La
storia inversa
«Fiori
d’arancio e improbabili complicazioni»
Venerdì«
Vancouver,
Columbia Britannica, Canada.
18 luglio, ore otto e quindici del mattino.
Dopo
essersi svegliato ad un orario improponibile ieri mattina, John non
intendeva
alzarsi da quel letto prima delle undici.
Courtney,
inoltre, gli aveva giurato che in alcun modo avrebbe provato ad
attentare alla
sua vita, così com’era successo
martedì, quando erano partiti. Aveva anche
aggiunto che quella giornata sarebbe stata di riposo assoluto,
poiché
l’indomani ci sarebbe stato il matrimonio, e che intendeva
uscire solo per fare
una passeggiata per il centro di Vancouver.
Sarebbe,
perciò, stata una mattinata tranquilla. Fino a quel momento.
Una rumorosissima
chitarra elettrica partì a tutto volume, ridestandolo dal
suo sonno e
costringendogli a soffocare un’imprecazione vergognosa contro
il cuscino. Si
trattava della suoneria di Duncan.
«Imbecille,
il telefono» disse con la bocca impastata di sonno,
riempiendolo di calci fino
a quando non lo sentì muoversi. «La prossima volta
metti il silenzioso»
borbottò, rigirandosi per cercare la posizione
più adeguata per
riaddormentarsi.
Duncan
lo guardò malissimo - avrebbe potuto scegliere un modo meno
traumatico e doloso
per chiamarlo -, prima di accettare la chiamata.
«Pronto?»
chiese con voce rauca, trattenendo uno sbadiglio.
«Buongiorno
Duncan, sono Trent» la voce squillante del moro gli
riempì le orecchie. Tutta
quella felicità glielo fece odiare per un secondo.
«Ciao
Elvis» borbottò.
«Mi
dispiace se ti ho svegliato, ma è una cosa
importante» si scusò, percependo il
suo tono poco gentile e piuttosto indisponente.
Si
disse che nessuna cosa era abbastanza importante per svegliarlo alle
otto di
mattina di un comunissimo venerdì di vacanza.
«Adam
sta organizzando l’addio al celibato al locale questa sera, e
ovviamente tu e
John siete invitati».
Tutto qui?
Decisamente,
confermò, quella cosa non era importante quanto il suo sonno
interrotto.
«Ovviamente
ci saremo» si limitò a dire.
Dopotutto,
sarebbe stato divertente andare ad un addio al celibato, dopo due anni
dall’ultimo. Ricordava come era degenerato quello di Geoff,
quando avevano
aperto quelle casse di birra. Bridgette non seppe mai cosa fosse
successo
quella notte. Ed era meglio così.
Magari,
anche se Trent era un santarellino, anche quello sarebbe diventato
memorabile.
Dopotutto, Adam non sembrava responsabile e cosciente come lui.
«Perfetto,
allora ci vediamo stasera».
«A
dopo» lo salutò.
Riattaccò
e ripoggiò il cellulare sul comodino, ripiombando sul
materasso con tutta la
sua non-grazia. Poco dopo, constatando che non riusciva più
a riaddormentarsi,
decise di alzarsi e cominciare quella giornata.
«John»
disse, chiamando l’organismo pluricellulare che giaceva sul
letto, prima di
infilarsi in bagno. «Stasera andiamo all’addio al
celibato di Trent».
«Okay,
bello schifo» mugugnò lui.
E,
almeno lui, cominciò a ronfare, felice e beato.
•
• •
Ore otto e
quarantotto.
Courtney
sedeva tutta sola ad un tavolo in fondo alla sala, intenta a consumare
la sua
colazione in tutta tranquillità, quando il suo telefono
prese a squillare.
Sbuffando,
lesse il nome sul display e rimase sorpresa.
«Pronto,
Bridgette?» chiese, rispondendo alla chiamata.
«Ehi
ciao, Courtney» esclamò lei dall’altra
parte della cornetta. «È da un po’ che
non ci sentiamo».
Ed era
vero, l’ultima volta risaliva a Natale. Dopo le nozze con
Geoff, infatti, si
era trasferita ad Orlando, in Florida, e non avevano avuto
più modo di vedersi,
tranne quando entrambi venivano a trovare i genitori per le
festività.
Era
l’unica ragazza del reality, dopo Gwen, con cui aveva
mantenuto dei buoni
rapporti.
«Già»
affermò. «A cosa devo il piacere di
questa telefonata?»
«So che di solito a queste cose pensa
la testimone di nozze, ma so anche che sei una donna impegnata e che
non dà
conto a cose frivole» cominciò lei.
«Avevo pensato di organizzare un addio al
nubilato per Gwen, stasera a casa sua. Ho già pensato a
tutto, devi solo fare
in modo di tenerla alla larga fino alle otto e mezza».
Courtney odiava gli adii ai nubilati.
Aveva partecipato a solo uno di questi in tutta la sua vita, ed era
stato
proprio quello per Bridgette. La festicciola in realtà non
era andata tanto
male, fino a quando non erano entrati in gioco gli spogliarellisti ed
era
diventata un delirio. Era scappata via di nascosto.
A Gwen aveva detto, prima di arrivare
in città, che non avrebbe organizzato nulla e lei, sebbene
avesse provato a
replicare più volte, alla fine aveva ceduto. Peccato che
qualcun altro se n’era
ricordato e che aveva deciso di occuparsene al posto suo.
«D’accordo, consideralo fatto» le
annunciò, mentre il suo cervello aveva già
elaborato un piano infallibile.
Da quando aveva messo piede a
Vancouver, desiderava visitare la città per bene ma, per via
dei numerosi
imprevisti che non avevano fatto altro che accavallarsi, non ne aveva
ancora
avuto il tempo. Sarebbe quindi bastato chiedere a Gwen di farle fare un
tour
panoramico e costringerla, contro la sua volontà, a portarla
a fare shopping.
«Spero che non ti dispiaccia che io
abbia fatto un lavoro che spettava a te» le disse Bridgette
vagamente
dispiaciuta. «Ho agito con buoni propositi».
«Non ti preoccupare»
l’anticipò lei.
«Non fa nulla».
«Perfetto, allora ci vediamo stasera!»
«A stasera».
Courtney sospirò, poggiando il palmare
sul tavolo e tornando alla sua colazione.
«Qualcosa non va, dolcezza?» chiese una
voce al suo orecchio, facendola sussultare.
«Ma sei pazzo?» quasi gridò lei, mentre
Duncan prendeva posto al suo fianco, ridacchiando. «Rischiavi
di uccidermi».
«Sai che gran perdita» scherzò,
abbozzando un ghigno.
La frase gli costò uno schiaffo sulla
spalla.
«Okay, ti chiedo scusa, non lo dirò mai
più» disse sarcastico, alzando le mani e
scansandosi. Poi intercettò la sua
espressione corrucciata e le sue braccia incrociate e strette contro il
petto
e, a quella visione, non poté non scoppiare a ridere.
Lei voltò la testa dal lato opposto,
ancora più offesa di prima.
«Sei troppo permalosa» dichiarò e,
prima che potesse insultarlo, si affrettò ad aggiungere:
«Ad ogni modo, penso
che senza di te morirei».
Come aveva sperato, l’ultima
affermazione la fece sciogliere. Provò a rispondergli
qualcosa, ma dalla sua
bocca non ne uscì nulla; nel frattempo le guance le si erano
colorate di rosso,
cosa che nascose subito chinandosi sul suo piatto, e le nacque un
sorriso
sincero sulle labbra.
Subito si riprese, cercando di tornare
al suo atteggiamento consueto, freddo e distaccato.
Era stato difficile ammettere di
amarlo, ora non poteva darlo a vedere con così tanta
facilità. Aveva pur sempre
una dignità, accidenti! Non poteva comportarsi come
un’adolescente alla sua
prima cotta.
«Certo che moriresti» affermò con
convinzione. «Perché non ci sarebbe nessuno a
salvarti dai guai».
Lo vide sghignazzare e il suo cuore
mancò un battito.
Tentò di spazzare via dalla sua mente
quell’immagine adorabile, tornando a concentrarsi su
ciò che l’attendeva di lì
a poche ore.
Un’altra
serata da dimenticare.
•
• •
Ore otto
e sette di sera.
«Dammi
una buona ragione per cui stiamo
andando a questo addio al celibato» sbottò John,
non appena lui e Duncan
scesero alla fermata davanti al locale.
Ormai è risaputo che il nostro ragazzo
detestava ogni tipologia di festa per un semplice motivo,
l’abbondanza di
contatto umano. Non gli era mai piaciuto passare più del
tempo necessario -
massimo cinque minuti - in compagnia di troppa gente.
«Ehm, perché sono divertenti?» disse
Duncan, dopo averci pensato su per bene.
«Wow, che motivazione brillante,
Watson!» borbottò, roteando gli occhi.
«Siamo già in ritardo, come sempre per
colpa tua. Se, inoltre, devi passare la serata a lamentarti, puoi
benissimo
prendere un taxi e tornare in albergo» incarò il
moro irritato.
Si precipitò nel locale, intenzionato a
mettere fine alla conversazione e a godersi una festa tranquilla,
seguito a
ruota da John. Subito i due furono investiti da un uragano di musica e
luci
neon. Dovettero ammettere che Adam aveva fatto le cose in grande.
«Ehilà ragazzi, benvenuti!»
Parli
del diavolo e spuntano le corna.
«Grazie
amico» lo salutò Duncan. «Trent
è già qui?»
«Non è ancora arrivato». E poi, rivolto
a tutti gli invitati, aggiunse urlando: «Giro di vodka per
tutti!»
La proposta fu accolta da un sonoro
boato.
«Credo proprio che seguirò il tuo
consiglio» borbottò John, che lo seguiva come se
fosse la sua ombra.
Era stato diverse volte ad una festa
con lui e ogni volta se n’era pentito. Non gli bastava
isolarsi da tutto e
tutti, doveva anche esporre tutto il suo disappunto e lamentarsi del
baccano
ogni cinque secondi.
Ricordava che una volta, durante un
compleanno di un amico in comune, l’aveva tormentato per
forse quattro ore
ripetendogli la stessa frase, che si era insinuata nel suo encefalo
come il ronzio
di un martello pneumatico: «Quando ce ne andiamo?»
Pur di non sentirlo più, era stato
costretto a riaccompagnarlo a casa - perché ovviamente gli
aveva anche
scroccato il passaggio - prima che tagliassero la torta.
«Bevi e stai zitto» gli ordinò secco,
allungandogli un bicchiere di vetro preso dal bancone.
Quella sera, però, aveva intenzione di
farlo ubriacare, così entrambi avrebbero passato una serata
tranquilla.
Si sporse per prendersi un drink anche
per sé, quando qualcuno gli diede una sonora pacca sulla
spalla, accompagnata
dalla frase: «Ehi, fra-amigo!»
Si voltò verso la fonte di quella voce
e si ritrovò davanti i capelli setosi e gli occhi color
smeraldo di Alejandro.
«Ehi fratello, da quanto tempo!»
esclamò, ricambiando la pacca.
Non era cambiato di un millesimo,
dovette ammettere. Sempre avvenente e muscoloso come un tempo.
«Finalmente sei arrivato, amico!»
«Oh, che gioia rivederti!»
A parlare erano stati Geoff e Owen, il
secondo dei quali lo aveva stretto in un abbraccio così
forte da rischiare di
soffocarlo, che lo avevano intercettato tra la folla.
Li salutò entrambi battendo loro il
pugno.
«Porca paletta, che fine ha fatto la
cresta?» chiese il ragazzone, che negli ultimi sei anni
sembrava aver levato
qualche chilo.
«L’ho tolta un po’ di tempo fa
ormai»
rispose, con una vaga nota nostalgica. «Voi che mi
raccontate, ragazzi? Vedo
che ti stai lasciando crescere la barba, Geoff».
«Sì, mi dona un aspetto più maturo, non
trovate?» si vantò quello, passandosi una mano
sulla leggera peluria bionda che
gli spuntava dal mento.
Le chiacchiere dei quattro amici furono
interrotte da dei colpi di tosse. John aveva assistito a tutta la
scena, con il
bicchiere di vodka sospeso ancora a mezz’aria.
«Non dimentichi nulla, ex cresta
verde?» domandò, indicandosi.
Duncan aveva quasi dimenticato il suo
brutto vizio di
interrompere le
conversazioni, solo per potersi inserire e criticare e lagnarsi ancora
di più.
Alle volte - per non dire sempre- sapeva essere davvero insopportabile.
«Signori, permettetemi di presentarvi
John» sbuffò roteando gli occhi. «John,
loro sono Alejandro, Owen e Geoff» li
presentò a loro volta, indicandoli uno ad uno non appena li
chiamava.
Il bruno allungò la mano verso ognuno
dei tre, cercando di comportarsi in modo più cordiale
possibile.
«Wow, sei davvero tu? Sei quel famoso
John?» chiese Geoff ammirato, stringendogli saldamente la
mano.
Prima che potesse capire cosa
rispondere, lui aggiunse in fretta: «È un piacere
conoscerti, tu sei una star,
amico! Duncan ci ha raccontato ogni singolo particolare su di te.
È vero che
una volta hai bruciato la cucina, mentre cercavi di cucinare dei
pancake, e
hanno dovuto evacuare l’intero appartamento?»
Aprì la bocca per dire qualcosa.
«Oh, è vero,» si intromise Owen
richiamando la sua attenzione, mentre la sua mascella si richiuse di
scatto, «che
lavoravi ad un fruttivendolo e sei stato licenziato, perché
una vecchietta non
sapeva che tipo di arance volesse e tu gliele hai lanciate addosso
tutte?»
«Ed è vero,» disse Alejandro con un
sorrisetto mellifluo, «che tu e Duncan avete una sorta di
relazione omosessuale?»
«Come scusa?» sbottò lui
all’improvviso, stordito come se fosse appena caduto dalle
nuvole.
Fino a quando le sue orecchie non
avevano percepito quella frase, la situazione cominciava a piacergli.
Se
c’erano due cose che lui amava quelle erano stare al centro
dell’attenzione ed
essere adulato dalle masse.
«Dal resoconto delle avventure che
avete trascorso insieme, sembra proprio che voi due siate una
coppia»
sghignazzò il bel latino. «Non ufficializzata, ma
comunque a tutti gli
effetti».
Scoppiarono a ridere tutti, compreso -
e qui John lo incenerì con lo sguardo - Duncan.
Improvvisamente gli venne
voglia di lanciargli la sua vodka in faccia.
Prima che potesse prenderli tutti e
quattro a parolacce, Adam
richiamò
nuovamente l’attenzione su di sé.
«Lo sposo è arrivato»
annunciò solenne,
sollevandogli il braccio, come se avesse vinto un’importante
competizione, in
modo tale che lo vedessero tutti.
Era elegantissimo nel suo completo
grigiastro, anche se i capelli e la barba gli donavano comunque un
aspetto trasandato.
Qualcuno gridò al “discorso” e, prima
che potesse accorgersene, lo avevano aiutato a salire sopra il bancone
e gli
avevano allungato della vodka.
«È bello vedervi tutti qui a
festeggiare la mia ultima notte da scapolo con me»
cominciò, non appena ottenne
il silenzio assoluto. «Non voglio tediarvi troppo con le mie
parole, quindi mi
limiterò ad un semplice invito: divertiamoci!» e
alzò il bicchiere verso l’alto
e poi bevve un lungo sorso, imitato da molti altri.
Tutto attorno a lui si alzarono applausi,
grida e fischi di approvazione.
E la festa cominciò.
•
• •
Ore
otto e trentuno.
«Ora
possiamo, per favore, tornare a
casa? Comincio ad avere fame» chiese stremata Gwen con una
leggera nota di
supplica nella voce, guardando con la coda nell’occhio
Courtney che, seduta sul
sedile del passeggere, era intenta a vedere qualcosa sul suo palmare.
«Certo che sì, sono pur sempre le otto
e mezza!» rispose lei come se fosse la cosa più
scontata del mondo, rimettendo
il cellulare in borsa e sistemandosi le pieghe del vestitino bianco.
Poi,
rivolta verso di lei, aggiunse: «È stata una bella
giornata, non è vero?»
Si limitò ad annuire con la testa,
senza aggiungere nessun tipo di risata o frase sarcastica.
Certo, si era divertita a mostrarle
Vancouver, ma non era stato altrettanto spassoso entrare in ogni
singolo
negozio del centro, provarsi un’infinità di
vestiti, stare lì dentro per interi
quarti d’ora, e riuscire a mani nude.
Poi si accese una lampadina nella sua
testa.
L’ultima volta che la sua amica si era
comportata così, lei e Trent avevano escogitato un piano
malefico per
organizzare una semplicissima festa a sorpresa per il suo compleanno,
che si
era dimostrata una delle esperienze peggiori della sua vita. E se
stesse
preparando qualcos’altro di simile?
«Courtney, tesoro, cos’hai in mente?»
le domandò tentando un pessimo approccio gentile.
«Assolutamente nulla» le sorrise lei
angelica.
Evidentemente si era accorta della nota
sospetta nella sua frase, motivo per cui aveva mentito spudoratamente.
Gwen decise tuttavia di non dire
nient’altro per tutto il viaggio di ritorno. Insistere non
sarebbe servito a
nulla.
Parcheggiò davanti casa e, percorrendo
il vialetto, si preparò psicologicamente al peggio.
«C’è qualcosa che dovrei
sapere?» le
chiese di nuovo, aprendo la porta. La curiosità e il terrore
la stavano
divorando dentro.
«Direi di no» disse lei convinta,
seguendola dentro l’appartamento.
Accese l’interruttore della luce,
posizionato alla sinistra della porta, e una trentina di voci diverse
urlarono
«Sorpresa!», facendola sobbalzare, e altrettante
persone uscirono da disparati
angoli della casa.
Poi si rese conto che tutto il
soggiorno era addobbato a festa, pieno di stelle filanti e festoni in
ogni
dove.
E infine riuscì ad analizzare meglio i
volti delle presenti, tutte vecchie compagne di liceo o ex concorrenti
del
reality. Bridgette col pancione che cominciava ad intravedersi da sotto
il
vestito azzurro, Heather con il solito sguardo da vipera stampato in
faccia,
Leshawna decisamente ingrassata, Lindsay con i seni ancora
più grossi di prima,
Izzy e la sua faccia eternamente da ragazzina…
«Wow!» fu l’unica cosa che
riuscì ad
esclamare, mentre diverse braccia facevano a turno per abbracciarla.
«Non me
l’aspettavo».
Le salutò una ad una, chi più
affettuosamente e chi meno, limitandosi ad un cenno del capo quando
arrivò ad
Heather, la quale si limitò a guardare in un’altra
direzione.
«Non avevi detto che non avresti
organizzato nulla?» chiese dubbiosa a Courtney, dopo aver
scambiato qualche
parolina con ognuna di loro.
Scosse la testa: «Ha fatto tutto Bridgette»
ammise a bassa voce, accennando verso quella.
«Beh, grazie a tutte per essere venute»
disse più forte, posizionandosi in modo tale che tutti
potessero sentirla e
vederla. «Sono felice che siate qui, anche se tutte queste
attenzioni mi
mettono un po’ a disagio».
Seguì una risatina generale.
«Propongo un brindisi!» proruppe
Bridgette, decisa a prendere in mano le redini di quell’addio
al nubilato.
Si precipitò in cucina, che sembrava
conoscere molto bene, e tornò poco dopo con un vassoio pieno
di calici e una
bottiglia di costoso champagne. Lo aprì e lo verso
accuratamente nei bicchieri,
passandoli a tutte le invitate.
«A Gwen» annunciò, non appena tutte
ebbero il proprio. «Con la speranza che il suo matrimonio
possa essere felice
quanto il mio!»
Un tintinnio riempì subito la stanza.
Gwen, circondata da tutto
quell’affetto, sorrise spontaneamente.
•
• •
Ore nove
e quarantadue.
«Oh,
e vi ricordate quando abbiamo
rubato tutti i vestiti ad Harold?»
«Oh sì, è stato troppo esilarante
vederlo correre per il campo con solo un cuscino».
Duncan, Geoff, Dj e Owen, tutti e
quattro piuttosto brilli per via dell’alcol, sedevano ad un
tavolino in fondo
al locale e raccontavano storie dei tempi del reality, ridendo e
scherzando.
«E quando Owen ha dovuto recuperare
quella chiave legata al collo di un orso? Mitico!»
«Beh, Geoff, a te non andò tanto
meglio. Sbaglio o dovetti tuffarti nella fossa biologica?»
Un’altra ondata di risate.
«Come va la gravidanza di Bridgette?»
chiese Dj, il più sobrio dei quattro.
«Oh, alla grande!» disse il biondo.
«Fino a quando non comincia a fare richieste assurde o a
piangere
istericamente. Allora sì che diventa una vera e propria
palla al piede!»
«Amico, non parlarmene» lo compatì
Duncan, bevendo un altro sorso di brandy. «Sono sei anni che
sopporto
Courtney».
«A proposito, come va con lei?»
«È pazza di me» si limitò a
dire con un
ghigno dipinto in volto, sorvolando su quale fosse la dura
realtà. Non poteva
di certo dire che, dopo sei lunghi anni di corteggiamento, ancora non
aveva
ceduto, il suo ego ne avrebbe risentito.
«Tu Owen, invece?» domandò poi,
cercando di spostare le attenzioni da sé. «Ti sei
già pentito della convivenza
con Izzy?»
I due, dopo diversi tira e molla e dopo
che il ragazzone ebbe insistito un po’, avevano deciso di
compare casa nella
periferia di Toronto. Vivevano assieme da circa un anno e mezzo.
«Niente affatto, io la adoro!» esclamò
estasiato lui. «Certo, potrebbe evitare di svegliarmi nel
cuore della notte
facendomi acchiappare degli infarti, ma la adoro!»
«Ora basta parlare di donne, altrimenti
il nostro amico Dj si deprime» disse Geoff, cingendogli le
spalle con un
braccio, avendo notato il suo disagio. Dopo sei anni, infatti, viveva
ancora
con sua madre e non era ancora riuscito a staccarsi da lei.
«Giusto» convenne Duncan e,
sporgendosi, urlò a chissà chi: «Un
altro giro di brandy!»
«Allora ragazzi, vi state divertendo?»
chiese ad alta voce Trent, raggiungendoli e sedendosi su un pouf libero.
«Come non mai!» esultò Owen, finendo di
bere il suo drink. «E quanto era bella la canzone. Cavolo,
avevo le lacrime
agli occhi».
Adam lo aveva praticamente costretto a
cantare il brano che aveva scritto per Gwen davanti a tutti, per poi
bagnare
lui e tutti coloro che erano sotto il palco con una bottiglia di
spumante.
«Stavamo rievocando i vecchi tempi»
spiegò Dj. «Ti unisci a noi?»
«Volentieri».
Ma il gruppetto fu interrotto da un
grido di giubilo proveniente dalla pista da ballo. Si trattava di John,
ubriaco
fradicio, che sventolava i suoi pantaloni come se fossero una bandiera,
mentre
improvvisava una danza gioiosa.
«Viva la vita!» urlò senza un apparente
motivo.
Successivamente fu colto da un conato
di vomito e tutti gli stuzzichini, che aveva ingerito non molto tempo
prima,
finirono con lo spandersi per tutta la pista da ballo.
Conseguì un verso
disgustato di quelli nelle vicinanze.
Duncan, alla vista di quella scena
ripugnante, scoppiò a ridere rumorosamente con tutto il
fiato che aveva nei
polmoni. Come sempre, da sbronzo sapeva donare degli spettacoli unici.
«Ed ecco, ragazzi,» annunciò ai quattro
amici, che lo fissavano come se fosse impazzito di colpo,
«perché ho deciso di
far ubriacare completamente John».
•
• •
Ore
undici e dodici.
Doveva
aspettarselo, Courtney. La festa
era stata troppo tranquilla fino a quel momento: si erano limitate a
delle
semplici chiacchiere, davanti a delle pizze, e ad alcuni stupidi giochi
da
liceo. E poi era avvenuta la svolta.
Si scoprì che Bridgette aveva invitato
degli spogliarellisti e adesso, al lume di diverse candele sparse qua e
là,
quei tre ragazzi dal corpo marmoreo si muovevano in modo sensuale, sul
ritmo di
una musica dance, al centro del salotto. Tutto intorno, Katie e Sadie
discutevano su chi fosse il migliore, Leshawna - palesemente ubriaca -
si era
sfilata il reggiseno e lo aveva lanciato verso di loro, e Lindsay
flirtava con
lo sguardo con il più alto dei tre. Gwen, la sposa, fu
tirata al centro e fatta
sistemare su una sedia, mentre gli spogliarellisti la stuzzicavano
danzando
attorno a lei.
Tutto ciò sapeva di déjà-vu.
A Courtney cominciava ad esplodere la
testa. Se fosse rimasta un secondo di più lì
dentro, sarebbe impazzita.
Si liberò dalle chiacchiere di
Bridgette e Beth, due delle poche ancora sobrie - una per via della
gravidanza,
l’altra perché astemia -, con una scusa patetica
e, afferrando il suo calice
colmo di vino rosso, uscì nel cortile, appoggiandosi
stremata con la schiena
contro il muro. Quei fastidiosissimi beat sembravano lontani.
Non si era mai sentita a suo agio a feste
del genere; difatti, quando vi veniva invitata al liceo, molto spesso
rifiutava. Semplicemente, quel ambiente rumoroso non faceva per lei,
abituata
alla quiete e al rigore.
«Stai cercando di scappare anche da
questo addio al nubilato?» chiese qualcuno con tono
strafottente, interrompendo
il flusso dei suoi pensieri.
Si voltò lentamente e vide Heather
accanto alla sua destra, con una sigaretta in bocca e le labbra piegate
in un
sorrisetto mellifluo. Era stata così silenziosa che non
l’aveva sentita arrivare.
«Avevo solo bisogno di una pausa»
sospirò, bevendo un sorso di vino.
La mora le allungò un pacchetto di
sigarette, come tacito invito a prenderne una.
«Non fumo» rispose secca.
Lei si limitò ad accendere la sua con
un accendino fucsia e a fare un lungo tiro.
Stettero in silenzio a lungo. Non si
erano mai andate a genio e non avevano granché in comune,
non avrebbero
comunque avuto nulla da dirsi.
«A quanto pare, tra te e Duncan va
sempre meglio» disse all’improvviso Heather.
Courtney dovette impedire che il vino
non le andasse di traverso. Come mai si interessava alla sua vita
sentimentale?
«Ho sentito dire che avete fatto il
viaggio assieme e che alloggiate nello stesso hotel»
continuò, notando lo
sguardo spaesato sul volto della bruna. «E, sempre a
giudicare dalle
conversazioni con la darkettona e la surfista, vi frequentate
assiduamente.
Addirittura le serenate sotto l’ufficio!» E qui si
fermò per ridacchiare. Una
volta che si fu ripresa, aggiunse: «Insomma, eravate
già affiatati dal
matrimonio di Geoff e Bridgette, e adesso questo».
Courtney si sentì avvampare.
«Non stiamo da soli, c’è un amico con
noi» si affrettò a spiegare, rimanendo comunque
sul vago. «E non è così
semplice come immagini».
«Peccato» sillabò lei, prima di fare un
altro tiro.
Decisamente, dietro quello che aveva
origliato c’era un mondo intero.
«Tu e Alejandro, invece?» domandò
all’improvviso, forse più per cortesia che per
vero interesse.
Dopo la terza stagione, lui e Heather avevano
avuto modo di rincontrarsi e, a seguito di un lungo corteggiamento
durato per
mesi, il bel ragazzo era finalmente riuscita a farla innamorare. Da
allora non
si erano mai lasciati e vantavano ben cinque anni di fidanzamento.
«Bene» si limitò a dire, ma qualcosa
nel suo sguardo faceva presagire che c’era
dell’altro. Sembrava, infatti, in
preda ad una battaglia interiore.
Poco dopo, sospirando, annunciò: «Mi ha
chiesto di sposarlo».
«Davvero?» quasi esclamò Courtney, con
un sorriso raggiante. «E cosa le hai risposto?»
«Sono scappata».
Non capiva. Quei due si amavano alla
follia, non aveva potuto fare a meno di notarlo al matrimonio di
Bridgette e
Geoff: il modo in cui si guardavano, come battibeccavano amorevolmente
su
qualunque cosa, i baci che si scambiavano. Erano palesemente fatti
l’uno per
l’altra, perché era così indecisa?
«Lui ti ama» dichiarò ingenuamente.
«E tu ami lui».
«Non è così semplice come
immagini» disse
Heather con un piccolo ghigno.
Stranamente, quella sera a nessuna
delle due dette fastidio la presenza dell’altra.
•
• •
Ore
undici e trentasette.
Bastarono
poche bottiglie di birra per
far degenerare quell’addio al celibato. Coloro che in quel
locale erano ancora
sobri e in pieno possesso delle loro facoltà mentali si
contavano sulle dita di
un'unica mano.
Le luci a led guizzavano abbaglianti e
quel brano techno rimbalzava contro le quattro pareti e si amplificava
ripetutamente nella testa di chiunque.
Sul palco due spogliarelliste attraenti
e formose davano spettacolo, strusciandosi contro Trent, spinto
lì a forza, che
sembrava molto a disagio.
Quelli più vicini lanciavano banconote
e foglietti con numeri di telefono, con la speranza vana di essere
ricontattati. Altri si limitavano soltanto ad incitarle a fare di
più,
lasciandosi andare in lunghi fischi e ululati.
Più dietro, la gente ballava in modo
confusionario, cosa dovuta al troppo alcol, e ogni tanto urlava frasi
sconnesse. Addossati in fondo, i fumatori avevano alzato una nube densa
di
fumo.
«Un’altra birra?» chiese Geoff, alzando
una bottiglia colma fino all’orlo.
John, che non si reggeva in piedi, si
avvicinò barcollando e la afferrò,
dopodiché si appoggiò a Duncan, la persona
più vicina, e cominciò a berla, sbrodolandosi
tutto.
Non fece nemmeno in tempo a finirla,
che dovette correre urgentemente in bagno. Alla fine, essendo troppo
lontano,
decise di vomitare dietro il bancone.
«Dacci dentro, amico!» lo incitò Duncan
assistendo alla scena, finendo di bere la bottiglia che gli aveva
lasciato
prima di darsela a gambe.
Ma fu un errore madornale, quell’ultimo
lungo sorso. Prima che potesse realizzare, aveva raggiunto John ed
prese a
vomitare l’anima assieme a lui, il tutto sotto le grida di
approvazione di
Geoff e Owen.
Una notte memorabile.
• •
•
19
luglio, ore dodici e quarantotto di notte.
Trent,
forse l’unico ancora in
condizioni decenti, aveva caricato John e Duncan, non potendo tornare
da soli
in quello stato, sul sedile posteriore della propria auto e adesso
sfrecciava a
cinquanta chilometri orari lungo le strade di Vancouver, diretto a casa
dove
sapeva che avrebbe trovato anche Courtney, mentre la radio sparava a
volume
basso una piacevole canzone jazz.
«Allora, dov’è questo pub?»
chiese
Duncan, dopo un paio di minuti trascorsi nel silenzio.
Effettivamente, si era limitato a
rifilare loro una scusa patetica, ovvero che la festa sarebbe
continuata
altrove, perché il proprietario del locale li aveva
cacciati. Loro, per quanto
ubriachi e storditi erano, ci avevano creduto. In realtà
voleva solo strapparli
via da quell’addio al celibato, che minacciava di protendersi
per tutta la notte,
prima che potessero sentirsi male.
«Vi ho mentito» rispose con sincerità.
«Vi sto riportando da Courtney».
«Bugiardo!» lo accusò John.
«Voglio
tornare alla festa!»
Ma Trent non disse altro, continuando a
guidare indisturbato.
Il bruno si voltò verso il suo compagno
e gli disse: «Avevi ragione, mi sono divertito».
«Io ho sempre ragione» si vantò, e
singhiozzò.
«Sei il mio migliore amico, ti voglio
bene» confessò.
E poi successe qualcosa di
straordinario, qualcosa che da sobrio non avrebbe mai fatto: si
avvicinò alla
sua guancia e vi scoccò un bacio rumoroso. Duncan non fece
una piega; anzi,
sembrò piacergli.
«Wow, è proprio vero che l’alcol fa
miracoli!» esclamò Trent colpito, che aveva
osservato tutta la scena dallo
specchietto retrovisore.
Una volta al 126 di Thompson Boulevard,
li aiutò a percorrere il viale e, con delle leggere spinte,
li condusse dentro l’appartamento,
dove Gwen e Courtney erano intente a togliere tutti quei festoni.
«Siamo a casa» annunciò, buttando i due
ragazzi, più morti che vivi, ma comunque felici, sul divano.
Subito la bruna si gettò su Duncan e
John, con lo sguardo preoccupato che ha una madre quando suo figlio
torna
tardi. E forse era proprio quello Courtney, per quei due: una mamma
pronta a
crescerli, accudirli, sgridarli quando necessario e tirarli fuori dai
guai.
«Mio Dio, cos’hanno fatto?» chiese con
ansia e in preda al panico. «Stanno male?»
«Hanno solo bevuto un po’ troppo»
spiegò Trent, stringendo la sua quasi moglie per la vita.
«Qui com’è andata,
invece?» domandò, dandole un bacio sulla testa.
«Tutto bene» rispose Gwen, sorridente.
«Sai, le solite festicciole di Bridgette. Niente di
che».
Già, proprio niente di che.
«Dai Courtney, vi riporto in hotel» si
propose il moro, ricacciando le chiavi della macchina dalla tasca.
«Hanno bisogno
di riposare».
«Grazie Trent,
sei un tesoro» lo ringraziò frettolosamente lei,
troppo impegnata ad accertarsi
che stessero veramente bene.
Salutò Gwen con
un abbraccio e si caricò Duncan in spalla, mentre il ragazzo
faceva lo stesso
con John. Guardandoli, si disse che il mestiere di mamma alle volte era
davvero
faticoso.
•
• •
L’una
e ventotto.
«Tieni,
questo
ti aiuterà» disse Courtney, allungando un
bicchiere colmo d’acqua in cui aveva
versato una bustina di aspirina a John.
Si alzò a
fatica dal letto, sul quale era inchiodato da un tremendo mal di testa,
si
allungò per prenderlo e bevve tutto in un solo sorso.
Dopodiché, ripiombò
disteso a peso morto, lamentandosi.
«Così
imparerete a bere responsabilmente, una volta per tutte»
cantilenò lei.
Non era la
prima volta che tornavano completamente ubriachi, alle volte
singolarmente e
altre insieme, e che si era vista costretta a prendersi cura di loro.
«Per te» disse,
dando un bicchiere identico anche a Duncan, che sedeva sul bordo del
letto con
la testa tra le mani.
«Lo berrò dopo»
borbottò con voce rauca, poggiandolo sul comodino.
«Cercate di
dormire» li raccomandò affettuosamente.
Poi si girò di
scatto e si incamminò verso l’uscita.
«Non andartene»
la bloccò la voce di Duncan, prima che potesse afferrare la
maniglia, la mano
ancora sospesa a mezz’aria.
«Che c’è?» gli
chiese.
Lui si avvicinò
lentamente e le prese le mani. Il suo battito cardiaco
accelerò.
Restarono a
guardarsi in silenzio, accompagnati dal russare sommesso di John, che
si era
addormentato subito.
Quando dormiva
così tranquillamente, poteva benissimo essere scambiato per
un angioletto.
Nessuno, vedendolo così, avrebbe potuto immaginare che, da
sveglio, potesse
essere un essere rumoroso, ingombrante e sputasentenze.
«Non andartene»
ripeté. E, esitante, aggiunse in un mormorio: «Ho
bisogno di te».
A quella
dichiarazione, la parte più irrazionale di Courtney - che
stranamente esisteva,
sebbene fosse segregata in qualche angolo oscuro e remoto -
esultò e cominciò
ad urlare di gioia, contenta che anche lui ricambiasse i sentimenti.
Ma la parte
razionale la soppresse subito, ricordandole che il ragazzo era
completamente
ubriaco e che, probabilmente, non aveva una vaga idea di quello che
stava
dicendo.
Anche se,
dopotutto, quel vecchio proverbio non
recitava forse “in
vino veritas”?
«È l’alcol che
sta parlando» disse risoluta, e nella sua voce
c’era una nota di delusione.
Duncan la
sorprese, avvinandosi pericolosamente al suo viso.
«Credimi,»
sussurrò ad un centimetro dalle sue labbra, «non
sono mai stato più sobrio di
così».
Lei non ne era
convinta, ma non fece mai in tempo a replicare. Bastò un
nonnulla per far
incontrare le loro bocche in un rapido bacio, piatto e senza alcun tipo
di
passione. Non sentì nulla, se non un leggero retrogusto di
birra.
«I baci da
ubriaco non contano» replicò Courtney tristemente,
fissandolo dritto negli
occhi. Quell’azzurro risaltava ancora di più al
buio. «L’hai detto tu».
Il ragazzo,
inizialmente confuso, biascicò: «Pensavo non te lo
ricordassi».
Ed era vero,
ricordava poco e niente di quella serata, se non la bottiglia di sherry
che si
era scolata tutta in una botta e di come ci aveva spudoratamente
provato con
Duncan, saltandogli addosso. Ringraziando il cielo, egli ebbe il
buonsenso di fermarla.
Quando, il
giorno dopo, le raccontò cosa fosse successo, gli fece
giurare che mai e poi
mai ne avrebbe parlato con nessuno. Da allora anche lei aveva provato a
dimenticare.
«Lo pensavo
anch’io» ammise. «Ora, va’ a
letto» gli ordinò sorridendo, ritirando le mani
dalle sue.
Non doveva
andare così, non voleva che Duncan si dichiarasse e che il
mattino successivo
non ricordasse nulla. E baciare un ubriaco era zero emozioni; avrebbe
voluto
che quel tanto agognato contatto di labbra le avrebbe stretto il cuore
fino a
farlo sanguinare.
Uscì dalla
stanza, lasciandolo lì solo, immobile e ancora
più scosso di prima.
Ultimamente
sto
sfornando un capitolo dopo l’altro. Non potete capire quanto
sia bello essere
così ispirati e scrivere tutto di getto!
Mi sento
triste, questo è il penultimo capitolo e quindi il penultimo
angolo
dell’autrice per quanto riguarda questa storia. Avevo
dimenticato la sensazione
di malinconia che ti assale quando stai per concludere una fan fiction.
Ma bando alle
ciance, passiamo al capitolo!
È molto confusionario, succedono un sacco di cose tutte
assieme. Non sono brava
a descrivere le feste, mi sono limitata a far percepire il caos che
regna nella
maggior parte dei paragrafi.
Si comincia
anche ad approfondire la parte sentimentale della storia, che
già da qualche
capitolo era in secondo piano. Un esilarante John ubriaco confessa a
Duncan di
essere il suo migliore amico e sugella il tutto con un bacio sulla
guancia; un
altrettanto Duncan sbronzo finalmente
si dichiara a Courtney, ma viene “rifiutato”.
Sì, questi due vi - e ci -
faranno patire fino alla fine.
Il matrimonio è
alle porte e noi ci avviamo verso questo romantico epilogo. Cosa
succederà mai?
Lo scoprirete soltanto leggendo!
Spero che il
capitolo vi sia piaciuto, ci vediamo prossimamente con il prossimo - ed
ultimo.
Un grande
abbraccio!
Hayle xx