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Autore: smarsties    24/08/2016    3 recensioni
Sequel de «La storia inversa: ovvero, come distruggersi in sette giorni»
Sei anni dopo gli eventi del prequel, mentre tutti sono impegnati a fare i conti col mondo degli adulti, Trent e Gwen decidono di compiere il grande passo, ma alcuni inviti vengono recapitati all'ultimo momento.
Ciò innescherà una folle corsa contro il tempo prima, e una serie di esilaranti imprevisti poi, fra regali di nozze, fedi smarrite e antichi sentimenti mai scomparsi, sino al finale più dolce che possa esistere.
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Dal settimo capitolo:
Davanti a lei vi era Duncan, spettinato e senza maglia. Cercò di sorvolare su quell’ultimo dettaglio.
«Almeno, principessa, abbi la decenza di metterti qualcosa addosso la prossima volta» la derise sghignazzando. «Ti sembra il caso di venire ad aprire conciata così? C’è il rischio che ti salti addosso» aggiunse con un occhiolino, accennando al suo pigiama - che comprendeva un top e un pantaloncino entrambi grigi.
Con una vaga nota di imbarazzo, replicò acidamente: «Hai forse perso la maglietta? In tal caso, mi dispiace deluderti, ma non è qui».
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Courtney, Duncan, Gwen, Nuovo Personaggio, Trent | Coppie: Duncan/Courtney, Trent/Gwen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'La storia inversa: quando tutto va come non dovrebbe'
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La storia inversa

«Fiori d’arancio e improbabili complicazioni»

 

 

 
 

Venerdì«
 

Vancouver, Columbia Britannica, Canada.
18 luglio, ore otto e quindici del mattino.

Dopo essersi svegliato ad un orario improponibile ieri mattina, John non intendeva alzarsi da quel letto prima delle undici.
Courtney, inoltre, gli aveva giurato che in alcun modo avrebbe provato ad attentare alla sua vita, così com’era successo martedì, quando erano partiti. Aveva anche aggiunto che quella giornata sarebbe stata di riposo assoluto, poiché l’indomani ci sarebbe stato il matrimonio, e che intendeva uscire solo per fare una passeggiata per il centro di Vancouver.
Sarebbe, perciò, stata una mattinata tranquilla. Fino a quel momento.
Una rumorosissima chitarra elettrica partì a tutto volume, ridestandolo dal suo sonno e costringendogli a soffocare un’imprecazione vergognosa contro il cuscino. Si trattava della suoneria di Duncan.
«Imbecille, il telefono» disse con la bocca impastata di sonno, riempiendolo di calci fino a quando non lo sentì muoversi. «La prossima volta metti il silenzioso» borbottò, rigirandosi per cercare la posizione più adeguata per riaddormentarsi.
Duncan lo guardò malissimo - avrebbe potuto scegliere un modo meno traumatico e doloso per chiamarlo -, prima di accettare la chiamata.
«Pronto?» chiese con voce rauca, trattenendo uno sbadiglio.
«Buongiorno Duncan, sono Trent» la voce squillante del moro gli riempì le orecchie. Tutta quella felicità glielo fece odiare per un secondo.
«Ciao Elvis» borbottò.
«Mi dispiace se ti ho svegliato, ma è una cosa importante» si scusò, percependo il suo tono poco gentile e piuttosto indisponente.
Si disse che nessuna cosa era abbastanza importante per svegliarlo alle otto di mattina di un comunissimo venerdì di vacanza.
«Adam sta organizzando l’addio al celibato al locale questa sera, e ovviamente tu e John siete invitati».

Tutto qui?
Decisamente, confermò, quella cosa non era importante quanto il suo sonno interrotto.
«Ovviamente ci saremo» si limitò a dire.
Dopotutto, sarebbe stato divertente andare ad un addio al celibato, dopo due anni dall’ultimo. Ricordava come era degenerato quello di Geoff, quando avevano aperto quelle casse di birra. Bridgette non seppe mai cosa fosse successo quella notte. Ed era meglio così.
Magari, anche se Trent era un santarellino, anche quello sarebbe diventato memorabile. Dopotutto, Adam non sembrava responsabile e cosciente come lui.
«Perfetto, allora ci vediamo stasera».
«A dopo» lo salutò.
Riattaccò e ripoggiò il cellulare sul comodino, ripiombando sul materasso con tutta la sua non-grazia. Poco dopo, constatando che non riusciva più a riaddormentarsi, decise di alzarsi e cominciare quella giornata.
«John» disse, chiamando l’organismo pluricellulare che giaceva sul letto, prima di infilarsi in bagno. «Stasera andiamo all’addio al celibato di Trent».
«Okay, bello schifo» mugugnò lui.
E, almeno lui, cominciò a ronfare, felice e beato.

 
• • •

 
Ore otto e quarantotto.
Courtney sedeva tutta sola ad un tavolo in fondo alla sala, intenta a consumare la sua colazione in tutta tranquillità, quando il suo telefono prese a squillare.
Sbuffando, lesse il nome sul display e rimase sorpresa.
«Pronto, Bridgette?» chiese, rispondendo alla chiamata.
«Ehi ciao, Courtney» esclamò lei dall’altra parte della cornetta. «È da un po’ che non ci sentiamo».
Ed era vero, l’ultima volta risaliva a Natale. Dopo le nozze con Geoff, infatti, si era trasferita ad Orlando, in Florida, e non avevano avuto più modo di vedersi, tranne quando entrambi venivano a trovare i genitori per le festività.
Era l’unica ragazza del reality, dopo Gwen, con cui aveva mantenuto dei buoni rapporti.
«Già
» affermò. «A cosa devo il piacere di questa telefonata?»
«So che di solito a queste cose pensa la testimone di nozze, ma so anche che sei una donna impegnata e che non dà conto a cose frivole» cominciò lei. «Avevo pensato di organizzare un addio al nubilato per Gwen, stasera a casa sua. Ho già pensato a tutto, devi solo fare in modo di tenerla alla larga fino alle otto e mezza».
Courtney odiava gli adii ai nubilati. Aveva partecipato a solo uno di questi in tutta la sua vita, ed era stato proprio quello per Bridgette. La festicciola in realtà non era andata tanto male, fino a quando non erano entrati in gioco gli spogliarellisti ed era diventata un delirio. Era scappata via di nascosto.
A Gwen aveva detto, prima di arrivare in città, che non avrebbe organizzato nulla e lei, sebbene avesse provato a replicare più volte, alla fine aveva ceduto. Peccato che qualcun altro se n’era ricordato e che aveva deciso di occuparsene al posto suo.
«D’accordo, consideralo fatto» le annunciò, mentre il suo cervello aveva già elaborato un piano infallibile.
Da quando aveva messo piede a Vancouver, desiderava visitare la città per bene ma, per via dei numerosi imprevisti che non avevano fatto altro che accavallarsi, non ne aveva ancora avuto il tempo. Sarebbe quindi bastato chiedere a Gwen di farle fare un tour panoramico e costringerla, contro la sua volontà, a portarla a fare shopping.
«Spero che non ti dispiaccia che io abbia fatto un lavoro che spettava a te» le disse Bridgette vagamente dispiaciuta. «Ho agito con buoni propositi».
«Non ti preoccupare» l’anticipò lei. «Non fa nulla».
«Perfetto, allora ci vediamo stasera!»
«A stasera».
Courtney sospirò, poggiando il palmare sul tavolo e tornando alla sua colazione.
«Qualcosa non va, dolcezza?» chiese una voce al suo orecchio, facendola sussultare.
«Ma sei pazzo?» quasi gridò lei, mentre Duncan prendeva posto al suo fianco, ridacchiando. «Rischiavi di uccidermi».
«Sai che gran perdita» scherzò, abbozzando un ghigno.
La frase gli costò uno schiaffo sulla spalla.
«Okay, ti chiedo scusa, non lo dirò mai più» disse sarcastico, alzando le mani e scansandosi. Poi intercettò la sua espressione corrucciata e le sue braccia incrociate e strette contro il petto e, a quella visione, non poté non scoppiare a ridere.
Lei voltò la testa dal lato opposto, ancora più offesa di prima.
«Sei troppo permalosa» dichiarò e, prima che potesse insultarlo, si affrettò ad aggiungere: «Ad ogni modo, penso che senza di te morirei».
Come aveva sperato, l’ultima affermazione la fece sciogliere. Provò a rispondergli qualcosa, ma dalla sua bocca non ne uscì nulla; nel frattempo le guance le si erano colorate di rosso, cosa che nascose subito chinandosi sul suo piatto, e le nacque un sorriso sincero sulle labbra.
Subito si riprese, cercando di tornare al suo atteggiamento consueto, freddo e distaccato.
Era stato difficile ammettere di amarlo, ora non poteva darlo a vedere con così tanta facilità. Aveva pur sempre una dignità, accidenti! Non poteva comportarsi come un’adolescente alla sua prima cotta.
«Certo che moriresti» affermò con convinzione. «Perché non ci sarebbe nessuno a salvarti dai guai».
Lo vide sghignazzare e il suo cuore mancò un battito.
Tentò di spazzare via dalla sua mente quell’immagine adorabile, tornando a concentrarsi su ciò che l’attendeva di lì a poche ore.

Un’altra serata da dimenticare.

 
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Ore otto e sette di sera.

«Dammi una buona ragione per cui stiamo andando a questo addio al celibato» sbottò John, non appena lui e Duncan scesero alla fermata davanti al locale.
Ormai è risaputo che il nostro ragazzo detestava ogni tipologia di festa per un semplice motivo, l’abbondanza di contatto umano. Non gli era mai piaciuto passare più del tempo necessario - massimo cinque minuti - in compagnia di troppa gente.
«Ehm, perché sono divertenti?» disse Duncan, dopo averci pensato su per bene.
«Wow, che motivazione brillante, Watson!» borbottò, roteando gli occhi.
«Siamo già in ritardo, come sempre per colpa tua. Se, inoltre, devi passare la serata a lamentarti, puoi benissimo prendere un taxi e tornare in albergo» incarò il moro irritato.
Si precipitò nel locale, intenzionato a mettere fine alla conversazione e a godersi una festa tranquilla, seguito a ruota da John. Subito i due furono investiti da un uragano di musica e luci neon. Dovettero ammettere che Adam aveva fatto le cose in grande.
«Ehilà ragazzi, benvenuti!»

Parli del diavolo e spuntano le corna.
«Grazie amico» lo salutò Duncan. «Trent è già qui?»
«Non è ancora arrivato». E poi, rivolto a tutti gli invitati, aggiunse urlando: «Giro di vodka per tutti!»
La proposta fu accolta da un sonoro boato.
«Credo proprio che seguirò il tuo consiglio» borbottò John, che lo seguiva come se fosse la sua ombra.
Era stato diverse volte ad una festa con lui e ogni volta se n’era pentito. Non gli bastava isolarsi da tutto e tutti, doveva anche esporre tutto il suo disappunto e lamentarsi del baccano ogni cinque secondi.
Ricordava che una volta, durante un compleanno di un amico in comune, l’aveva tormentato per forse quattro ore ripetendogli la stessa frase, che si era insinuata nel suo encefalo come il ronzio di un martello pneumatico: «Quando ce ne andiamo?»
Pur di non sentirlo più, era stato costretto a riaccompagnarlo a casa - perché ovviamente gli aveva anche scroccato il passaggio - prima che tagliassero la torta.
«Bevi e stai zitto» gli ordinò secco, allungandogli un bicchiere di vetro preso dal bancone.
Quella sera, però, aveva intenzione di farlo ubriacare, così entrambi avrebbero passato una serata tranquilla.
Si sporse per prendersi un drink anche per sé, quando qualcuno gli diede una sonora pacca sulla spalla, accompagnata dalla frase: «Ehi, fra-amigo
Si voltò verso la fonte di quella voce e si ritrovò davanti i capelli setosi e gli occhi color smeraldo di Alejandro.
«Ehi fratello, da quanto tempo!» esclamò, ricambiando la pacca.
Non era cambiato di un millesimo, dovette ammettere. Sempre avvenente e muscoloso come un tempo.
«Finalmente sei arrivato, amico!»
«Oh, che gioia rivederti!»
A parlare erano stati Geoff e Owen, il secondo dei quali lo aveva stretto in un abbraccio così forte da rischiare di soffocarlo, che lo avevano intercettato tra la folla.
Li salutò entrambi battendo loro il pugno.
«Porca paletta, che fine ha fatto la cresta?» chiese il ragazzone, che negli ultimi sei anni sembrava aver levato qualche chilo.
«L’ho tolta un po’ di tempo fa ormai» rispose, con una vaga nota nostalgica. «Voi che mi raccontate, ragazzi? Vedo che ti stai lasciando crescere la barba, Geoff».
«Sì, mi dona un aspetto più maturo, non trovate?» si vantò quello, passandosi una mano sulla leggera peluria bionda che gli spuntava dal mento.
Le chiacchiere dei quattro amici furono interrotte da dei colpi di tosse. John aveva assistito a tutta la scena, con il bicchiere di vodka sospeso ancora a mezz’aria.
«Non dimentichi nulla, ex cresta verde?» domandò, indicandosi.
Duncan aveva quasi dimenticato il suo brutto vizio  di interrompere le conversazioni, solo per potersi inserire e criticare e lagnarsi ancora di più. Alle volte - per non dire sempre- sapeva essere davvero insopportabile.
«Signori, permettetemi di presentarvi John» sbuffò roteando gli occhi. «John, loro sono Alejandro, Owen e Geoff» li presentò a loro volta, indicandoli uno ad uno non appena li chiamava.
Il bruno allungò la mano verso ognuno dei tre, cercando di comportarsi in modo più cordiale possibile.
«Wow, sei davvero tu? Sei quel famoso John?» chiese Geoff ammirato, stringendogli saldamente la mano.
Prima che potesse capire cosa rispondere, lui aggiunse in fretta: «È un piacere conoscerti, tu sei una star, amico! Duncan ci ha raccontato ogni singolo particolare su di te. È vero che una volta hai bruciato la cucina, mentre cercavi di cucinare dei pancake, e hanno dovuto evacuare l’intero appartamento?»
Aprì la bocca per dire qualcosa.
«Oh, è vero,» si intromise Owen richiamando la sua attenzione, mentre la sua mascella si richiuse di scatto, «che lavoravi ad un fruttivendolo e sei stato licenziato, perché una vecchietta non sapeva che tipo di arance volesse e tu gliele hai lanciate addosso tutte?»
«Ed è vero,» disse Alejandro con un sorrisetto mellifluo, «che tu e Duncan avete una sorta di relazione omosessuale?»
«Come scusa?» sbottò lui all’improvviso, stordito come se fosse appena caduto dalle nuvole.
Fino a quando le sue orecchie non avevano percepito quella frase, la situazione cominciava a piacergli. Se c’erano due cose che lui amava quelle erano stare al centro dell’attenzione ed essere adulato dalle masse.
«Dal resoconto delle avventure che avete trascorso insieme, sembra proprio che voi due siate una coppia» sghignazzò il bel latino. «Non ufficializzata, ma comunque a tutti gli effetti».
Scoppiarono a ridere tutti, compreso - e qui John lo incenerì con lo sguardo - Duncan. Improvvisamente gli venne voglia di lanciargli la sua vodka in faccia.
Prima che potesse prenderli tutti e quattro a parolacce,  Adam richiamò nuovamente l’attenzione su di sé.
«Lo sposo è arrivato» annunciò solenne, sollevandogli il braccio, come se avesse vinto un’importante competizione, in modo tale che lo vedessero tutti.
Era elegantissimo nel suo completo grigiastro, anche se i capelli e la barba gli donavano comunque un aspetto trasandato.
Qualcuno gridò al “discorso” e, prima che potesse accorgersene, lo avevano aiutato a salire sopra il bancone e gli avevano allungato della vodka.
«È bello vedervi tutti qui a festeggiare la mia ultima notte da scapolo con me» cominciò, non appena ottenne il silenzio assoluto. «Non voglio tediarvi troppo con le mie parole, quindi mi limiterò ad un semplice invito: divertiamoci!» e alzò il bicchiere verso l’alto e poi bevve un lungo sorso, imitato da molti altri.
Tutto attorno a lui si alzarono applausi, grida e fischi di approvazione.
E la festa cominciò.

 
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Ore otto e trentuno.

«Ora possiamo, per favore, tornare a casa? Comincio ad avere fame» chiese stremata Gwen con una leggera nota di supplica nella voce, guardando con la coda nell’occhio Courtney che, seduta sul sedile del passeggere, era intenta a vedere qualcosa sul suo palmare.
«Certo che sì, sono pur sempre le otto e mezza!» rispose lei come se fosse la cosa più scontata del mondo, rimettendo il cellulare in borsa e sistemandosi le pieghe del vestitino bianco. Poi, rivolta verso di lei, aggiunse: «È stata una bella giornata, non è vero?»
Si limitò ad annuire con la testa, senza aggiungere nessun tipo di risata o frase sarcastica.
Certo, si era divertita a mostrarle Vancouver, ma non era stato altrettanto spassoso entrare in ogni singolo negozio del centro, provarsi un’infinità di vestiti, stare lì dentro per interi quarti d’ora, e riuscire a mani nude.
Poi si accese una lampadina nella sua testa.
L’ultima volta che la sua amica si era comportata così, lei e Trent avevano escogitato un piano malefico per organizzare una semplicissima festa a sorpresa per il suo compleanno, che si era dimostrata una delle esperienze peggiori della sua vita. E se stesse preparando qualcos’altro di simile?
«Courtney, tesoro, cos’hai in mente?» le domandò tentando un pessimo approccio gentile.
«Assolutamente nulla» le sorrise lei angelica.
Evidentemente si era accorta della nota sospetta nella sua frase, motivo per cui aveva mentito spudoratamente.
Gwen decise tuttavia di non dire nient’altro per tutto il viaggio di ritorno. Insistere non sarebbe servito a nulla.
Parcheggiò davanti casa e, percorrendo il vialetto, si preparò psicologicamente al peggio.
«C’è qualcosa che dovrei sapere?» le chiese di nuovo, aprendo la porta. La curiosità e il terrore la stavano divorando dentro.
«Direi di no» disse lei convinta, seguendola dentro l’appartamento.
Accese l’interruttore della luce, posizionato alla sinistra della porta, e una trentina di voci diverse urlarono «Sorpresa!», facendola sobbalzare, e altrettante persone uscirono da disparati angoli della casa.
Poi si rese conto che tutto il soggiorno era addobbato a festa, pieno di stelle filanti e festoni in ogni dove.
E infine riuscì ad analizzare meglio i volti delle presenti, tutte vecchie compagne di liceo o ex concorrenti del reality. Bridgette col pancione che cominciava ad intravedersi da sotto il vestito azzurro, Heather con il solito sguardo da vipera stampato in faccia, Leshawna decisamente ingrassata, Lindsay con i seni ancora più grossi di prima, Izzy e la sua faccia eternamente da ragazzina…
«Wow!» fu l’unica cosa che riuscì ad esclamare, mentre diverse braccia facevano a turno per abbracciarla. «Non me l’aspettavo».
Le salutò una ad una, chi più affettuosamente e chi meno, limitandosi ad un cenno del capo quando arrivò ad Heather, la quale si limitò a guardare in un’altra direzione.
«Non avevi detto che non avresti organizzato nulla?» chiese dubbiosa a Courtney, dopo aver scambiato qualche parolina con ognuna di loro.
Scosse la testa: «Ha fatto tutto Bridgette» ammise a bassa voce, accennando verso quella.
«Beh, grazie a tutte per essere venute» disse più forte, posizionandosi in modo tale che tutti potessero sentirla e vederla. «Sono felice che siate qui, anche se tutte queste attenzioni mi mettono un po’ a disagio».
Seguì una risatina generale.
«Propongo un brindisi!» proruppe Bridgette, decisa a prendere in mano le redini di quell’addio al nubilato.
Si precipitò in cucina, che sembrava conoscere molto bene, e tornò poco dopo con un vassoio pieno di calici e una bottiglia di costoso champagne. Lo aprì e lo verso accuratamente nei bicchieri, passandoli a tutte le invitate.
«A Gwen» annunciò, non appena tutte ebbero il proprio. «Con la speranza che il suo matrimonio possa essere felice quanto il mio!»
Un tintinnio riempì subito la stanza.
Gwen, circondata da tutto quell’affetto, sorrise spontaneamente.

 
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Ore nove e quarantadue.

«Oh, e vi ricordate quando abbiamo rubato tutti i vestiti ad Harold?»
«Oh sì, è stato troppo esilarante vederlo correre per il campo con solo un cuscino».
Duncan, Geoff, Dj e Owen, tutti e quattro piuttosto brilli per via dell’alcol, sedevano ad un tavolino in fondo al locale e raccontavano storie dei tempi del reality, ridendo e scherzando.
«E quando Owen ha dovuto recuperare quella chiave legata al collo di un orso? Mitico!»
«Beh, Geoff, a te non andò tanto meglio. Sbaglio o dovetti tuffarti nella fossa biologica?»
Un’altra ondata di risate.
«Come va la gravidanza di Bridgette?» chiese Dj, il più sobrio dei quattro.
«Oh, alla grande!» disse il biondo. «Fino a quando non comincia a fare richieste assurde o a piangere istericamente. Allora sì che diventa una vera e propria palla al piede!»
«Amico, non parlarmene» lo compatì Duncan, bevendo un altro sorso di brandy. «Sono sei anni che sopporto Courtney».
«A proposito, come va con lei?»
«È pazza di me» si limitò a dire con un ghigno dipinto in volto, sorvolando su quale fosse la dura realtà. Non poteva di certo dire che, dopo sei lunghi anni di corteggiamento, ancora non aveva ceduto, il suo ego ne avrebbe risentito.
«Tu Owen, invece?» domandò poi, cercando di spostare le attenzioni da sé. «Ti sei già pentito della convivenza con Izzy?»
I due, dopo diversi tira e molla e dopo che il ragazzone ebbe insistito un po’, avevano deciso di compare casa nella periferia di Toronto. Vivevano assieme da circa un anno e mezzo.
«Niente affatto, io la adoro!» esclamò estasiato lui. «Certo, potrebbe evitare di svegliarmi nel cuore della notte facendomi acchiappare degli infarti, ma la adoro!»
«Ora basta parlare di donne, altrimenti il nostro amico Dj si deprime» disse Geoff, cingendogli le spalle con un braccio, avendo notato il suo disagio. Dopo sei anni, infatti, viveva ancora con sua madre e non era ancora riuscito a staccarsi da lei.
«Giusto» convenne Duncan e, sporgendosi, urlò a chissà chi: «Un altro giro di brandy!»
«Allora ragazzi, vi state divertendo?» chiese ad alta voce Trent, raggiungendoli e sedendosi su un pouf libero.
«Come non mai!» esultò Owen, finendo di bere il suo drink. «E quanto era bella la canzone. Cavolo, avevo le lacrime agli occhi».
Adam lo aveva praticamente costretto a cantare il brano che aveva scritto per Gwen davanti a tutti, per poi bagnare lui e tutti coloro che erano sotto il palco con una bottiglia di spumante.
«Stavamo rievocando i vecchi tempi» spiegò Dj. «Ti unisci a noi?»
«Volentieri».
Ma il gruppetto fu interrotto da un grido di giubilo proveniente dalla pista da ballo. Si trattava di John, ubriaco fradicio, che sventolava i suoi pantaloni come se fossero una bandiera, mentre improvvisava una danza gioiosa.
«Viva la vita!» urlò senza un apparente motivo.
Successivamente fu colto da un conato di vomito e tutti gli stuzzichini, che aveva ingerito non molto tempo prima, finirono con lo spandersi per tutta la pista da ballo. Conseguì un verso disgustato di quelli nelle vicinanze.
Duncan, alla vista di quella scena ripugnante, scoppiò a ridere rumorosamente con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Come sempre, da sbronzo sapeva donare degli spettacoli unici.
«Ed ecco, ragazzi,» annunciò ai quattro amici, che lo fissavano come se fosse impazzito di colpo, «perché ho deciso di far ubriacare completamente John».

 
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Ore undici e dodici.

Doveva aspettarselo, Courtney. La festa era stata troppo tranquilla fino a quel momento: si erano limitate a delle semplici chiacchiere, davanti a delle pizze, e ad alcuni stupidi giochi da liceo. E poi era avvenuta la svolta.
Si scoprì che Bridgette aveva invitato degli spogliarellisti e adesso, al lume di diverse candele sparse qua e là, quei tre ragazzi dal corpo marmoreo si muovevano in modo sensuale, sul ritmo di una musica dance, al centro del salotto. Tutto intorno, Katie e Sadie discutevano su chi fosse il migliore, Leshawna - palesemente ubriaca - si era sfilata il reggiseno e lo aveva lanciato verso di loro, e Lindsay flirtava con lo sguardo con il più alto dei tre. Gwen, la sposa, fu tirata al centro e fatta sistemare su una sedia, mentre gli spogliarellisti la stuzzicavano danzando attorno a lei.
Tutto ciò sapeva di déjà-vu.
A Courtney cominciava ad esplodere la testa. Se fosse rimasta un secondo di più lì dentro, sarebbe impazzita.
Si liberò dalle chiacchiere di Bridgette e Beth, due delle poche ancora sobrie - una per via della gravidanza, l’altra perché astemia -, con una scusa patetica e, afferrando il suo calice colmo di vino rosso, uscì nel cortile, appoggiandosi stremata con la schiena contro il muro. Quei fastidiosissimi beat sembravano lontani.
Non si era mai sentita a suo agio a feste del genere; difatti, quando vi veniva invitata al liceo, molto spesso rifiutava. Semplicemente, quel ambiente rumoroso non faceva per lei, abituata alla quiete e al rigore.
«Stai cercando di scappare anche da questo addio al nubilato?» chiese qualcuno con tono strafottente, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
Si voltò lentamente e vide Heather accanto alla sua destra, con una sigaretta in bocca e le labbra piegate in un sorrisetto mellifluo. Era stata così silenziosa che non l’aveva sentita arrivare.
«Avevo solo bisogno di una pausa» sospirò, bevendo un sorso di vino.
La mora le allungò un pacchetto di sigarette, come tacito invito a prenderne una.
«Non fumo» rispose secca.
Lei si limitò ad accendere la sua con un accendino fucsia e a fare un lungo tiro.
Stettero in silenzio a lungo. Non si erano mai andate a genio e non avevano granché in comune, non avrebbero comunque avuto nulla da dirsi.
«A quanto pare, tra te e Duncan va sempre meglio» disse all’improvviso Heather.
Courtney dovette impedire che il vino non le andasse di traverso. Come mai si interessava alla sua vita sentimentale?
«Ho sentito dire che avete fatto il viaggio assieme e che alloggiate nello stesso hotel» continuò, notando lo sguardo spaesato sul volto della bruna. «E, sempre a giudicare dalle conversazioni con la darkettona e la surfista, vi frequentate assiduamente. Addirittura le serenate sotto l’ufficio!» E qui si fermò per ridacchiare. Una volta che si fu ripresa, aggiunse: «Insomma, eravate già affiatati dal matrimonio di Geoff e Bridgette, e adesso questo».
Courtney si sentì avvampare.
«Non stiamo da soli, c’è un amico con noi» si affrettò a spiegare, rimanendo comunque sul vago. «E non è così semplice come immagini».
«Peccato» sillabò lei, prima di fare un altro tiro.
Decisamente, dietro quello che aveva origliato c’era un mondo intero.
«Tu e Alejandro, invece?» domandò all’improvviso, forse più per cortesia che per vero interesse.
Dopo la terza stagione, lui e Heather avevano avuto modo di rincontrarsi e, a seguito di un lungo corteggiamento durato per mesi, il bel ragazzo era finalmente riuscita a farla innamorare. Da allora non si erano mai lasciati e vantavano ben cinque anni di fidanzamento.
«Bene» si limitò a dire, ma qualcosa nel suo sguardo faceva presagire che c’era dell’altro. Sembrava, infatti, in preda ad una battaglia interiore.
Poco dopo, sospirando, annunciò: «Mi ha chiesto di sposarlo».
«Davvero?» quasi esclamò Courtney, con un sorriso raggiante. «E cosa le hai risposto?»
«Sono scappata».
Non capiva. Quei due si amavano alla follia, non aveva potuto fare a meno di notarlo al matrimonio di Bridgette e Geoff: il modo in cui si guardavano, come battibeccavano amorevolmente su qualunque cosa, i baci che si scambiavano. Erano palesemente fatti l’uno per l’altra, perché era così indecisa?
«Lui ti ama» dichiarò ingenuamente. «E tu ami lui».
«Non è così semplice come immagini» disse Heather con un piccolo ghigno.
Stranamente, quella sera a nessuna delle due dette fastidio la presenza dell’altra.

 
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Ore undici e trentasette.
Bastarono poche bottiglie di birra per far degenerare quell’addio al celibato. Coloro che in quel locale erano ancora sobri e in pieno possesso delle loro facoltà mentali si contavano sulle dita di un'unica mano.
Le luci a led guizzavano abbaglianti e quel brano techno rimbalzava contro le quattro pareti e si amplificava ripetutamente nella testa di chiunque.
Sul palco due spogliarelliste attraenti e formose davano spettacolo, strusciandosi contro Trent, spinto lì a forza, che sembrava molto a disagio.
Quelli più vicini lanciavano banconote e foglietti con numeri di telefono, con la speranza vana di essere ricontattati. Altri si limitavano soltanto ad incitarle a fare di più, lasciandosi andare in lunghi fischi e ululati.
Più dietro, la gente ballava in modo confusionario, cosa dovuta al troppo alcol, e ogni tanto urlava frasi sconnesse. Addossati in fondo, i fumatori avevano alzato una nube densa di fumo.
«Un’altra birra?» chiese Geoff, alzando una bottiglia colma fino all’orlo.
John, che non si reggeva in piedi, si avvicinò barcollando e la afferrò, dopodiché si appoggiò a Duncan, la persona più vicina, e cominciò a berla, sbrodolandosi tutto.
Non fece nemmeno in tempo a finirla, che dovette correre urgentemente in bagno. Alla fine, essendo troppo lontano, decise di vomitare dietro il bancone.
«Dacci dentro, amico!» lo incitò Duncan assistendo alla scena, finendo di bere la bottiglia che gli aveva lasciato prima di darsela a gambe.
Ma fu un errore madornale, quell’ultimo lungo sorso. Prima che potesse realizzare, aveva raggiunto John ed prese a vomitare l’anima assieme a lui, il tutto sotto le grida di approvazione di Geoff e Owen.
Una notte memorabile.

 
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19 luglio, ore dodici e quarantotto di notte.

Trent, forse l’unico ancora in condizioni decenti, aveva caricato John e Duncan, non potendo tornare da soli in quello stato, sul sedile posteriore della propria auto e adesso sfrecciava a cinquanta chilometri orari lungo le strade di Vancouver, diretto a casa dove sapeva che avrebbe trovato anche Courtney, mentre la radio sparava a volume basso una piacevole canzone jazz.
«Allora, dov’è questo pub?» chiese Duncan, dopo un paio di minuti trascorsi nel silenzio.
Effettivamente, si era limitato a rifilare loro una scusa patetica, ovvero che la festa sarebbe continuata altrove, perché il proprietario del locale li aveva cacciati. Loro, per quanto ubriachi e storditi erano, ci avevano creduto. In realtà voleva solo strapparli via da quell’addio al celibato, che minacciava di protendersi per tutta la notte, prima che potessero sentirsi male.
«Vi ho mentito» rispose con sincerità. «Vi sto riportando da Courtney».
«Bugiardo!» lo accusò John. «Voglio tornare alla festa!»
Ma Trent non disse altro, continuando a guidare indisturbato.
Il bruno si voltò verso il suo compagno e gli disse: «Avevi ragione, mi sono divertito».
«Io ho sempre ragione» si vantò, e singhiozzò.
«Sei il mio migliore amico, ti voglio bene» confessò.
E poi successe qualcosa di straordinario, qualcosa che da sobrio non avrebbe mai fatto: si avvicinò alla sua guancia e vi scoccò un bacio rumoroso. Duncan non fece una piega; anzi, sembrò piacergli.
«Wow, è proprio vero che l’alcol fa miracoli!» esclamò Trent colpito, che aveva osservato tutta la scena dallo specchietto retrovisore.
Una volta al 126 di Thompson Boulevard, li aiutò a percorrere il viale e, con delle leggere spinte, li condusse dentro l’appartamento, dove Gwen e Courtney erano intente a togliere tutti quei festoni.
«Siamo a casa» annunciò, buttando i due ragazzi, più morti che vivi, ma comunque felici, sul divano.
Subito la bruna si gettò su Duncan e John, con lo sguardo preoccupato che ha una madre quando suo figlio torna tardi. E forse era proprio quello Courtney, per quei due: una mamma pronta a crescerli, accudirli, sgridarli quando necessario e tirarli fuori dai guai.
«Mio Dio, cos’hanno fatto?» chiese con ansia e in preda al panico. «Stanno male?»
«Hanno solo bevuto un po’ troppo» spiegò Trent, stringendo la sua quasi moglie per la vita. «Qui com’è andata, invece?» domandò, dandole un bacio sulla testa.
«Tutto bene» rispose Gwen, sorridente. «Sai, le solite festicciole di Bridgette. Niente di che».
Già, proprio niente di che.
«Dai Courtney, vi riporto in hotel» si propose il moro, ricacciando le chiavi della macchina dalla tasca. «Hanno bisogno di riposare».
«Grazie Trent, sei un tesoro» lo ringraziò frettolosamente lei, troppo impegnata ad accertarsi che stessero veramente bene.
Salutò Gwen con un abbraccio e si caricò Duncan in spalla, mentre il ragazzo faceva lo stesso con John. Guardandoli, si disse che il mestiere di mamma alle volte era davvero faticoso.

 
• • •

 
L’una e ventotto.
«Tieni, questo ti aiuterà» disse Courtney, allungando un bicchiere colmo d’acqua in cui aveva versato una bustina di aspirina a John.
Si alzò a fatica dal letto, sul quale era inchiodato da un tremendo mal di testa, si allungò per prenderlo e bevve tutto in un solo sorso. Dopodiché, ripiombò disteso a peso morto, lamentandosi.
«Così imparerete a bere responsabilmente, una volta per tutte» cantilenò lei.
Non era la prima volta che tornavano completamente ubriachi, alle volte singolarmente e altre insieme, e che si era vista costretta a prendersi cura di loro.
«Per te» disse, dando un bicchiere identico anche a Duncan, che sedeva sul bordo del letto con la testa tra le mani.
«Lo berrò dopo» borbottò con voce rauca, poggiandolo sul comodino.
«Cercate di dormire» li raccomandò affettuosamente.
Poi si girò di scatto e si incamminò verso l’uscita.
«Non andartene» la bloccò la voce di Duncan, prima che potesse afferrare la maniglia, la mano ancora sospesa a mezz’aria.
«Che c’è?» gli chiese.
Lui si avvicinò lentamente e le prese le mani. Il suo battito cardiaco accelerò.
Restarono a guardarsi in silenzio, accompagnati dal russare sommesso di John, che si era addormentato subito.
Quando dormiva così tranquillamente, poteva benissimo essere scambiato per un angioletto. Nessuno, vedendolo così, avrebbe potuto immaginare che, da sveglio, potesse essere un essere rumoroso, ingombrante e sputasentenze.
«Non andartene» ripeté. E, esitante, aggiunse in un mormorio: «Ho bisogno di te».
A quella dichiarazione, la parte più irrazionale di Courtney - che stranamente esisteva, sebbene fosse segregata in qualche angolo oscuro e remoto - esultò e cominciò ad urlare di gioia, contenta che anche lui ricambiasse i sentimenti.
Ma la parte razionale la soppresse subito, ricordandole che il ragazzo era completamente ubriaco e che, probabilmente, non aveva una vaga idea di quello che stava dicendo.

Anche se, dopotutto, quel vecchio proverbio non recitava forse “in vino veritas?
«È l’alcol che sta parlando» disse risoluta, e nella sua voce c’era una nota di delusione.
Duncan la sorprese, avvinandosi pericolosamente al suo viso.
«Credimi,» sussurrò ad un centimetro dalle sue labbra, «non sono mai stato più sobrio di così».
Lei non ne era convinta, ma non fece mai in tempo a replicare. Bastò un nonnulla per far incontrare le loro bocche in un rapido bacio, piatto e senza alcun tipo di passione. Non sentì nulla, se non un leggero retrogusto di birra.
«I baci da ubriaco non contano» replicò Courtney tristemente, fissandolo dritto negli occhi. Quell’azzurro risaltava ancora di più al buio. «L’hai detto tu».
Il ragazzo, inizialmente confuso, biascicò: «Pensavo non te lo ricordassi».
Ed era vero, ricordava poco e niente di quella serata, se non la bottiglia di sherry che si era scolata tutta in una botta e di come ci aveva spudoratamente provato con Duncan, saltandogli addosso. Ringraziando il cielo, egli ebbe il buonsenso di fermarla.
Quando, il giorno dopo, le raccontò cosa fosse successo, gli fece giurare che mai e poi mai ne avrebbe parlato con nessuno. Da allora anche lei aveva provato a dimenticare.
«Lo pensavo anch’io» ammise. «Ora, va’ a letto» gli ordinò sorridendo, ritirando le mani dalle sue.
Non doveva andare così, non voleva che Duncan si dichiarasse e che il mattino successivo non ricordasse nulla. E baciare un ubriaco era zero emozioni; avrebbe voluto che quel tanto agognato contatto di labbra le avrebbe stretto il cuore fino a farlo sanguinare.
Uscì dalla stanza, lasciandolo lì solo, immobile e ancora più scosso di prima.

 

 

 

 

 

 

Angolo dell’autrice
Ultimamente sto sfornando un capitolo dopo l’altro. Non potete capire quanto sia bello essere così ispirati e scrivere tutto di getto!
Mi sento triste, questo è il penultimo capitolo e quindi il penultimo angolo dell’autrice per quanto riguarda questa storia. Avevo dimenticato la sensazione di malinconia che ti assale quando stai per concludere una fan fiction.
Ma bando alle ciance, passiamo al capitolo!
È molto confusionario, succedono un sacco di cose tutte assieme. Non sono brava a descrivere le feste, mi sono limitata a far percepire il caos che regna nella maggior parte dei paragrafi.
Si comincia anche ad approfondire la parte sentimentale della storia, che già da qualche capitolo era in secondo piano. Un esilarante John ubriaco confessa a Duncan di essere il suo migliore amico e sugella il tutto con un bacio sulla guancia; un altrettanto Duncan sbronzo finalmente si dichiara a Courtney, ma viene “rifiutato”. Sì, questi due vi - e ci - faranno patire fino alla fine.
Il matrimonio è alle porte e noi ci avviamo verso questo romantico epilogo. Cosa succederà mai? Lo scoprirete soltanto leggendo!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, ci vediamo prossimamente con il prossimo - ed ultimo.
Un grande abbraccio!

Hayle xx

  
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