga. Provatela. − Gli tese la maglietta; l’altro la prese, ringraziandolo sottovoce. – Chill out, dude. Non ti facevo così timido. Manco ti avessi fatto chissà quale proposta sconcia!
Arthur sogghignò, iniziando a sbottonarsi la camicia dandogli le spalle: − Sono restio a cambiarmi in presenza di altri, tutto qua.
− A me invece non fa né caldo né freddo, perché in America facevo parte del gruppo sportivo della scuola e ci cambiavamo sempre insieme nello spogliatoio. Dopo un po’ ti abitui a tutto.
“Anche a essere fissato da decine di occhi? Anche a tuoi compagni che, davanti alla tua reticenza, vengono lì e ti costringono a spogliarti? E se quei compagni fossero uno, una sola persona a cui sei legato nonostante tutto a doppio filo e ciò rendesse la cosa ancora più penosa perché non sai se morire di vergogna o se quel brivido che scende per la schiena, che t’immobilizza come un pezzo di marmo, è dovuto a quel tocco così insolito, curioso, e sentissi il cuore che esplode nel petto mentre la testa piomba nel caos più totale? Ti ci abitui a negare qualcosa che nel profondo riconosci benissimo ma che nessuno, nessuno!, mai capirà? Eh, Alfred? Te lo hanno insegnato questo in America?”
Arthur si girò lentamente, stringendo tra le dita il cotone della t-shirt; Alfred era a petto nudo, anche lui si stava apprestando a cambiarsi. Arthur restò un attimo a bocca aperta per la sorpresa: non si aspettava la procedura funzionasse anche per l’altro.
Vedere un altro uomo semi nudo destava un fascino bizzarro, in particolar modo ora che notava quanto i loro corpi fossero diametralmente diversi: Arthur era snello, quasi smilzo, muscoli sottili e proporzionati; Alfred sembrava avere la consistenza di un quarto di manzo, come se non avesse ossa ma solo un unico blocco di carne. Era robusto, spalle larghe, i muscoli delle braccia ben definiti, il tipico fisico di un giocatore di football americano. Non era difficile immaginarlo mentre si scagliava contro altri giocatori inseguendo la palla, ciononostante il suo corpo contrastava con il volto che conservava tracce infantili nella sua morbidezza, quasi dolcezza. Era un bambino evoluto troppo in fretta nel corpo di un adulto.
− ‘Mbe? Tanti problemi e poi sei tu quello che rimane imbambolato ad osservarmi! – lo prese in giro Alfred. Arthur voltò immediatamente lo sguardo da un’altra parte, ormai troppo tardi. Il volto gli si era infiammato come se fosse scoppiato un incendio sotto pelle.
Perché non aveva costruito una botola sotto il pavimento per situazioni simili, in modo da poter sprofondare e non riemergere più?
− Scusa, è che... – che cosa, accidenti?! − ... siamo così diversi.
L’altro annuì, indicando il torace dell’amico come un medico indica un osso rotto sulla lastra. − Su questo ti do pienamente ragione. Dovresti mettere su un po’ di ciccia su quelle costole o rischi di non superare l’inverno.
− Ma sentilo!
Alfred scoppiò a ridere e indossò anche lui una maglietta, blu elettrico però. A lui stava quasi attillata, nonostante fosse della stessa misura di quella che aveva dato ad Arthur. – Coraggio, di cos’hai paura?
“Di rivedere lui nei tuoi occhi” pensò Arthur, ricordi gelidi di rimorso.
− Arrivo. Però non guardare.
− Agli ordini, chiudo gli occhi e conto fino a cento. Uno, due...
− Smettila, ho fatto.
Arthur aveva la maglietta addosso, che, sorpresa sorpresa!, gli cadeva spiovente sul busto sottile. Alfred lo squadrò. – Non stai male, adesso ti passo l’uniforme. Ricorda di tenertela tutto il giorno, eh! Che se arriva qualcuno sappia che sei un dipendente a tutti gli effetti.
Con grembiule e cappellino ben schiacciato in testa, la trasformazione era avvenuta: da persona adulta e rispettabile, Kirkland era divenuto un arcigno sbarbatello pronto a segnare sul conto un McMenù con bibita, la vuole la sorpresina in omaggio?
Alfred dovette tapparsi la bocca per non sghignazzargli in faccia, ma le guance erano comunque rosse e gonfie come se stessero per scoppiare.
− Sono ridicolo, vero? – chiese Arthur, conoscendo già la risposta. Gli sembrava di vivere la scena in Pulp Fiction dove John Travolta e Samuel Lee Jackson furono costretti a indossare nuovi abiti da yankee ritardato, dopo che i loro si erano ricoperti di sangue.
“Cazzoni” era la parola che era stata utilizzata per descriverli e in tal modo si sentiva lui stesso.
− N-no, figurati, stai da... pffffft, non posso, ahahahahahahahahaha! – Alfred cadde letteralmente a terra dalle risate. – Cavoli, sembri un’altra persona! Pari uscito da un telefilm di Disney Channel! Ahahahaha!
− Ottimo, dì pure addio a questa tenuta. – Arthur fece per togliersela ma Alfred lo bloccò, le lacrime agli occhi.
− No, aspetta... non sei ridicolo. Basta farci l’abitudine, sai, come con le scarpe nuove. Sei quasi carino, ora che ti guardo bene. – gli punzecchiò una guancia con l’indice, ricevendo in cambio uno sguardo truce. – Forse se sorridessi, che dici? Sai come si fa a sorridere? Ti do un consiglio, dì “Cheese!”e verrà naturale.
− Toccami un’altra volta e ti toccherò io. Con un calcio. Su una parte del tuo corpo che ti lascio immaginare. Poi vediamo se verrà a te da sorridere.
− Suvvia! – Alfred si allontanò comunque di un saltello all’indietro. – Ti ho detto che sei carino, che vuoi di più?
Arthur sentì l’ira crescere nelle vene, come braci che incendiavano ad una foresta.
− Non insistere, altrimenti il peso piuma qui presente ti stenderà al tappeto in un attimo. Piuttosto, ieri sera sono venuto io e non avevi questa roba addosso. Mi sapresti dire il perché dovrei indossarla io? – notò, con il tono di chi ha messo all’angolo il suo avversario. Ma il bastardo aveva la risposta pronta come suo solito.
− Ieri mi hai colto di sorpresa! Non ho avuto il tempo di cambiarmi. A dire il vero, pensavo di chiudere prima e andare a guardarmi un po’ di tv, ma poi sei arrivato e... beh, ho chiuso praticamente quando sei uscito.
Una delle vene scoppiò sulla fronte dell’inglese, ormai sul punto di non ritorno.
− Comunque di berretti ne ho solo uno, è meglio se lo tieni tu, ok? A me basta il grembiule. E poi diciamocelo, sarei ridicolo con quel coso addosso.
Niente, quel moccioso era davvero insopportabile.
Arthur inspirò a fondo, cercando di ritrovare la calma, di non compiere macelli. La mente cominciò a viaggiare per conto suo nei meandri della memoria, trascinandolo in quesiti che riportavano sempre a quella persona in particolare, come se i tentativi di sopprimere il suo ricordo avessero l’effetto opposto di richiamarlo.
Quand’era stato l’ultima volta che qualcuno gli aveva detto come vestirsi? Chi l’aveva fatto? Il suo nome riecheggiava nel cervello. Shhh, si disse, è tutto nel passato. Un passato in cui lui e la persona in questione non erano certamente in buoni rapporti, ma almeno qualcosa c’era, qualcosa che era andato distrutto quel fatidico giorno.
Si conoscevano fin da bambini, Arthur e Francis. Rivalità innata la loro, Francis che doveva sempre dimostrare di essere il più grande di età ed esperienza: “Fratellone Francis” gli piaceva farsi chiamare nonostante fosse figlio unico, mentre Arthur era il bimbetto che osservava con un pizzico d’invidia quel piccolo straniero, proveniente da un Paese così vicino all’Inghilterra eppure esotico agli occhi di un bambino. Sembrava che Francis non avesse difetti e questo lo urtava da morire. Capelli biondi e setosi, occhi azzurri, tratti delicati, vestiva sempre l’ultima moda; qualche volta, specie durante l’adolescenza, Arthur si era scoperto affascinato suo malgrado di colui che chiamava sprezzantemente “ranocchio”. Francis avrebbe potuto tranquillamente interpretare il Dorian Gray di Oscar Wilde, ma solo per l’apparenza. Non era abbastanza scaltro per imitarne la condotta dissoluta senza venire sgamato.
Arthur invece sì. E questo lo fece sorridere.
− Bene, vedo che sei partito per la tangente e ora non ce l’hai più con me, vero? Bravo Mr K, così mi piaci. Con la testa per aria ma col sorriso sulle labbra – Alfred batté le mani come in un piccolo applauso.
Era davvero deciso a farlo infuriare.
− D’accordo, piccolo impiastro. Ora che abbiamo finito la sfilata di moda, passiamo alle cose serie, ti va? – Arthur gli indicò l’uscita dalla cucina, verso il salone. − Vorrei controllare una cosa, adesso che siamo soci.
− Cose serie? Prevedo già che sarà noioso. – si lagnò Alfred, seguendolo fuori. Arthur aveva riacquistato la sua aura di adulto affidabile e ligio al dovere.
− Lo so, mio caro, ma è una cosa che dobbiamo fare lo stesso. Non ci si può sempre divertire a lavoro!
Era arrivato il momento “della verità”, come l’aveva sempre chiamato il più anziano: in poche parole, l’esame del bilancio; Arthur era curioso di sapere come se la stesse cavando il suo “socio” ad amministrare da solo un intero locale. Per Alfred fu come una doccia fredda.
Si trasferirono su un tavolo del salone. Il registro dove si annotavano entrate e uscite era coperto di polvere, tanto per dimostrare la cura con cui il ragazzo lo teneva e soprattutto quanto gradisse riesumarlo dal suo cassetto. Per lui fu come far esaminare la pagella al genitore e, dall’espressione dell’altro che si faceva via via più scandalizzata, non stava andando affatto bene.
− Ma sei impazzito?! – urlò a un certo punto Arthur, indicando i numeri esorbitanti elencati – Ti rendi conto che spendi centinaia di sterline per carne e ingredienti vari ogni dannata settimana, quando qua i clienti si vedono col binocolo? A che ti serve tutta ‘sta roba? Per non parlare dell’elettricità che consumi per conservarla! Non hai il minimo senso della realtà!
Alfred arrossì, punto nel vivo. Come un bambino di quattro anni, arricciò il labbro e voltò il capo, cercando una spiegazione logica alle sue scelte di consumo. Non trovandone, decise che la colpa era dell’altro: Arthur stava evidentemente vendicandosi per essere stato costretto a indossare quell’orribile divisa, prendendosela quindi con le sue scelte “idiote”. Ma non erano affatto idiote!
– Ho solo un modo di fare diverso dal tuo! Il mio motto è: sempre di più, sempre più grande! – tentò di spiegare, allargando le braccia per descrivere la dimensione immaginaria di un mega-panino.
Arthur sentì la rabbia risalire fino alla testa. Perché doveva essere così stupidamente avventato? Perché prendeva tutto così alla leggera, come se il futuro fosse pronto a regalargli solo rose? Non lo sapeva che il mondo intero si accanisce contro chi non si guarda le spalle, colpendolo quando meno se lo aspetta? Si stava alzando per strozzare quel ragazzino irresponsabile, già gli prudevano le mani, quando un pensiero gli passò per la testa come un lampo, bloccandolo a metà gesto.
E se quella produzione sconsiderata di cibo fosse stata connessa al passato di Al? Chissà, magari aveva avuto un’infanzia difficile in America? Ce n’erano tanti di poveri laggiù, il Paese era enorme. Aveva letto da qualche parte che coloro che avevano un passato di indigenza finivano per riempirsi di cianfrusaglie non appena guadagnavano qualcosina. Una specie di accumulo per i periodi di magra. Forse... forse gli era successo qualcosa di simile. Anche Arthur aveva conosciuto momenti difficili, sapeva cosa si provasse: una sensazione opprimente d’inadeguatezza, promesse non sempre mantenute di risalire la china e non ricadere più. Ebbe un moto di compassione.
− Va bene, fai quanta roba ti pare. Tieni, prendi un po’ di cioccolata. – gli disse, porgendo una tavoletta presa dallo scaffale alle loro spalle. Alfred lo guardò perplesso.
− Che ti prende tutto d’un tratto? Sul serio, non riesco a starti dietro. – mormorò, più confuso che mai. Comunque accettò la cioccolata.
Arthur tornò col naso sul registro, la visiera del berretto che sfiorava le pagine. Era un registro cartaceo, dal momento che tutti i soldi diretti all’Eagle erano spesi o per idiozie o per il cibo, non per attrezzatura tecnologica.
− Ora come ora abbiamo bisogno di denaro, ci sono debiti da saldare. Però non possiamo negare che l’elemento fondamentale per ottenere denaro sia gente che mangi qua,
attualmente assente. Come hai fatto a restare aperto fino ad ora?
Alfred si batté una mano sul petto all’altezza del cuore:− Io sono un eroe! E la gente ha bisogno degli eroi. Diciamo che di tanto in tanto chiedevo una ricompensa materiale quando facevo una buona azione.
− Ma sei una persona orribile.
Alfred scrollò la testa. – Non andavo mica a derubare vecchiette. Chiedevo solamente alle persone che potevano darmi qualcosa, prendere ai ricchi per dare ai poveri, o qualcosa di simile. – si portò un indice alle labbra, pensieroso. − C’era uno in particolare disposto a darmi una mano, in cambio della mia riconoscenza, a detta sua. Un pezzo grosso. Un giudice.
− Un giudice? – Arthur sentì gocce di sudore freddo imperlarsi sulla spina dorsale.
− Già. Un tizio russo un poco strano ma parecchio potente. Come si dice, quando la grana sostituisce la sanità mentale, ahahaha!
− Stai parlando di Braginski?
Alfred smise di ridere. – Lo conosci?
− Fin troppo...
(e lui conosce me, maledizione)
La sensazione viscida che il passato tornasse a braccarlo scivolò lungo la spina dorsale dell’inglese. Tutto torna, come in un enorme cerchio, allo scopo di farti pagare ogni conto insoluto aggiungendovi gli interessi.
− Dimmi, Alfred, il giudice abita ancora a Sno...− Arthur s’interruppe d’un tratto. Una fatina, non più grande dell’unghia del pollice, gli stava svolazzando vicino all’orecchio.
− Ehi! – bisbigliò l’esserino – Sta arrivando qualcuno. Sbrigatevi a mettere via quella roba e accoglietelo, credo sia un cliente.
Arthur non se lo fece ripetere, sotto lo sguardo sbigottito di Alfred. – Che fai? – gli domandò, vedendolo riporre in tutta fretta il registro al suo posto e pulire le tracce di polvere lasciate.
− Cliente in arrivo, prepararsi all’impatto.
− Cos... un cliente? Adesso? Come fai a saperlo, non ho sentito nessuno!
Arthur gli rispose imperturbabile: − Me l’ha appena detto una fatina.
− EEEHHH?!
Inutile perdere tempo con dei miscredenti.
In ogni caso, fatina o meno, anche Alfred recepì presto la presenza di qualcuno che stava per arrivare, una specie d’istinto di predatore. Lo si poteva capire dalla sua improvvisa sollecitudine nel mettere a posto i per fortuna pochi elementi in disordine. La presenza si faceva sempre più forte, come un’aura che rendeva l’atmosfera elettrica, come una musichetta inquietante in un film dell’orrore, come la presenza di detective Conan in un luogo dove ancora non è accaduto alcun omicidio. Sarebbe successo qualcosa, e non qualcosa di bello.
Un minuto dopo, appena il tempo di rimettere a posto il tavolo e le seggiole, un uomo entrò effettivamente nel locale, facendo tintinnare il campanello sulla porta e portando con sé una folata di profumo come se ci avesse fatto il bagno.
− Eccolo, è lui – bisbigliò Alfred, manco avesse davanti a sé Obama. – Sbrigati ad andare in cucina ad accendere i fornelli, io resto qua.
Arthur obbedì e sparì in cucina; Alfred si posizionò dietro il bancone per accogliere lo sconosciuto con il suo entusiasmo innato, nutrito dall’emozione di avere soldi pronti in cassa.
Alto, allampanato, completo da uomo d’affari e un paio di odiosi baffetti sottilissimi sul labbro superiore, lo sconosciuto fece la sua comparsa senza salutare o altro. Oh beh, la mamma diceva che non bisogna mai giudicare dall’aspetto... Raggiunse il bancone con passo di marcia. Alfred esordì con il suo consueto saluto.
− Buongiorno! Come posso servirl...
− Un panino, rapido. – lo interruppe l’uomo, indicando l’ orologio dorato al suo polso. – Ho molto da fare, io. Voglio essere servito subito.
Alfred restò ammutolito per un attimo, raggelato dalla scortesia del cliente.
− Ok, signore – respira profondo, Al, respira profondo – Che cosa desidera?
Il signore lo fissò come se fosse deficiente.
− Non è ovvio? Vorrei un panino. Ѐ o non è un fast food questo?
Alfred si girò e indicò il vasto assortimento di panini alle sue spalle.
− Mi perdoni se glielo ripeto, ma cosa desidera? Un panino con la carne, col pesce, vegetariano, singolo, doppio, col formaggio, con le verdure...? Abbiamo un’ampia scel-
− Ѐ proprio vero che voi giovani siete degli incompetenti. Ѐ ovvio, no? Un hamburger, con l’insalata e il pomodoro!
Respira profondo, Al, respira.
− Vuole anche patatine insieme? – domandò, il sorriso che mostrava i primi segni di cedimento.
− Ѐ ovvio! Come fai a non capirlo? – sputò il tizio, battendo le dita sul bancone come a incitarlo a fare più in fretta. Intanto nella mano destra era spuntato uno smartphone nuovo di pacca, al quale lui diede tutta la sua attenzione digitandogli sopra come un ossesso.
“Ѐ ovvio solo che sei un gran maleducato, ecco cosa” pensò Alfred, prima di procedere.
− Da bere?
Il cliente sbuffò, distratto dal cellulare.
− Voglio una Seltz. Fredda eh, che non me la porti calda e il panino tiepido.
− Una... Seltz? Mi dispiace, signore, ma qui non ne abbiamo.
Cosa diavolo era una Seltz?
− Che manica d’incapaci... – borbottò l’essere. – Manco la Seltz... vabbè dai, portami una Diet Coke. Almeno questa ce l’avrai, no?
“Certo, ho anche l’acido muriatico, che assieme al suo panino s’accompagna che è una meraviglia” pensò Alfred, il sorriso fasullo stampato sulla faccia di cera.
− Ma ceeerto, signore, ce l’abbiamo sì... Porta via o mangia qua?
− Il prezzo cambia?
Alfred avrebbe voluto rispondere “è ovvio!” ma si morse la lingua.
− Leggermente, signore, per via del coperto.
L’uomo storse il naso. Il suo stipendio non avrebbe sicuramente risentito di poche sterline in più o in meno, in ogni caso, ma a quanto pare per lui era una questione di vitale importanza. Ci mise il suo tempo prima di decidersi, dimostrandosi comunque alterato quando rispose: − Porto via. Ora si sbrighi, ho un sacco di lavoro, io!
Detto questo cominciò a mugugnare tra sé e battere il dito sull’orologio. Alfred era indeciso se mettersi a ridere come suo solito o compiere un omicidio, tutto pur di sfogare la collera che sentiva crescere dentro. Come si permetteva a trattarlo come una pezza da piedi, solo perché evidentemente aveva qualche migliaio di sterline in più sul conto corrente? Si mise a compilare lo scontrino, i denti serrati in un ringhio. Non era la prima volta che aveva a che fare con individui simili: quando ancora non conosceva bene il lavoro, li aveva semplicemente mandati a quel paese. Solo negli ultimi tempi si era ravveduto, anche se ormai era troppo tardi. Ora si ritrovava ingabbiato in una cella senza uscita: non poteva rispondere per le rime, o il cliente si sarebbe offeso e addio soldi; d’altro canto non poteva sopportare tutto questo per molto altro tempo ancora, non senza cadere in nevrosi. E poi non aveva voglia di fare brutte figure con Arthur... meglio stringere i denti.
Doveva pensare che quello era il lavoro dei suoi sogni, che presto o tardi si sarebbe fatto le ossa forti, che i clienti così erano delle eccezioni e non la regola. Come quando era piccolo, entrò nel suo mondo interiore e personale, dove lui era una specie di Superman alle prese con il cattivo di turno, fosse esso il bulletto della scuola o l’adulto più straccia coglioni dei dintorni. Si vide non più dietro al bancone del fastfood, ma sulla terra desolata di un lontano pianeta, dove il duello avrebbe avuto luogo senza impicci, tra Alfred e il super cattivo. Doveva vincere. L’universo intero contava su di lui.
− Allora, abbiamo detto: hamburger semplice con insalata e pomodoro, patatine e Diet Coke, tutto d’asporto. – spiegò ad alta voce, mentre digitava gli ultimi tasti . − Sono 8 sterlin...
− E il formaggio filante non lo conti?
Alfred interruppe la sua compilazione: − Uh? Ma allora voleva un cheese-burger?
− Che hamburger è senza formaggio filante? Sei un tale incapace da non conoscere neppure una cosa tanto elementare! Che diamine, spero ti licenzino!– strillò l’uomo, agitando le mani per aria con quel suo fare spocchioso.
Il ragazzo prese un profondo respiro, cercando di mandare giù il groppo amaro che sentiva in gola. Non poteva cedere. Lui era l’eroe. Gli eroi non fuggono mai davanti al nemico. Alfred aveva i poteri per sconfiggere chiunque l’avesse sfidato, per poi riportare la pace sul pianeta; in quello scontro, però, tra Super Al e Mr Ugly Moustache, era quest’ultimo ad avere la meglio. Era come se l’intero locale avesse le pareti ricoperte da kriptonite e ora il paladino fosse in ginocchio, mentre l’altro rideva sguaiatamente. Quella battaglia l’avrebbe vinta il cattivo? Era la fine, doveva arrendersi? Che fare per non esplodere? Il suo orgoglio pretendeva giustizia!
Alfred alzò gli occhi al cielo ed esclamò con tono drammatico: − Aiutami, Obi-One Kenobi, sei la mia unica speranza!
− Lascia perdere Star Wars, ci sono qua io per te.
Alfred si girò: come illuminato da una luce soprannaturale, il suo alleato Arthur era lì, al suo fianco, sorriso sicuro sulle labbra e divisa ridicola addosso. Al lo fissò come se fosse giunto direttamente dal cielo per aiutarlo nel far trionfare il bene. Gli occhi cominciarono addirittura a luccicargli. – Mr K... sei arrivato...
 – Vai in cucina, al signor cliente ci penso io. – disse l’inglese, prendendo il suo posto dietro al bancone. Di nascosto gli fece l’occhiolino.
− Arthur... grazie. – Alfred era quasi commosso. Si rinchiuse in cucina senza voltarsi indietro, mentre l’altro si apprestava ad affrontare Darth Vader...pardon, il signor cliente.
− Prego, signore, diceva? Un cheese-burger, patatine e lattina. Sono 10 sterline e quaranta. – ripeté, un sorrisetto falso sulle labbra.
− Non cheese-burger, hamburger normale col formaggio filante. – lo corresse Mr Ugly Moustache.
− Sempre 10 sterline e quaranta sono, signore.
Ugly Moustache sbuffò e tirò fuori una banconota. – Il suo collega è davvero inetto. – borbottò. – Quanto ci mette ora per fare uno stupido panino? Ho fretta.
− Un famoso scienziato, tale Albert Einstein disse che il tempo è relativo. – commentò Arthur con la consueta calma, − Disse anche che l’universo e la stupidità umana sono infiniti, ma non era sicuro del primo.
L’altro non sembrò cogliere la provocazione e proseguì con la sua lagna: − Che poi, perché non c’è nessuno qui? Sono l’unico cliente. Magari il cibo fa schifo?
Arthur ghignò, mantenendo però un tono estremamente cortese: − Oh, ma in realtà questo è un locale molto esclusivo, invisibile ai vili babbani. In questo mondo privo della magia è sempre più difficile trovare clienti degni, deve esserne onorato. A questo proposito, però devo avvisarla che non serviamo burrobirra, essendo il titolare contrario alla vendita di alcolici, ma disponiamo di molte altre bibite dissetanti.
Stavolta il cliente sbuffò come un toro infastidito. Ovviamente aveva capito si è no un decimo del discorso di Kirkland. − Non dica stupidaggini. Sul serio, quel tizio ci sta mettendo un secolo. Io ho fretta!
Arthur sospirò, ormai stanco di quella nenia incessante. Disse: − Avevamo a disposizione dei clienti più frettolosi una Giratempo, in modo che potessero gustare il loro pranzo il prima possibile. Poi però ci fu un incidente e uno di loro finì intrappolato nel Paleozoico, e da quel giorno abbiamo restituito lo strumento ad Hogwarts. Figuri che non ci ha neppure pagato il conto!
Le guance del cliente erano diventate livide. Bum, i buoni stavano riguadagnando terreno! Il cattivo non si aspettava che l’eroe avesse un compagno pronto a dargli man forte, men che meno con armi così subdole dalle quali era difficilissimo contrattaccare. Ringhiò: − Come si permette! Lei è malvagio!
− Prego?
− Malvagio! Quando uno non si comporta bene è malvagio!
Ma vedi te il colmo, ora era Arthur il “malvagio”. Era quasi divertente come cosa.
L’inglese aggrottò la fronte, perplesso: − Voleva forse dire “maleducato”? Ma se stiamo cercando di servirla con il massimo riguardo che un signore come lei merita!
− Ѐ lo stesso! Io sono cliente e pretendo rispetto.
Arthur annuì, trovandosi finalmente d’accordo. – Cosa buona e giusta, pretendere rispetto. Bisogna anche esserne degno, però.
− E allora?
− Allora cosa?
− Allora dove diavolo è il mio panino?! – sbraitò il cliente, con ormai la bava alla bocca: ci mancava poco che si trasformasse in licantropo. Alla buon’ora Alfred sbucò dalla cucina, hamburger e patatine ancora sfrigolanti alla mano. Fece una corsetta esasperatamente lenta verso il bancone, come se stesse saltando su braci ardenti, irritando ulteriormente l’uomo.
− Ecco a lei signore. Buon appetito. – disse, porgendogli finalmente il cibo. Trattenne a stento una risata, non riuscendo però a nascondere le labbra che tremavano.
L’essere afferrò brusco i pacchetti, paonazzo. − Vi metterò un pallino solo su TripAdvisor! – urlò − Dirò a tutti quanti che siete maleducati! Vedrete!
E il rompiscatole finalmente scomparve indispettito col suo pranzo, ancora acciaccato dai colpi dei buoni, giurando vendetta col volto nascosto nel suo ipotetico mantello nero. L’unione aveva fatto la forza. Alfred e Arthur lo guardarono uscire, lasciando andare un sospiro di sollievo quando l’ingresso si chiuse dietro di lui. Era fatta. Avevano vinto loro.
Geez, nel mio Paese un essere simile l’avrebbe spedito in una di quelle graziose case con le stanze imbottite e gentili uomini in camice bianco. Odio gli inglesi – dichiarò Alfred, e aggiunse lesto rivolto ad Arthur, una manata amichevole sulla spalla – ma forse, e ripeto forse!, per te potrei farla un’eccezione!
L’altro si grattò la nuca, a disagio per quell’improvviso complimento. La mano di Alfred rilasciava un piacevole tepore che si propagò fino al petto, riempiendolo di gioia.
− Ti ringrazio, però vorrei specificare che quel tizio non fosse inglese. – specificò, le gote tinte di rosa nel cercare di sottrarsi allo sguardo dell’altro − Non sapeva parlare bene, inoltre noi saremmo anche snob ma il “per favore” e il “grazie” perlomeno li utilizziamo. Sarà uno dei tanti che vengono qui per affari. Aveva un accento bizzarro, non trovi?
− Chissà, comunque volevo farti i complimenti.
Arthur arrossì ulteriormente, il piacevole calore scese e gli riempì la pancia. – Per cosa?
− Se fossi rimasto lì per altri dieci secondi a sentirlo berciare, sarei esploso come una bomba. L’avrei ricoperto d’insulti che nemmeno immagini! Ma sei arrivato in tempo tu e, non usando neanche una parolaccia, l’hai rimesso al suo posto e lui non ha avuto niente con cui replicare. L’hai blastato come un tornado! Sei stato un mito!
Arthur agitò la mano davanti al volto, come se non sentisse di meritare tale elogio.
− Si chiama sarcasmo, amico mio, e non ho neppure utilizzato tutto il mio potere.
Alfred rise, passandogli un braccio attorno alle spalle in confidenza. − Senti un po’, Freezer, che dici se restassi tu la prossima volta al banco? Ci sai fare coi clienti difficili.
Arthur s’irrigidì. Non pensava di potersi rapportare con le persone, avendo passato anni e anni da solo. La prospettiva gli metteva paura.
− Non serve che tu sia latte e miele con tutti, anzi, suoneresti falso. Devi capire che una lingua pungente ormai attrae anche più di una che lecca fondoschiena, basta che tu sappia utilizzarla come si deve, e soprattutto solo con chi se lo merita. E cavoli se lo sai fare! – osservò Alfred. Beh, specificare che Kirkland non dovesse essere sdolcinato era come ordinare un bicchiere d’acqua e chiarire di volerla umida. Arthur, però, sembrava a disagio.
− Ma io... e se combinassi qualche guaio? Non sarebbe meglio che lavorassi in cucina?
− Ugh! – Alfred incrociò le braccia, terrorizzato all’idea, – Fidati, stai meglio qua. E poi, sono io l’esperto di fast-food, no?
− “Fast” un corno, il rompiballe ha sbraitato tutto il tempo che aveva fretta e tu non uscivi!
Eccolo, l’alleato cominciava a rompere a sua volta. Oh beh, ne valeva la pena, viste le sue capacità dialettali dimostratesi molto utili.
− Vuoi controllare l’ora? Ci ho messo cinque minuti d’orologio, e solo perché l’olio non era abbastanza caldo per le patatine! Se lui aveva “tanta fretta” perché non è andato in una catena famosa? Oh, aspetta – e prese il cellulare da sotto il bancone. Arthur lo guardò incuriosito.
− Che fai? – domandò.
− Voglio vedere se ha lasciato veramente la recensione su TripAdvisor. Eccolo! – esultò. La recensione riportava:
“ - MALVAGI! –
Partendo col fatto l’arredamento fa venire l’epilessia, ma non importa perché è una cosa da giovani, almeno penso. Sono stato “accolto” da un ragazzino con una gentilezza falsissima, smascherata dopo pochissimo. Alla faccia dell’onestà! Dopo un po’ è arrivato un tipo che sembrava handicappato mentale che lo ha sostituito. Il tutto solo per consegnarmi un panino, una bibita e delle patatine!
 Non sanno prendere decentemente le ordinazioni, sono lenti (ben DIECI minuti ho dovuto aspettare! Quando ho esplicitamente detto che ero di fretta!), e soprattutto molto MALVAGI: quello più vecchio e dall’aria stupida mi ha deriso, approfittando di alcune mie lacune nella lingua del posto per insultare la mia persona atteggiandosi da presuntuoso. Il cibo era decente, se non altro, ma vorrei aggiungere che non hanno la Seltz.
Ridicoli.
Restarono a fissare la scritta per un po’, prima di mettersi a gridare contemporaneamente.
− Un tipo che sembra handicappato?! Si riferiva a me?
− Che significa non sanno prendere le ordinazioni? Ho fatto il possibile ma non sono un chiaroveggente!
− Ma soprattutto... “malvagi”?
Si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere in simultanea.
− Effettivamente, Arthur, un po’ tocco lo sembri con quel cappellino schiacciato sulla fronte e i mega sopracciglioni che spuntano sotto la visiera.
− Colpa tua, sei tu che hai insistito che lo mettessi. Come diceva il nostro amico, “è ovvio!” che sembro un idiota. E poi, chi dice che non si riferisse a te?!
− Ok, ok, non ti scaldare. L’arredamento da “gggiovani” la dice lunga sui suoi gusti estetici. Ma il “malvagi” qua? Scritto addirittura in maiuscolo?
Era davvero scritto “Evil”, malvagio, al posto di “Rude”, maleducato.
− Te l’ho detto che non sapeva parlare – disse Arthur, − Guarda il suo nome: “M. Galbani”. Un italiano. Me li ricordavo più cordiali, i mangia pasta a tradimento, ma evidentemente i rompiballe non hanno nazionalità.
Ma non era la provenienza del baffetto o le elucubrazioni antropologiche di Arthur  che interessavano ad Alfred. I suoi occhi brillavano.
− Mr K – mormorò – che ne dici di passare alla parte oscura?
− Eh?
− Accontentare questo essere e diventare effettivamente “malvagio”! Sarebbe una pubblicità perfetta per il locale: le persone adorano lo scontro bene/male. Io mi sono sempre reputato uno dei buoni, ma tu... tu potresti essere il cattivo! – Alfred batté le mani come un bambino eccitato. Sembrava avesse appena trovato la soluzione a tutti i loro problemi.
− Ma che idiozie vai cianciando? E poi, io non dovevo essere la spalla? – obiettò Arthur, dubbioso. Il suo sesto senso urlava che non ci sarebbe stato nulla di buono in quella scelta.
− Beh, puoi essere entrambi, no? Ѐ come in un fumetto – lo sguardo di Alfred si fece sognante – Il cattivo redento, tu, si mette dalla parte dei buoni e diventa l’aiutante del supereroe, ovvero il sottoscritto. Ogni tanto, però, la parte oscura cerca di riemergere... che figata! – batté nuovamente le mani. – Il terribile chef che un anno fa fece tanto scalpore per aver aggredito il critico culinario, torna ora a lavorare nello stesso posto al fianco di un giovane intraprendente self-made man americano! Sembra davvero cambiato, ma il suo sarcasmo pungente sembra dire il contrario! E se un giorno tornasse sulla brutta strada? Se volete sapere cosa succederà venite a mangiare un hamburger al “The Eagle” in Fleet Street!
Arthur rabbrividì. La situazione era più simile alla realtà di quanto quel marmocchio immaginasse, salvo il fatto che lui non era affatto “redento” e la parte oscura era già bella pronta all’uso, altro che soppressa in fondo all’animo. Ma finché lui non sospettava nulla, era al sicuro. Un po’ come per Toris... a proposito come sarebbe andato il suo colloquio?
Ebbe una stretta al cuore. Un presentimento, la sensazione che qualcosa sarebbe successo.
Sì, ma cosa?
 
*  *  *
 
− Tu resta qui e aspettalo – gli aveva detto Natalia, abbandonandolo nell’immenso studio. E così Toris ora si trovava solo in quella stanza, di nuovo preda del nervosismo. “Sta calmo” si ripeté sottovoce. Per rilassarsi cominciò a guardarsi in giro.
Lo studio era molto più bello dell’ingresso, più accogliente, più caldo. Non solo in termini di atmosfera, ma anche di temperatura: dovevano esserci almeno 25 gradi lì. Le pareti erano di un tenue color lilla, occupate per la maggior parte da una gigantesca libreria. Nella parte opposta della stanza rispetto a dove si trovava lui, un orologio a pendolo scandiva i secondi.
Clic-cloc-clic-cloc. Il pendolo si muoveva con una lentezza estenuante, rilasciando riflessi dorati dalla sua superficie in ottone. Dava una certa tensione e Toris preferì voltare lo sguardo. A sinistra c’era una finestra che dava sul parco, da cui la luce dei lampi ogni tanto illuminava la stanza. Vicino all’orologio era posizionata una cassetta piena di bottiglie di vetro, contenenti tutte un liquido trasparente: le targhe che le ricoprivano suggerivano si trattasse di liquori di buona marca. Al centro lo spazio era riempito da un tavolo in noce, ricoperto da svariati fascicoli e documenti e al centro di esso faceva la sua bella figura un vaso contenente girasoli. Sembrava che il vaso stesso fosse più importante dei documenti, dal momento che, a differenza di essi, occupava proprio il centro del tavolo in modo che fosse impossibile non vederlo. Chissà, forse era stata proprio Natalia a posizionarlo lì, dando il tocco femminile alla stanza? Toris sorrise al pensiero. Accanto al tavolo c’era una sedia rossa dallo schienale alto e imbottito, con i braccioli anch’essi rossi. Sembrava vecchiotta, infatti era leggermente scolorita ma aveva il fascino del “vintage”.
La tentazione sarebbe stata quella di sedercisi sopra, invece Toris si avvicinò alla libreria, affascinato dalla quantità dei volumi. Erano probabilmente tutti riguardanti Diritto e Legge.
Ne estrasse un paio a caso e ne lesse i titoli.
Voglia di ammazzare. Analisi di una pulsione
Storia della tortura
Il respiro gli morì in gola. Ma che diavolo era quella roba? Sfogliò le pagine del primo libro: sembrava un trattato di psichiatria criminale. Parlava della figura dell’assassino in maniera pratica, razionale, riportando eventi storici e spiegazioni dei vari comportamenti. Niente di preoccupante, insomma, forse l’argomento era un po’ controverso ma non era quello che gli raggelò il sangue: le pagine del libro avevano un odore particolare. Ricordavano a Toris la festa per i suoi diciotto anni, in cui lui e amici si erano scolati della...
− Vodka. – mormorò. Sì, qualcuno, presumibilmente il giudice Braginski, aveva letto quel libro più e più volte bevendo vodka. Il pensiero che, sotto gli effetti dell’alcol, avesse travisato quelle parole, specialmente gli spezzoni tratti da fatti accaduti realmente, bussò alla porta del suo cervello, ma non fece capolino del tutto. Era qualcosa che lo spaventava in un modo che non riusciva a spiegare. Rimise il primo libro al suo posto.
Il secondo libro fu peggiore, non solo per l’argomento, ma anche perché l’odore della vodka impregnato nella carta era più forte e soprattutto perché alcune parti erano sottolineate.
In quel volume, “Storia della tortura”, non c’era altrettanta spiegazione razionale del fenomeno, che se nell’altro libro aveva funzionato come scongiuro, qui veniva riassunta alla cultura del tempo. Medioevo, periodo buio, senza cultura, assediato dalla paura dell’invisibile... ma non finiva lì. Negli ultimi capitoli si chiariva la tortura svolta nei “tempi moderni” durante la guerra e nei periodi di pace, da associazioni come i servizi segreti finanziati dal governo. Erano soprattutto queste le pagine sottolineate a matita o a pennarello. E poi i disegni degli strumenti di tortura, marchingegni creati per far soffrire il più possibile la gente, che illustravano senza riguardi come quelle diavolerie, una volta, esistessero davvero e ci fosse gente che li utilizzasse. Magari con un certo gusto.
BASTA.
Toris mise via anche il secondo volume, il respiro azzerato per quello che aveva appena letto, cercando di ricordare a sé stesso che erano soltanto libri, libri, libri... e i libri sono oggetti innocui, privi di vita e del potere di toglierla. Erano come i fantasmi. Come aveva detto ad Arthur la prima sera? Ah sì. “La realtà è quello che è e appare. I mostri, i fantasmi non fanno parte della realtà, non possono farti del male.” L’aveva detto più che altro per negare alla parte razionale del suo cervello che aveva sentito qualcosa, lì fuori dalla casa, e non era un trucco da quattro soldi comprato per spaventare dei mocciosi.
Lo stesso stava accadendo ora. Sentiva qualcosa. Solo che stavolta era una sensazione molto più animale, che mai avrebbe associato al paranormale ma piuttosto all’istinto primordiale. L’intera stanza sembrava essere impregnata di un’aura inquietante, di cui solo ora si rendeva conto dato che prima era troppo intontito dal fascino di Natalia. Cercò di scrollarsi di dosso quell’impressione e ci riuscì: erano tutte superstizioni, paure inutili, le sue.
– Salve. – disse una voce alle sue spalle.
Toris sobbalzò, sentendo il cuore che saltava un battito per lo spavento. Si girò.
Davanti a lui stava un uomo alto, ampio come un armadio, talmente grosso che lo oscurava con la sua ombra. Sorrideva. – Salve – ripeté.
− Buon... buongiorno signor... Mr Braginski?
Il grosso uomo amplificò ulteriormente il suo sorriso e annuì. – Tu devi essere Toris. Perdona il mio ritardo, spero che mia sorella non ti abbia dato fastidio durante l’attesa, diventa particolarmente seccante quando ci sono visite.
− Oh no, assolutamente!
Braginski annuì nuovamente e indicò la poltrona davanti al tavolino. – Siediti, che facciamo quattro chiacchiere. – disse, la voce incredibilmente vellutata per uno della sua stazza.
Toris obbedì, mentre l’altro restò in piedi davanti alla libreria.
− Vedo che hai notato i miei libri.
− Sissignore.
Braginski sfiorò le copertine, fino ad arrivare ai volumi che Toris aveva rimesso al loro posto. Fece una piccola smorfia, accorgendosi che erano stati manipolati.
− Ti piace leggere, Toris?
Toris annuì. – Sì, signore. Sono uno studente, tra poco inizierò anche l’università.
− Sì, l’avevi scritto nella tua e-mail. – ricominciò ad accarezzare i libri – Studente... però non sei del luogo, giusto? Non sei inglese.
− No, signore, provengo dalla Lituania.
− Oh, ma allora siamo vicini di casa! Io sono nato in Russia. Dunque, tu sei uno straniero quaggiù... piccolo e sperduto in una grande città come Londra... senza lavoro, senza denaro...− Si allontanò dalla libreria, verso una piccola cassetta contenente bottiglie. – Ce l’hai almeno un alloggio per studenti?
− Vivo in affitto, signore, qua vicino.
− Quindi hai bisogno di soldi per pagare dove stare. – estrasse una bottiglia contenente un liquido trasparente. Vodka. Vicino alla cassetta c’era un armadietto e da quello prese un grosso bicchiere che riempì a tre quarti. – Ti va di lavorare per me, Toris?
Toris lo guardò tracannare d’un fiato il liquore come se fosse stata acqua. Annuì, perplesso.
− Te la cavi con i lavori di casa? Saresti in grado di organizzare dei documenti, se dovessi farlo? – domandò Braginski, girando tra le dita il bicchiere vuoto, come se meravigliato di quanto fosse stato veloce a scivolare nella sua gola.
− Penso di sì, in ogni caso sono veloce nell’imparare. Nelle faccende domestiche sono molto bravo, lo può confermare anche il mio ospite.
Il giudice sorrise, versandosi un altro bicchiere. Aveva i capelli argentati ma nessuna ruga, il viso adulto ma paffuto; la sua età era indecifrabile. Sopra a un maglione grigio scuro portava una lunga sciarpa bianca, nonostante nella stanza facesse già caldo.
− Chi è che ti ospita, a proposito? – chiese.
− Il signor Arthur Kirkland, signore.
Lo sguardo di Ivan s’illuminò come se un lampo l’avesse attraversato. – Arthur è tornato a Londra?
− Lo conosce, signore?
− Eccome! – Ivan scoppiò a ridere. Non sapeva il perché, ma a Toris quella risata mise i brividi. – Questo semplifica molto le cose.
− In che modo, signore?
Ma Braginski non gli rispose. Si posizionò davanti alla sedia dove aveva fatto sedere Toris, sorridendo mellifluo, le braccia incrociate dietro la schiena.  − Bene, ragazzo, allora ti spiego un po’: dovrai fare le pulizie di casa, farmi da segretario, tenere in ordine i miei documenti, diventare mio amico e giurarmi eterna fedeltà. Chiaro? – il sorriso s’ingrandì, amplificando anche i suoi occhi viola – Ogni giorno ripeterai che io sono il tuo migliore amico e non potresti avere nessuno al tuo fianco migliore di me −. Mentre parlava il suo volto si era fatto sempre più allegro. C’era da chiedersi se fosse merito della vodka, che fosse così felice e dicesse simili cose. Toris decise che era questo il motivo. Ivan non poteva essere serio.
− D’accordo, signore – disse, ridacchiando perché se quello era uno scherzo era abbastanza divertente – ma l’orario?
− Tempo pieno, devi essere disponibile in qualsiasi momento.
− Tempo... tempo pieno? Che intende?
− 24 ore su 24, sette giorni su sette, è ovvio – rispose l’altro, il sorriso che non abbandonava mai le sue labbra. Toris sentì la pelle accapponarsi quando un pensiero terribile gli passò per la testa: e se non stesse scherzando? Ma vaaa.
− Ma signore – la risatina si fece più forzata – come potrei? Io devo studiare all’università...
− Puoi tornare qui non appena i corsi sono terminati, ma dovresti fare attenzione a non tardare, altrimenti mi arrabbio e ti spezzo le ossa. Ho contatti tra i rettori, non puoi imbrogliarmi. Ah, non ti farei pagare nulla per cibo e alloggio, basta che tu resti qui a lavorare per me...
− Signore! – stavolta il suo fu quasi un urlo – Vorrebbe dire che dovrei venire a vivere qui?
Il giudice attenuò il suo sorriso, senza farlo sparire del tutto. – L’hai capito, finalmente.
Toris si sentì come Cappuccetto Rosso quando scopre che la cara nonnina ha qualcosa di strano. Ma lui l’aveva scoperto in tempo, non si sarebbe fatto divorare dal lupo anche se in questo momento aveva ancora le vesti di una vecchina. Giusto? O era solo paranoia la sua? Cavoli, non riusciva a capire se quell’uomo fosse serio o no, neppure adesso. Decise che la strategia migliore era far finta di nulla, continuare ad essere gentile.
− Senta, signor Braginski... – il panico nascente rendeva il solo parlare doloroso come se avesse una lametta incastrata in gola; ma Braginski non aveva troppa intenzione di ascoltarlo, comunque. Continuò come se nulla fosse con quel discorso privo di logica.
− Tranquillo, se si tratta di Kirkland ci parlo io; ha qualche piccolo conto in sospeso con me, non so se capisci. Potresti trasferirti da me a partire da domani, non sarebbe meraviglioso?
No, decisamente non poteva continuare a lungo a fingere di stare al gioco. La situazione si stava facendo inquietante e il giudice non sembrava scherzare, non l’aveva mai fatto da quando era entrato in quella dannata stanza. Toris ricordò con un brivido i libri puzzolenti di vodka e il suo sguardo cadde sulla bottiglia già mezza vuota sul tavolo. Quell’uomo aveva ingerito una quantità enorme di alcol, ma restava comunque lucido, era follia cosciente la sua. Ivan si allontanò di un passo. Era il momento di chiarirsi, altrimenti dopo sarebbe stato troppo tardi.
− Mr Braginski... io le devo dire una cosa. – sputò a fatica Toris. Un lampo illuminò la stanza, incendiando l’ambiente con una fiamma bianca.
− Sì, caro? Vado a prendere il contratto, così lo firmi e inizi a lavorare da me. – Ivan si stava dirigendo verso un fascicolo di documenti posizionato dall’altra parte del tavolino.
− Ѐ proprio questo il problema. Io... non credo di essere adatto per lavorare con lei.
Il tuono risuonò come un colpo di fucile, come per sottolineare le sue parole. I movimenti di Ivan si congelarono sul momento. Aveva il foglio in una mano e nell’altra una stilografica nera, ed era girato di spalle rispetto a Toris che quindi non riusciva a vedere la sua espressione. Posò entrambi gli oggetti e girò lentamente la testa.
− Come hai detto? – domandò. Il sorriso non era mutato ma le sue iridi brillavano come se il lampo di prima vi fosse rimasto intrappolato.
− Ho... ho detto che non credo di poter accettare questo lavoro. Mi dispiace.
Toris aveva deciso che non avrebbe accettato neanche se le premesse fossero state eccellenti. Quell’uomo gli metteva paura. Seriamente paura. Anche se non voleva ammetterlo, era terrorizzato.
Con quella frase pensò di essersi messo a posto, ma si sbagliava. Ivan non sorrideva più.
Come hai detto? – ripeté il giudice. Non era una domanda, o almeno non suonava come tale: gli stava dando l’occasione di rimangiarsi quello che aveva appena detto, ecco cosa.
− Mi ha sentito. Non me lo faccia ridire un’altra volta. – Toris non aveva idea da dove venisse questa sfacciataggine, né se avrebbe risolto o aggravato la situazione. Sapeva solo che aveva urgenza di andarsene, come se la stanza avesse cominciato a farsi crescere invisibili zanne con il quale sbranarlo.
− E così vorresti rifiutare un lavoro con il quale staresti sicuro fino alla fine della tua permanenza quaggiù? – Braginski scrollò la testa deluso, le dita stropicciarono leggermente i documenti che aveva in mano. – Pensavo che avremmo risolto la faccenda in pochi minuti. Perché vuoi complicare le cose?
− Ho cambiato idea, signore, ecco tutto.
Un altro lampo illuminò il volto di Ivan. Toris urlò. Il suo sorriso era ridotto a una sottilissima curva simbolica, gli occhi immensi lo squadravano con una luce malsana. Omicida.
Si avvicinò alla sedia rossa dove Toris era ancora seduto: non riuscendo a muovere un solo muscolo, non si era mai neppure alzato e ora lo fissava terrorizzato incombere su di lui. Attorno ad Ivan si era formata un’aura violacea fatta di elettricità e qualcos’altro. Non riuscì a domandarsi cosa diavolo fosse perché le mani di Ivan si strinsero sui braccioli della poltrona, imprigionandolo. Il volto dell’uomo si accostò talmente vicino a quello di Toris che per poco non si sfiorarono. Il contatto occhio-occhio era inevitabile. Il fiato di Ivan cadeva sulle labbra e sulle narici di Toris, sapeva di marcio. Giudice, perché hai una bocca così grande? Per mangiarti meglio, bambino caro!
− Tu non puoi cambiare idea così, Toris – sibilò l’uomo, lama di rasoio nascosta dal velluto − Hai idea di quanto possa essere dura la vita a Londra per un moscerino come te? Hai bisogno di pararti le spalle, altrimenti i pesci grossi ti mangeranno. Io lo so, finché non diventi grande e potente nessuno ha pietà di te, cercheranno tutti di sfruttarti, di metterti al muro. Sarai solo davanti a uno stuolo di esseri famelici pronti a tutto –. Il volume della sua voce crebbe fino a superare i tuoni all'esterno, il miele di prima era andato a male. – Devi credermi, fa freddo qua fuori. C’è la neve che sovrasta e ghiaccia tutto, anche il tuo cuore. E allora tornerai, tornerai strisciando, non c’è nessuno che abbia compassione quando non sei che un verme indifeso.
Toris lo fissò negli occhi, all’improvviso una scintilla di coraggio lo infiammò.− No! – urlò.
Ivan sussultò, allontanandosi leggermente. Le mani lasciarono i braccioli, rimasero sospese a mezz’aria.
– No! Perché mi dice queste cose? Proprio lei, che dovrebbe essere testimone vivente della giustizia! E la giustizia insegna che non importa se sei pesce grande o piccolo, hai lo stesso valore di qualunque altro!
Ivan scoppiò a ridere, una risata sguaiata. − Cavoli, quanto sei ingenuo! – disse, appena si fu calmato. Lo sguardo si era fatto spento, malinconico. Gli occhi erano lucidi. Sospirò. – Sono tutte stupidaggini che ti propinano quando sei marmocchio. Quanti anni hai? Diciannove, giusto? Non hai ancora imparato che questo mondo si basa sulla menzogna? Crediamo di sapere tante cose, noi, crediamo nell’esistenza della bontà del prossimo, mentre invece quello pensa solo a metterci in trappola come topolini. Il nostro cuore batte forte mentre lottiamo per liberarci, ma non si può. Siamo topolini con la schiena spezzata. Anche se sopravvivessimo, la nostra vita è pressoché inutile, perciò perché non arrendersi all’evidenza e basta? I deboli muoiono, non c’è alternativa, e perciò metterti al fianco di qualcuno che da “debole” è divenuto “forte”, dannatamente forte!, è la tua unica chance. Non sprecarla così.
Toris ingoiò un grumo di bile; stava per vomitare letteralmente il panico. Con uno sforzo incredibile riuscì a bofonchiare: − Si sbaglia, Mr Braginski! Io lo so!
Il rimasuglio di sorriso sul volto dell’uomo scomparve definitivamente, insieme a ogni dolcezza nella sua voce. Toris trattenne un grido di dolore quando le sue forti mani gli si strinsero sulle braccia, appena sotto le spalle, forti come tenaglie.
− Lo sai? Allora spiegami perché un piccolo, spocchioso inglese che è tornato quaggiù dopo aver quasi strangolato un altro uomo, rischiando per un pelo la galera per tentato omicidio, ha voluto ospitarti in casa sua! Credi forse che l’abbia fatto per il suo buon cuore? Spiegami perché la sua casa è avvolta dal mistero! Spiegami perché – e qua fece una risatina – c’è un posto in quella casa in cui non vuole assolutamente che tu vada! Perché c’è un posto simile, no? Il lupo perde il pelo ma non il vizio. – Scosse la testa, in un’espressione di completo disgusto, come se lui stesso non riuscisse a credere alla situazione. − Arthur rimarrà sempre un tale figlio di puttana che in confronto Barbablù e la stanza con le mogli assassinate è un marito devoto! Ma in ogni caso, chi è il pazzoide della situazione? Io, sempre io! E perché? Perché voglio un amico!
Ivan delirava. Aveva finalmente lasciato la presa su Toris, che stava già pensando al momento in cui i muscoli sarebbero esplosi sotto la sua forza, e ora muoveva l’immenso corpo come preso da una scossa elettrica, stagliandosi contro la luce del lampadario, dei lampi, gettando ombre da incubo sulle pareti circostanti. Sembrava stesse avendo un esaurimento nervoso. Berciava in russo rivolto al soffitto, al cielo, all’inferno, discorsi senza senso sbraitati con una furia tale che li rendevano intraducibili. Toris restò immobilizzato dal terrore sulla poltrona, sprofondato come se volesse nascondersi nel velluto rosso (rosso sangue) mentre il gigante ululava teorie distopiche sulla natura dell’essere umano.
Scappa disse a un tratto la parte razionale del suo cervello. Scappa, finché è preso da qust’attacco di psicosi, scappa, non vedi che la tempesta si sta già placando? E quando tornerà in sé per te non ci sarà scampo, ti ucciderà perché hai offeso il suo orgoglio.
E allora con uno scatto che non credeva possibile dal suo corpo, non in quelle condizioni almeno, Toris si alzò e fuggì.
 
Quel posto era un dannato labirinto.
Toris guardò le svariate porte distribuite nel corridoio, il primo in cui si era infilato non appena era uscito. Dove doveva andare? Non ricordava nulla del percorso fatto con Natalia.
Spinse una porta a caso, entrando e chiudendola con uno scatto secco.
− Diamine – imprecò disperato. Un altro corridoio. Si mise a correre, il cuore che minacciava di saltare fuori dalla gola, il fianco sinistro che cominciava a dolere. Le braccia, porca miseria, quelle sì che facevano male, ma non aveva tempo per pensarci. Aveva paura, una paura fottuta. Continuò a correre, finché non trovo un’altra porta chiusa. Bloccata.
− Merda! – urlò. Non c’erano altre porte. Dovette tornare al primo corridoio, con la sensazione pungente di trovare Braginski proprio là, con i suoi occhi viola e la sciarpa che avvolgeva il suo collo come un serpente addormentato. Invece no.
Avrebbe voluto mettersi a piangere, fingere che quello fosse un incubo e che presto si sarebbe svegliato guardando l’orologio e avrebbe scoperto che era in ritardo per il colloquio di lavoro, avrebbe voluto che fosse tutto uno scherzo. Oh, come sarebbe stato bello!
Stavolta prese la penultima porta, chiudendosela alle spalle. Era immerso nel buio, l’unica luce fioca proveniva da una finestra sul fondo. Tastò alla ricerca di un interruttore, protendendo le dita tremanti contro le pareti fredde della stanza. Mani invisibili si posarono sulle sue. Toris urlò, mentre le dita venivano schiacciate, stritolate, spezzate.
− Zitto, cretino – disse una voce familiare.
− Cosa... Natalia?!
La ragazza strinse la presa, facendolo gemere nuovamente. – Ti ho detto di star zitto, sei sordo? – bisbigliò incollerita.
− Ma... ma come...
− Il temporale ha fatto saltare la lampadina, è inutile che tenti di accendere la luce. Questa è la mia camera da letto.
− Oh... – Toris arrossì, al pensiero di loro due da soli proprio lì, ma il pensiero così dolce fu sostituito da una nuova ondata di dolore.
− Ho sentito mio fratello urlare fin da qua. Che diavolo è successo? – sibilò lei, senza allentare la presa.
− Mi dispiace, ma non voglio lavorare per lui! Non posso! Gliel’ho detto e lui è come impazzito e ora mi starà dando la caccia per la casa, oddio, ho paura! – la voce gli usciva acuta come quella di un bambino ma non era il momento di vergognarsene, neppure adesso che la ragazza lo stava fissando schifata.
− Puoi scommetterci che non puoi lavorare per lui, razza d’idiota. Non so come ti sia venuta in mente una cosa così stupida come il fratellone che insegua un moccioso come te, come se valessi la pena di sprecare il suo tempo! – ruggì Natalia, finendo la frase stringendo ulteriormente come a dare conferma delle sue parole. Il dolore scacciava il terrore.
In effetti aveva ragione, pensò Toris tornando lucido. Era tutta paranoia, mania di persecuzione. Ivan ora si stava sicuramente domandando perché quel ragazzino fosse fuggito in quel modo, senza un motivo valido tranne un paio di libri al profumo di vodka e un piccolo scatto d’ira da parte sua. Non era forse “disposto a tutto” pur di avere un lavoro e uno stipendio? E allora perché si comportava così? Schizzinoso!
− Cielo, mi sono comportato da idiota – sussurrò. Improvvisamente i suoi occhi abituati al buio, furono trafitti da una lama di luce: Natalia aveva aperto la porta.
− Muoviti – lo esortò. – Dubito davvero ti stia cercando, ma nel caso non mi va lo stesso tu rimanga qui come un coniglietto spaurito. Fai pena.
– O-ok... forse siamo ancora in tempo per fargli cambiare idea sul mio conto?
Natalia fece una smorfia. – Sei un caso disperato. Non so perché dovrebbe assumere qualcuno come te, davvero non ne ho idea.
Scivolarono entrambi nel corridoio principale.
− Forse è andato nel salotto – commentò la ragazza. – Vieni con me che...
E fu allora che sentirono i passi pesanti di Ivan provenire dall’inizio del corridoio.
− Toris? Toooris? Dove sei, caro? – cinguettava l’uomo, il buon umore riacquistato in toto. I suoi occhi d’ametista splendevano di quell’aura folle di poco prima, il sorriso mostrava i denti come nel ringhio famelico di un orso.
In un batter d’occhio i due ragazzi erano rientrati in camera, fulminei e silenziosi come lucertole. Toris si guardò le braccia e si rese conto che gli si era accapponata la pelle e non per il freddo. Anche Natalia aveva paura, lo si poteva vedere dalle orbite spalancate.
− Cazzo. – ansimò lei – Forse avevi ragione, prima.
− Prego?
− Tieni la bocca chiusa se vuoi rimanere in vita – e per qualche secondo fu il silenzio assoluto. Poi la voce di Ivan risuonò nuovamente, vicina. Troppo vicina.
− Ehi, Toris? Noi non li vogliamo bambini che non sanno giocare bene, giusto? E tu sei un bravo bambino, Toris, lo so io e lo sai anche tu, quindi perché non esci fuori e diventiamo amici?
Ivan era entrato in paio di stanze più in là.
− Apri bene le orecchie, adesso – bisbigliò Natalia, guardando l’altro con i suoi occhi ingigantiti. – A quanto pare lo hai fatto incazzare, non credo di averlo mai visto così... e se fosse già successo, dubito avrei voluto essere nei panni della sua preda. Prendi la terza porta sulla sinistra, attraversa il corridoio, la porta sul fondo. Fai presto!
− Come? Vorresti aiutarmi a fuggire? – Toris sentì il cuore sciogliersi e fece per abbracciarla. − Grazie, ti devo la vi...
− Muoviti, idiota! – urlò Natalia, spingendolo bruscamente contro la porta.
Se ne pentì subito. Da fuori Ivan li aveva sentiti.
− Sorellina, sei tu? Dove sei?
Toris tremò, pazzo di terrore. Guardò un’ultima volta gli occhi della ragazza e si accorse solo allora che non erano dilatati a causa della paura, ma a causa della collera. Ce l’aveva con lui. Questo fu la sua ultima riflessione prima di udire Ivan dirigersi verso la camera.
− C’è Toris con te, Nat? – chiese mentre si avvicinava, anche se sapeva già la risposta.
Toris serrò gli occhi, ormai in lacrime, non voleva vedere più niente ma fu come se da dietro le palpebre scorresse un film con protagonista Ivan che lo veniva a prendere: quel sorriso eccitato da bimbo, gli occhi ingranditi e vacui, sognanti, così terribilmente dolce con la sua voce di zucchero filato, il grosso lupo vestito da nonna, l’aura violacea che lo contornava e quel libro sulla tortura debitamente sottolineato... Senti il cigolare della porta mentre si apriva. Pure con gli occhi chiusi vide la luce che sostituì le tenebre nella stanza.
− Oddio, oddio – pianse. Lo aveva raggiunto. Aveva aperto, no, spalancato la porta e ora lo avrebbe prelevato di peso. Trascinatolo in una delle decine di stanze di quella casa maledetta, si sarebbe vendicato di quel affronto. E poi lo avrebbe ucciso.
Non successe niente di tutto ciò.
Toris aprì gli occhi. La luce che aveva visto non era altro che un lampo dalla finestra; la porta era ancora chiusa. Meglio, era socchiusa. Un tuono scoppiò nel cielo facendo tremare il mondo.
Natalia l’aprì senza far rumore e diede un’occhiata fuori, Toris l’imitò standole alle spalle sfiorando la sua schiena con il petto. Poteva sentire il suo calore attraverso il tessuto, ma non ne poté gioire perché la paura aveva il controllo ora. Ivan era per metà dentro la stanza proprio oltre la loro, l’ultima. Teneva la testa oltre la porta guardando all’interno, le braccia incrociate dietro la schiena. Le mani nascondevano qualcosa a chiunque fosse all’interno della stanza, come se stringesse un mazzo di fiori; Toris aguzzò gli occhi per vedere cos’era.
Un tubo metallico.
− Toris! TOOORIS! Esci fuori che t’ho portato un regalino! – urlò Ivan − UN REGALO SPECIALE PER IL MIO AMICO SPECIALE!
Ed entrò nell’ultima camera brandendo l’arnese.
Era il momento giusto: con uno scatto, Natalia buttò Toris nel corridoio, facendolo cadere per la spinta. Fece rumore. Ivan l’aveva sicuramente sentito, anche se era nell’altra stanza.
Toris si mise a correre. Era una corsa a rallentatore, come negli incubi, attraverso quel corridoio alto e freddo. I suoi passi producevano un “tump-tump” a ritmo con il suo cuore a mille, irregolari, frenetici. “Mi verrà un infarto prima di uscire da qui” pensò, prima d’imboccare la terza porta a destra. Si guardò intorno.
“Ma che diavolo... dove sono finito?” pensò, osservando spaesato quello che sembrava un ripostiglio. Non era il corridoio dove l’aveva indirizzato Natalia. Oh no. Aveva sbagliato strada.
“Merda! Cosa aveva detto?” cercò di ricordare, il panico che cercava di trascinarlo giù con sé nell’oblio. A cosa serve scappare?, domandava una voce suadente nei recessi della sua mente. Mettiti il cuore in pace, questa è casa sua e tu non sei che un verme indifeso, un moscerino, un topolino in trappola, non ricordi? Arrenditi, non hai scampo.
“Terza porta a destra e poi la stanza in fondo al corridoio” rammentò improvvisamente. Tornò all’uscio, in fretta, mentre la voce suadente veniva strozzata sul più bello.
Nel corridoio principale, davanti alla camera di Natalia, c’era Ivan. Toris si bloccò, persino il suo cuore smise per dei lunghi attimi di battere.
− Eccoti qua! – esultò gioioso Ivan, alzando in aria il tubo metallico mentre il sorriso si allargava su tutto il volto.
Ti ho trovato e adesso non mi scappi più.
Per un attimo Toris rimase dov’era, immobile, come se tutti i muscoli del corpo si fossero paralizzati nel momento in cui l’uomo cominciò a camminare verso di lui, passi pesanti e marziali; lo scosse solo vedere l’espressione truce della ragazza di cui s’era invaghito proprio lì, dietro di lui, che lo fissava. “Giuro che un giorno scapperò con te, Nat, non oggi ma un giorno sì” pensò febbrilmente mentre si girò e prese a correre verso la direzione giusta.
La testa si svuotò, solo le indicazioni del cervello alle gambe funzionavano. Non c’era più il batticuore, la voce che gli intimava di arrendersi, i tuoni al di fuori del palazzo o i passi del gigante armato di un tubo metallico. C’era solo una possibilità di fuggire.
La terza porta a destra. Il corridoio secondario che non sembrava finire più. La porta in fondo. Quando Toris finalmente l’aprì, si trovò in un luogo che aveva del famigliare: soffitto alto, bianco accecante, freddo e asettico come un ospedale... era l’ingresso!
Fu come una ventata d’aria fresca dopo un’eternità passata tra le fiamme infernali. Un gelo bianco che raffreddava il suo corpo incendiato dalla corsa, diametralmente diverso dalla canicola dello studio del giudice... ma allora non ci fece caso.
Dievas būti giriamas – gracchiò, stupidamente felice – Dio sia lodato.
Non si era mai definito particolarmente religioso, ma in quel momento sarebbe stato grato a qualunque forza divina lo avesse condotto fuori di lì sano e salvo. Il suo breve momento di sollievo venne rapidamente sostituito dalla porta da cui era appena entrato che si apriva. Una zaffata di odore alcolico entrò ancor prima dell‘uomo che l’emanava.
Toris scattò verso l‘uscio, senza voltarsi indietro, ogni pensiero coerente spazzato via da una paura che aveva dell‘assurdo, qualcosa che non aveva mai sperimentato prima d‘ora. Era la sicurezza che se Ivan l‘avesse preso ora, non avrebbe più rivisto la luce del sole.
Aprì la grossa porta di legno, pesante tra le mani tremanti e in un attimo fu fuori.
“Le scale. Oh, quattro piani di scale, li ho fatti prima e li faccio adesso, se l‘amore ti dà le ali, il terrore cosa mi darà?“ pensò, imboccando i primi scalini, il brivido che il pensiero di rotolare giù per quella rampa gli provocava attraversava l‘intero corpo.
Era la sua unica possibilità. Scese un intero piano con gli occhi piantati sui piedi, in modo da non fare alcun passo falso, finché come attratto da un magnete il suo sguardo non tornò da dove era partito e il fiato gli si mozzò in gola. Lo vide.
Ivan stava sul pianerottolo, le mani strette sul corrimano fino a far emergere i tendini. Lo stava fissando con sommo disprezzo. Non fu né il suo sguardo, seppure minaccioso, né le sue mani o i muscoli delle braccia tesi come se volesse staccare l‘asse, che gli azzerarono il respiro. Fu quel suono. Ivan emise un verso che Toris non aveva mai udito da nessun‘altra parte eppure gli provocò dei brividi che lo scossero fino alle ossa.
Kolkolkolkolkolkolkolkolkolkolkolkolkolkolkolkol.
Toris non aveva idea di cosa diavolo fosse, ma sicuramente niente di buono. Era il verso di un pazzo.
I seguenti tre piani li superò in un lampo, inseguito dall‘orribile kolkolkolkol di Ivan. Riuscì a raggiungerlo perfino fuori dal cancello, uncinato al suo dorso, tanto che il ragazzo si girò indietro aspettandosi di trovare il gigante alle sue spalle con il tubo di metallo in mano, sorridente mentre diceva “Diventiamo amici? A tutti i miei amici faccio un bel regalino”. Un solo colpo e il buio eterno, accompagnato da quel kolkolkolkolkolkolkolkolkolkol.
No, non c‘era nessuno. C‘era la pioggia, questo sì, ancora bella battente e Toris non aveva avuto il tempo di recuperare l‘ombrello o la giacca. Ora tremava di freddo e paura e le gocce di pioggia sostituivano le lacrime sul suo volto. L’acqua gelida proveniente dal cielo penetrò velocemente nei suoi abiti, impregnandoli. Liberandoli dall’innaturale calore dello studio del giudice come in un bagno purificatore.
Toris raggiunse un minuscolo spazio asciutto sotto una tettoia, a pochi metri dal vecchio edificio da incubo e lì tirò un po’ il fiato. Era vivo. Di nuovo si domandò se tutto quel trambusto non fosse effetto di delirio da persecuzione ma ora il dubbio non aveva più ragione di esistere. L’aveva vista la follia negli occhi di quell’uomo, così come l’aveva vista Natalia. L’aveva persino udita in quell’ultimo verso. Braginski era pazzo. Ogni cosa uscita dalla sua bocca doveva esserlo... non fece ora a terminare questo pensiero che una figura gli si piazzò davanti, coperta da un ombrello con il bordo in pizzo di plastica così che all’inizio gli fu difficile riconoscerla.
− Fe... Feliks?
Una testolina sbucò fuori dall’ombra, un sardonico sorrisetto sulle labbra.
− Yo, già qui? Non ti piaceva la casa del giudice? – domandò il ragazzo, ridacchiando sotto l’ombrellino fru-fru. – E mi pari anche meno vestito di prima. Non mi pare tanto intelligente, ti prenderai un malanno.
Toris non sapeva cosa rispondere. Questione di pochi secondi stupefatti e subentrò una furia pazzesca che riempì il suo corpo di calore.
− TU! – urlò – Tu sapevi che il giudice era uno psicopatico, non è così? Perché non me l’hai detto?
Feliks alzò le spalle. – Non volevo farti spoiler. E poi hai una faccia così buffa proprio adesso che, tipo, non avrei voluto perdermela assolutamente! – e si mise una mano davanti alla bocca, scoppiando a ridere. La risata scosse il corpicino e l’ombrello, che schizzò a terra gocce di pioggia. Toris sentì il corpo riempirsi di calda furia che arrivò si fermò come un bolo di lava nella gola, strozzandolo. – Buffa, dici?! – era talmente arrabbiato che aveva addirittura difficoltà a parlare. O forse era solo un raffreddore incipiente. − Ma hai idea di cos’ho passato là dentro?
− Certo che sì. Ma, tipo, tu non mi avresti ascoltato lo stesso perché eri troppo cotto della Nat. Quando ti avevo detto che non avrei consigliato a nessuno a salire là sopra non stavo scherzando, sai. Diciamo che è stata anche colpa tua.
Toris digrignò i denti, i pugni stretti ai fianchi e le guance ardenti che facevano evaporare la pioggia posatavi sopra. Si trattenne dal non affogare occhi-da-gatto in una delle pozzanghere. – Bastardo – mugugnò – Sei un... essere spregevole. Vai al diavolo. –
Feliks inclinò la testa sulla spalla, guardandolo di traverso. Tornò a sorridere, intenerito come se stesse guardando un bimbetto che faceva i capricci. − Tipo, non me ne frega niente di quello che pensi di me – disse dolcemente – Anche perché ciò non cambia che tu mi stia simpatico, sai?
Simpatico? Ma se l’aveva praticamente mandato al patibolo!
Feliks fece un passo in avanti, ondeggiando come una ballerina. − A proposito, devi ancora dirmi come ti chiami. – disse, come se la questione fosse terminata.
− Il mio nome è Toris. Ma cosa t’importa? Se sono fortunato non ti vedrò mai più. – Toris girò lo sguardo da un’altra parte, braccia incrociate, simulando un broncio che tanto stonava con il suo carattere: non era intenzionato a dargliela vinta.
− E vabbè, allora ti saluto. Stammi bene! – Feliks si girò con una piroetta verso la strada, pronto ad andarsene e scomparire per sempre nella pioggia. L’ombrello aveva di nuovo coperto la sua figura minuta mentre si accingeva a uscire dalla sua visuale.
Toris restò per un attimo a bocca aperta, guardandolo allontanarsi nell’oscurità grigia del temporale. Se ne stava davvero andando?
− Aspetta! – urlò, allungando una mano verso di lui, come per riprenderlo e riportarlo accanto a sé, come se fossero gli ultimi due esseri umani rimasti in quella landa desolata.
− Oh? – Feliks si girò. Gli occhi da gatto brillarono nonostante l’ombra della sua posizione.
− Sei... sei davvero insensibile a... aaah-etciù!... ad andartene così. Hai intenzione di lasciarmi qui da... sniff... solo? – la voce di Toris non era più così dura: aveva troppo freddo per rimanere col broncio, senza contare che ci sono momenti in cui l’orgoglio è addirittura lesivo. Quello era uno di quei momenti.
Feliks sorrise, tornando verso di lui. Arrivatogli davanti gli tese la mano, lo sguardo che aveva perso la sua irriverenza e si rivelava già più gentile: − Certo che no. Saresti capace di rimanere qui fino a quando non ti si ghiaccia il sederino.
Ok, forse aveva un modo un po’ strano di essere gentile, ma Toris apprezzò comunque lo sforzo: tutto, pur di raccattare quel minimo di dolcezza che lo salvasse dall’angoscia i cui tentacoli lo stavano ancora avvolgendo, appiccicosi residui di terrore. Le parole di Braginski risuonavano come sussurri spettrali nella sua testa, tormentandolo.
Gli prese la mano.
Il contatto con quella pelle calda, morbida, rasserenò un pochino il suo cuore. Il calore attraversò il palmo e si trasmise al volto, trasformatosi nel frattempo in un pezzo di ghiaccio, facendolo sorridere piano a sua volta.
– Per favore, mi accompagneresti a casa? Anzi no... portami in Fleet Street. Non è lontano da qui.
 
Per arrivare laggiù dovettero riattraversare il pezzo davanti al parco proprio dove Toris aveva avvistato per la prima volta Natalia. La loro camminata era fondamentalmente opposta: Feliks era disinvolto, dalla camminata saltellante sotto la pioggia e rideva, appropriatosi dell’80% della copertura dell’ombrello; l’altro, quasi interamente inerme al cadere dell’acqua e del tutto zuppo, continuava a tenere la testa bassa temendo che da un momento all’altro potesse accadere qualcosa, sebbene ora fosse improbabile.
− Su, ma che hai? – chiese Feliks, dandogli una spintarella scherzosa fuori dall’asciutto.
− Umpf. Niente, solo non mi sono ancora ripreso da prima. – Toris cercò di tornare sotto l’ombrello, anche solo per non sentire la pioggia minacciare di sfondargli il cranio un po’ alla volta. Inutile.
− Ci riuscirai. – Feliks era già un passo avanti a lui. − Tutti ci riescono.
Toris sbuffò davanti a quella minimizzazione del suo stato. Feliks continuò, schizzando acqua da una pozzanghera come i bambini: − Vedi, quello è tanto strambo ma non pericoloso! Non è... – e improvvisamente tacque, guardando verso il palazzo del giudice. D’un tratto era divenuto pallido come un cencio, la sua anima aveva abbandonato il corpo lasciando una scorza bianca e rigida. Non respirava neppure.
− Feliks? Che succe... – chiese allarmato Toris e si voltò anche lui verso la stessa direzione.
Ivan era alla stessa finestra in cui era Natalia prima.
Sorrideva. Sul volto era aperto un crepaccio celato dalla neve, pericoloso, letale se ci cascavi dentro, specie se lo guardavi in quei occhi luminosi d’ametista, meravigliose pietre dure.
Li salutò entrambi con la mano.
Era un semplice movimento da destra a sinistra, un “ciao ciao” che avrebbe potuto fare chiunque, anche un bambino, e proprio a un bambino lui assomigliava nella sua fredda purezza. Il fantasma di un bimbo morto in una tempesta di ghiaccio e alberi ululanti, vittima del terribile inverno russo e della crudeltà che gli aveva congelato poco alla volta l’anima.
Le sue labbra pronunciarono lentamente, in modo che si potessero leggere anche da lontano, attraverso la pioggia: “Das vidanya~”.
Ci rivedremo.
Entrambi i ragazzi fuggirono via, sotto la pioggia e i fulmini, intuendo che quella terribile giornata non fosse che l’inizio di un incubo.
 
− Dico, quel Braginski ce l’ha totalmente con te! – strillò Feliks non appena trovarono una fermata del bus coperta dove tirare il fiato per la corsa. Si erano seduti, il respiro mozzato e il cuore che sembrava scoppiare per la paura, la gola seccata dall’aria gelida.
− Che... che ti avevo detto? Lui è... pazzo... da legare. – rispose a frammenti Toris, indispettito per l’ovvietà della cosa. Feliks scrollò la testa, schizzando qualche goccia che aveva impregnato i suoi capelli. Si strinse le braccia e arricciò il labbro, incredulo di non aver avuto ragione per una volta.
− Sì, ma quando ero andato io per l’annuncio, non era così. Cioè, era tipo tutto strambo e se l’è presa anche un po’ quando ho cambiato idea, ma non mi sembra che... o forse sì? – si portò l’indice al labbro, pensieroso. − Boh, non ricordo.
Toris lo fissò a bocca aperta.
− Co...come? Anche tu saresti voluto andare a lavorare per quel tizio? E sei pure entrato in casa sua?
Feliks allungò le braccia dietro la nuca, guardandolo impassibile. I muscoli emisero degli schiocchi delicati. − Ehi bello, la somma che ti danno per l’Erasmus finisce subito in una città come Londra! Non sono, tipo, un Rothschild o simili.
Toris lo guardò con un misto di sorpresa e gioia.
− Ma non mi dire, anche tu qua per l’Erasmus? – chiese, felice di poter pensare a qualcos’altro. – Di dove sei? Io vengo dalla Lituania.
Feliks sorrise con quel suo sorriso malizioso da sberle in faccia. – Lituano, eh? Io dalla meravigliosa, unica, inimitabile, motherfucker Polonia! Yuhuuu! La meglio!
Alzò le braccia con i pugnetti chiusi in un moto di patriottismo sfegatato. Toris cercò di precisare che “motherfucker” non fosse esattamente un complimento, ma Feliks lo rimbrottò con tono saccente: − Negli USA sì, però. Si usa quando qualcosa o qualcuno è badass. Lo so perché questo termine su internet lo usano, tipo, tutti quanti. Dev’essere slang o qualcosa del genere, perché, cioè, non lo utilizzerebbero se fosse una parolaccia, no? Un po’ come da me con “Kurwa”, fa parte del lessico comune.
Ok, meglio rinunciare nel continuare , preferendo domandare delucidazioni in merito a un madrelingua come Alfred. A proposito, doveva tornare al fast food! Chissà che ora era.
Per fortuna il cellulare era rimasto nella tasca dei pantaloni... e lì era morto a causa dell’acqua.
− Merda. – imprecò, cercando di accenderlo, le dita che gli facevano un male boia dopo che la dolce Natalia gliele aveva stritolate. Feliks lo guardò interrogativo. Si allungò e notò anche lui la dipartita dell’apparecchio.
− Che c’è? Devi avvisare qualcuno? Adesso ti porto io in Frit Street, non preoccupati.
− Fleet Street, non “Frit”...
Feliks ritornò a braccia conserte, il volto offeso. − Lo so, non sono mica stupido sai? Cercavo solo di tirarti su di morale.
Ma la battuta alquanto stupida non ebbe l’effetto sperato: Toris chinò il capo incassandolo tra le spalle, i capelli grondanti pioggia gocciolarono sulla maglia già fradicia. Il volto era nascosto dalle ciocche castane divenute più scure per l’acqua che le impregnavano. I tuoni che li circondavano, sebbene ormai soffusi, sembravano colpirlo come frustate, piccolo agnello sacrificale con la mannaia tesa sopra al collo.
Feliks l’osservò senza dire nulla e restarono un po’ avvolti da quell’atmosfera liquida e grigia. Alzò quindi una mano, lento e cauto come se avesse avuto paura di romperlo, e tolse una ciocca di capelli dal viso dell’altro, svelandoglielo. I polpastrelli gli sfiorarono la guancia, tiepidi come raggi di sole. Il volto del polacco si avvicinò a quello del lituano, in un tentativo timido di rincuorarlo, di vedere se fosse ancora vivo o avesse ceduto al freddo la sua anima. Gli occhi smeraldini di Feliks incontrarono quelli di giada di Toris e per un attimo i due si guardarono e senza parole si compresero.
Erano abbastanza vicini da poter sentire l’uno l’odore dell’altro, come due bestiole che si annusano per stabilire una volta per tutte se fosse saggio instaurare un rapporto. Feliks riusciva a intravedere il leggero tremolio delle pupille di Toris, il luccichio delle iridi lucide, il solco di preoccupazione che già cominciava a lasciare il segno sulla pelle ancora giovane e fresca. Il volto pallido di paura e stanchezza. Il labbro inferiore tirato indietro, come a impedirsi di parlare. Il profumo della pioggia e delle foglie marce che si mescolava alla sua essenza trasformandosi in un tutt’uno di malinconia e disperazione.
Ecco! La ruga che deturpava la fronte del ragazzo s’attenuò, i denti lasciarono in pace le labbra che furono quindi libere di distendersi e piegarsi dolcemente verso l’alto, gli occhi lasciarono andare quella scintilla di panico, liberandola nell’aria della sera. Feliks ammirò quella trasformazione dimentico di ogni riserbo lo bloccasse. Sentiva un calore strano divampargli nel petto, ma non aveva idea di cosa potesse mai essere.
Poi l’incantesimo che segnò l’alba di una nuova amicizia svanì com’era apparso ed egli si allontanò di scatto, le guance rosa di timidezza. Toris sorrise. Aveva riacquistato quel pizzico di calore necessario perché l’animo sciogliesse il ghiaccio formatisi durante la fuga, perché una cosa vera l’aveva detta il folle giudice: la paura ti rende insensibile alla tenerezza, ti mette in costante guardia, rigido come una stalattite eterna. Solo l’amore e l’amicizia salvano. Poteva considerare amico quel strano ragazzo dagli occhi felini? Dal canto suo, Feliks sentiva ancora un bizzarro tumulto all’altezza del cuore. Non osava rincontrare gli occhi dell’altro, aveva paura di rimanere sopraffatto dalla sensazione di meraviglia che lo aveva colto quando l’aveva visto sorridere per la prima volta. Poteva considerare amico quel tizio che profumava di pioggia?
Fu Toris a rompere il silenzio. – Grazie – disse. Feliks non aveva neppure motivo di domandargliene il motivo. Sapeva a cosa si rivolgeva. Si limitò ad alzare le spalle, le guance divenute senza volerlo ancor più prossime al ciclamino.
− Forse è ora che andiamo a casa, non trovi? Non dovevi andare in quella via stramba... Fleet Street? – insinuò, fingendo distacco. Toris annuì.
− Sai dov’è il fast-food “The Eagle”? Fa niente, ti dico io la strada.
 
Arrivarono finalmente al locale che il temporale era finito. L’aria fredda penetrava nel tessuto bagnato dei vestiti di Toris, facendolo rabbrividire; si domandò se potessero venirgli i reumatismi a diciannove anni. Feliks guardò l’interno del locale.
− Bel posto, non c’è che dire – commentò. − Ora devo andare, ci vediamo!
− Eh? Ma non entri?
Feliks si allontanò dicendo qualcosa sugli sconosciuti che gli mettevano terrore. Toris sospirò: conosceva quel tipo da pochissimo e già nutriva dubbi se potesse considerarlo un amico oppure no. Entrò tentennante nel locale, sobbalzando nel sentire il campanello che segnalava il suo arrivo.
− Toris! Ben tornato! Oh, ma sei zuppo come un pulcino... – lo accolse Alfred, notando con piccolo disappunto la scia d’acqua che lasciava l’altro dietro di sé. Il ragazzo si abbandonò su uno dei divanetti, resosi improvvisamente conto di essere sfinito e con parecchi muscoli doloranti. – Ciao a tutti – mormorò.
− Com’è andata il colloquio? – chiese Alfred, prendendo uno straccio. A quella domanda Toris emise un gemito disperato, ricordando che era supposto avesse un lavoro adesso.
− Non tanto bene – ammise – non sono stato assunto.
− Oh, mi dispiace – commentò Alfred pulendo le tracce lasciate sul pavimento.
− Ma forse è colpa mia. Il giudice Braginski non m’ispirava fiducia, diciamo.
− Il giudice... – l’americano interruppe il suo lavoro, guardandolo a bocca aperta − ...Braginski?! Per forza sei ridotto così, aspetta che ti porto qualcosa per ristorarti. Non sono sicuro di avere qualcosa di caldo in dispensa da bere... lo vuoi un caffè? Oppure una cioccolata? E devi anche cambiarti, o prenderai un raffreddore.
In quel momento dalla cucina uscì Arthur, con la sua bella divisa cappellino compreso.
− Ѐ arrivato un altro cliente, Al? Oh, ciao Toris.
Alfred gli fece segno di tacere, mentre lo raggiungeva sulla porta. Arthur alzò un sopracciglio: − Che c’è? Non posso neanche salutarlo, adesso?
− Sta buono, non vedi che brutta cera ha? Fallo riposare un attimo.
− Il colloquio a quanto pare non è andato alla grande, eh?
− Puoi scommetterci le sopracciglia. Il suo datore di lavoro altri non era che il nostro caro Braginski. – spiegò Alfred e Arthur sbiancò.
− Cavoli... – riuscì solamente a dire. Avrebbe dovuto sospettarlo. Ivan non si era trasferito, era sempre rimasto lì, a Snow Hill, e lui avrebbe dovuto aspettarselo, chissà cosa gli aveva rivelato sul suo conto, chissà cosa pensava adesso Toris del suo ospite... anche se c’era la possibilità che il ragazzo avesse tenuto la bocca chiusa e Ivan non sapesse niente del suo ritorno a Londra. Sarebbe stata la situazione migliore anche se illusoria. Arthur lanciò un’occhiata a Toris. Nonostante la stanchezza, il ragazzo rispose allo sguardo. Quello che vide non doveva piacergli granché, poiché gli occhi d’un tratto si allargarono e la bocca si aprì leggermente. – Mr Kirkland...? – mormorò.
Arthur iniziò sudare freddo. Ecco, dannazione, chissà che domande aveva in riserbo per lui, altro che gentleman, Toris ora doveva pensare che fosse una specie di assassino... o peggio. Ivan sapeva molte cose sul suo conto e non aveva paura di divulgarle. Si preparò mentalmente all’interrogatorio.
E invece Toris scoppiò a ridere.
Arthur restò per un attimo basito davanti a quella risata inaspettata, senza capire cosa ci fosse di tanto divertente.
 – Mr... mr Kirkland, come diavolo è vestito? – sghignazzò Toris. La sua risata aveva un suono anormale ma in quel momento nessuno lo notò.
− Ѐ la mia divisa, perché me lo domandi?
− Mi perdoni, signore, ma è davvero esilarante vestito così!
E Toris continuò a ridere, contagiando anche Alfred. Arthur li fulminò entrambi.
− Smettetela! Non sono così ridicolo! Almeno credo...
− Sul serio, signore! Così di rosso vestito assomiglia a uno degli Angry Birds! – e a questa risposta Alfred gli diede il cinque, scompisciandosi ulteriormente.
− Toris, guarda che stanotte tu dormi qua – lo minacciò Arthur.
− Suvvia, non prendertela! Un po’ di sarcasmo non ha mai ucciso nessuno, o no? – disse Alfred, facendogli l’occhiolino. – Piuttosto, dagli la tua giacca prima che muoia di ipotermia. Guardalo, è fradicio! Ah, Toris, ti devo raccontare cos’è successo prima: abbiamo avuto un cliente che, guarda, un tipo simile spero gli sia andato il panino per traverso! −. E giù a descrivere l’accaduto, arricchendolo di qualche piccolo dettaglio per renderlo simile allo sceneggiato di un film piuttosto che a un frammento di vita reale.
Arthur invece andò a prendere la giacca. Possibile che dopo più d’una settimana passata sul suolo inglese, quel ragazzino fosse stato tanto sprovveduto da andarsene in giro in maniche di camicia e senza ombrello? No, non era concepibile. Toris era tutto, meno che uno sbadato. Qualcosa gli aveva impedito di recuperare il resto del vestiario con cui coprirsi sotto quel tempaccio, e aveva la netta certezza che quella cosa fosse proprio Ivan. Toris era uscito dalla sua casa senza curarsi di altro, voleva forse dire che era fuggito? Se sì, che motivo aveva di farlo? Che domanda inutile! Quel giudice non aveva tutte le rotelle a posto, se n’era accorto anche Alfred.
Arthur sentì il cuore stringersi per qualcosa che credeva fosse ormai morto: un sentimento di pietà. Il ragazzo aveva fatto di tutto per racimolare uno stipendio con cui pagarlo, nonostante al pagamento dell’affitto mancasse ancora un bel po’, e pensava di trovarlo a casa di quello psicotico. Probabilmente ora si sentiva in colpa perché aveva perso quell’occasione, perché Toris era quel tipo di persona che non voleva avere debiti con nessuno, Toris era un bravo ragazzo.
Se ora stava soffrendo per qualsiasi cosa fosse avvenuta in quella casa, Arthur ne era la causa primaria. “Non merita di essere trattato male... è vero, mi serve semplicemente come copertura, ma è anche solo un ragazzo la cui unica colpa è stata fidarsi di me...” pensò, mentre quello strano dolore al cuore si acuiva.
− Ohibò, ci diamo ai sentimentalismi adesso? – disse una vocina accanto a lui – Credevo fossi diventato Mr Cuore di Pietra dopo lo scontro con Francis.
− Taci. Non sono un sentimentale, non lo sono mai stato! Ho avuto un piccolo attimo di debolezza, nient’altro. Tutto deve andare secondo i piani e Ivan potrebbe essermi d’intralcio, per questo m’interessa la questione. – ringhiò in risposta, mentre la vocina scompariva ridacchiando piano.
Arthur si diresse di fretta nel salone, dove Alfred stava cercando di rianimare il cellulare di Toris. – Niente! – si lamentò. – Ha preso troppa acqua. Comunque ti posso far leggere la recensione sul mio.
E gli mostrò cosa Signor Brutti Baffi aveva scritto su TripAdvisor.
− Malvagi! Ecco cosa siamo diventati! E allora ho detto ad Arthur... oh, eccoti! Vieni qui con noi! Dicevo, ho detto ad Arthur “Facciamo che io sono l’eroe e tu sei il malvagio, potrebbe essere una bella pubblicità!” dal momento che quaggiù è relativamente famoso dopo lo scontro con Bonnefoy. Te che ne dici?
Toris annuì, prendendo la giacca dalle mani di Arthur. – Grazie – mormorò.
Arthur era così gentile... come avrebbe potuto fare la parte del cattivo? Certo, spesso aveva la lingua tagliente e gli piaceva fare parlare di cose macabre per il solo gusto di vedere la reazione nelle persone, ma non era davvero cattivo. Le parole di Braginski gli risuonarono nella testa e lui cercò di scacciarle. Ha quasi ucciso un uomo, aveva detto, e su questo non aveva prove... più o meno. Ce le aveva? Che diavolo era successo un anno prima?
E poi il fatto che sapesse del mistero che avvolgeva la casa, mistero che Kirkland adduceva a congegni per spaventare gli intrusi. Ma soprattutto... come faceva a sapere che la casa aveva una stanza proibita? “Il lupo perde il pelo ma non il vizio”, cosa significava?
Oh, per l’amor del cielo, perché doveva ripensare alle parole di un pazzoide? Erano soltanto coincidenze. Braginski conosceva da tempo Kirkland, poco ma sicuro, e aveva utilizzato quelle conoscenze per convincerlo a lavorare per lui. Non c’era dubbio.
Per quel giorno non voleva pensarci più.
− Ho conosciuto una ragazza, la sorella del giudice. – dichiarò – Ѐ incredibilmente carina.
− Oh, parli di Natalia? Sì sì, la conosco. Un tipetto tosto. – replicò Alfred.
− E anche un altro ragazzo, anche lui sta facendo l’Erasmus. Si chiama Feliks. Potrei invitarlo a mangiare qui, così diverrebbe vostro cliente e farebbe pubblicità, no?
− Bell’idea! Gli studenti sono clienti migliori, hanno lo stomaco più forte degli adulti di mezz’età. Potresti aiutarci molto sai? – disse Alfred. Toris arrossì di gioia. Arthur annuì.
− Sono davvero felice che tu sia qui. Perdona il mio egoismo, ma non credo avrei sopportato sapere che lavoravi per il giudice. Non mi piace granché quell’uomo. – ammise.
− Non si preoccupi, comunque da domani ricomincia la mia ricerca.
− Senza fretta, caro.
Toris sorrise di nuovo. No, Kirkland non era cattivo, assolutamente. Impossibile.
 
*  *  *
 
Subito dopo la fuga di Toris, Ivan Braginski era infuriato. Triste e infuriato. E meditava.
− Perché... perché deve sempre finire così? – mormorò rauco. Era nel suo studio, seduto sulla sedia rossa, tracannando liquore come se non ci fosse un domani.
− Ho fatto così tanti sforzi per arrivare in alto, per ottenere il potere, ma non basta a quanto pare. La gente mi odia comunque. Perché non possiamo essere amici? Cosa c’è che non va in me? − La sua voce si rompeva sempre più. Strinse tra le mani il bicchiere, come se volesse frantumarlo tra le dita. – Sorellina, tu lo sai?
Un’ombra si alzò dall’angolo della stanza e si avvicinò alla sedia. Natalia posò la testa sulla spalla di Ivan, sussurrando: − Non c’è niente che non vada in te. Sono gli altri che non lo capiscono.
− Allora cosa posso fare per farmi amare?
− Lascia perdere quegli sciocchi, non ti meritano − Natalia accostò il suo viso a quello del fratello. – Basto io per te.
− Fosse stato l’unico, almeno! Ci sono stati anche quei due, prima di Toris. Eduard è stato quello più astuto, è riuscito a sgusciare via senza quasi farmene accorgere. Feliks, al contrario, era un ribelle, dubito sarei riuscito a farmi obbedire decentemente neanche se fossi riuscito a tenerlo qui.
− Stai dimenticando il piccolo Raivis.
− Piccolo, appunto. Troppo giovane. Peccato, però, era il più facile da sottomettere, ma la legge vale anche per me e tenerlo qua avrebbe comportato delle rogne non da poco.
Ivan sospirò. – Se almeno ci fosse la sorellona... ma ci ha lasciati anche lei, preferendo il mondo esterno alla famiglia. Vorrei portarle rancore e invece devo ammettere che mi manca. Come mi mancano tutti quelli che avrei potuto avere come amici.
− Ci sono io qui, non scordartelo –. La guancia di Natalia stava toccando quella di Ivan, trasmettendole il suo calore – Io non ti abbandonerò mai, anzi, starò sempre al tuo fianco. Lo sai che ti voglio tanto bene, fratellone –. Gli schioccò un bacio sulla guancia e lui si ritrasse, infastidito. Nat era tanto affettuosa, fin troppo: delle volte quel suo attaccamento gli metteva i brividi.
− Ѐ uno strazio sapere che Toris preferisce Arthur a me. A proposito, lo sai che è tornato a Londra e lo sta ospitando? Dico io, non so cos’abbia in mente quell’essere!
− Ѐ stato lui che ti ha regalato questa sedia, vero?
− Già. Ricordo che le prime volte in cui mi ci sono seduto si è rotta. Ho dovuto farla riparare da lui stesso, perché a detta sua era l’unico che potesse farlo.
Accarezzò i braccioli. Anche Toris si era seduto lì, mentre sosteneva il colloquio e poi era fuggito. Letteralmente fuggito. Ah, se solo avesse usato un po’ più di giudizio! Lo sanno tutti che la fuga eccita l’istinto a cacciare. Beh, a lui aveva semplicemente fatto parecchio incazzare: era un atto completamente fuori luogo, maleducato e fatto senza pensarci due volte. E questo per cosa? Per aver detto una sacrosanta verità? Per avergli proposto l’affare della vita? Fuggire non era la soluzione. I topolini nella trappola non possono scappare e, se ci riescono, vuol solo dire che il gatto sta giocando con loro, la loro fine è segnata lo stesso.
− Nat, tu hai fatto in modo che riuscisse a svignarsela – l’accusò con uno sguardo di rimprovero. La ragazza non ne fu colpita.
− Era un idiota, fratellone. Non ti meritava affatto – disse, sorridendo. – Credo che Feliks gli abbia detto qualcosa su di te che l’ha convinto a rifiutare il lavoro. Quando l’ho visto la prima volta, sembrava anche convinto. Poi è venuto qua e boh, ha cambiato idea. Ma la colpa non è mia, anzi, forse potrei anche convincerlo a tornare.
Ivan sospirò, guardando verso la libreria. – Forse sono stati alcuni miei libri “controversi” a farlo desistere. Sai, quello sulla tortura specialmente. Credo ne abbia sfogliati alcuni prima che lo raggiungessi, li ho trovati fuori posto.
La ragazza si diresse verso lo scaffale e individuò il libro incriminato. Lo sfogliò, storse la bocca e disse: − Certo che è proprio pauroso quel tizio. Queste sono solo immagini, inchiostro su carta. Vorrei vedere se questa roba fosse ancora legale! Tu, come giudice, avresti tutto il diritto di metterla in atto per ottenere ciò che vuoi.
Ivan alzò gli occhi dal suo bicchiere ormai vuoto, fissando la sorella con uno sguardo allucinato: − Che hai detto, scusa?
− Ho detto che avresti potuto utilizzare questa roba per far fare agli altri quello che ti pareva, tanto chi ti poteva fermare? Tu sei il giudice, tuo è il potere, se gli altri non son d’accordo marciscano in prigione.
Le guance di Ivan, già rosse a causa dell’alcol, si scurirono ulteriormente.
− Mia cara sorellina – disse – Hai avuto un’idea geniale.
− Cosa? Vorresti torturare Toris? Guarda che se ti beccano sono cazzi amari, Arthur è scampato alla gattabuia per un miracolo.
Ivan scrollò la testa, ridacchiando:− Non serve utilizzare quel tipo di tortura. – e indicò l’orologio a pendolo. – Esistono cose che non ti feriscono fisicamente ma ti distruggono mentalmente. La paura, ad esempio. L’angoscia di essere braccati giorno per giorno e ogni attimo che passa la situazione non faccia che peggiorare. Un po’ come la tortura del pendolo: devi sapere che, nell’esecuzione della stessa, i condannati cedevano molto prima che la lama oscillante arrivasse a sfiorarli. Ma non voglio torturare, voglio solo persuadere, se acconsentirà con le buone allora tanto meglio. Ho intenzione di utilizzare il mio potere e le mie conoscenze per riprendere il bimbo smarrito con me. – Si massaggiò il mento, fiero della scelta geniale. − Stavolta non potrà dirmi di no. Sempre meglio in mia compagnia che con quel folle di Kirkland, dopotutto.
Ivan sorrise e si abbandonò nella voluttuosa imbottitura della poltrona, che scricchiolò sotto il suo peso. Un’idea assolutamente splendida, per di più a fin di bene. Avrebbe salvato il ragazzino dai piani oscuri dell’inglese e ottenuto un amico tutto per sé.
Natalia guardò fuori dalla finestra. – Yo, ci sono Toris e Feliks di sotto – disse.
Ivan si alzò. – Lascia che saluti i miei due amici. Tanto ci rivedremo presto.
 
*  *  *
 
Era ormai sera. Bisognava preparare il servizio per eventuali clienti che sarebbero venuti (poco probabile ma la speranza non costava nulla) e sia Arthur che Alfred si stavano prodigando nel farlo. Toris si era addormentato su uno dei divanetti, loro non osavano disturbarlo.
− Che tenero che è quando dorme, eh? – commentò Alfred, lanciandogli un’occhiata colma d’affetto. Arthur gli tirò uno spintone: − Smettila. Pensa a scaldare l’olio delle patatine, piuttosto, non voglio scenate come quelle di oggi.
− Uuuh, sei geloso, per caso?
− Non dire cavolate!
Alfred rise. – Ѐ un bravo ragazzo. Non oso pensare a come sarebbe finita se Braginski l’avesse preso con lui.
− Lo so.
− Vuole farci conoscere tra i giovani. Speriamo! Gli adulti sono così arroganti, i miei coetanei sono più bocca buona. Solo che non hanno mai abbastanza soldi dietro...
− Anche tu commetti certi errori imperdonabili, però. Non puoi dare del coglione o simili a un uomo d’affari e pretendere che ritorni qua dentro, anche se ha soldi da spendere. Bisogna mascherarle, le critiche.
− Che ci posso fare? Vieni qui dentro, c’è la più splendida abbondanza di hamburger che tu possa immaginare e tutto quello che la gente ordina è un hamburger semplice con patatine! A un certo punto io mi sento offeso!
− I gusti sono gusti, Al. Vorresti forse imporre un panino a quattro piani ad un uomo che rischia l’infarto solo mangiando bacon e uova a colazione? E poi anche gli adolescenti sono permalosi, non dimenticarlo.
Alfred sbuffò. – Forse. Intanto tra poco inizieranno i corsi universitari e ricominceranno le pause pranzo dei lavoratori. Sai cosa significa?
Arthur finse di pensarci su. – Significa che l’estate è finita?
− Quello è ovvio, scemo. Significa tanta gente che deve mangiare. Ma dove vanno tutti a mangiare, dal momento che qua è vuoto come il deserto dell’Arizona?
− Forse sono risucchiati da un vortice spazio-temporale che li trasporta in qualche locale decente e con personale dotato di cervello.
Alfred gli allungò un calcio d’avvertimento, che l’altro schivò prontamente.
− Bravo, bravo, utilizza il tuo sarcasmo con me, ma se io non ho clienti neppure tu ne hai.
Arthur incrociò le braccia. – E quindi, Mr Mi-sono-fatto-da-solo-come-sono-bravo?
− Quindi domani si va a caccia.
− Scusa? Puoi ripetere, a caccia?
Alfred annuì, eccitato. – Domani andremo in giro per vedere chi sono i nostri concorrenti. Ce n’è uno che m’interessa particolarmente, un giorno alla settimana va in giro a fare street-food, mentre il resto del tempo lavora nel suo ristorante.
Arthur si portò la mano alla testa e si tolse il cappellino: − Questo, però, domani non lo metto. Ѐ il motivo principale per cui vengo scambiato per imbecille.
− Tranquillo, domani saremo in borghese. E poi dai, non stai così male.
Arthur diede un altro spintone ad Alfred, più leggero stavolta, e sorrise. Per un attimo era sereno; per un attimo non voleva sapere cosa gli riservasse il futuro.
Forse perché sapeva già che stava per succedere qualcosa che avrebbe sconvolto tutto.
* * *

*Sbircia da dietro la porta* Saaalve...?
Sì, lo so. Sono in ritardo. DI NUOVO.
Per farmi perdonare questo capitolo è decisamente più lungo degli altri e ci ho aggiunto il 30% di amore in più gratis. Mamma mia se è stata una faticaccia...
Posso dirlo, anche se forse lo avete già intuito? Adoro Russia/Ivan Braginski: insieme al sopracciglione, è il mio personaggio preferito :3 Quindi sono felice che finalmente sia entrato nella storia! Spero non mi linciate, avevo promesso il capitolo per sabato (come l’altra volta) e invece... chiedo di nuovo scusa.
GRAZIE DI TUTTO CUORE a chi ha recensito il secondo capitolo, a chi segue, a chi legge e a chi lo farà. Siete la spinta più importante, specie in questo periodo un po’ bruttino.
Ci vediamo presto (spero) con il quarto capitolo. Per chi avesse visto il film, sa un pochino cosa lo aspetta, ma neanche tanto perché il fato è imprevedibile e non bisogna saltare a conclusioni affrettate.
L.B. Shadow
P.S.: mi sono accorta a circa metà capitolo che la sedia di Ivan altro non era che la Busby Chair. Spero che Toris non si sia beccato la maledizione, ora.
   
 
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