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Autore: Shodai    28/08/2016    0 recensioni
Su un campo di battaglia intriso di sangue, calpestando i corpi di mille caduti, due stirpi di mostri combattono una guerra di uomini.
Plasmati dalla terra e dall’acqua, possenti e indistruttibili, gli Orchi ruggiscono nel clamore della pugna. Il suolo trema. Voce che rimbalza per le cime e le forre della montagna, pugno che frantuma. E protegge. Figli prediletti della Foresta, inflessibili guardiani di lealtà, distruggono per difendere.
Nate dalle fiamme e risorte dalla cenere, immortali e inafferrabili, le Fenici lanciano grida di odio, orgoglio e dolore. Braci ardenti che trafiggono le ombre, stridore che squarcia un cielo di fumo e polvere. Figlie del Fuoco e della Notte, custodi della follia, amano e odiano con lo stesso ardore.
Due stirpi di mostri combattono una guerra di uomini, intrecciando una storia di migliaia di anni. Per l’oro. Per l’onore. Per proteggere. Per uccidere.
Genere: Drammatico, Guerra, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Hashirama Senju, Izuna Uchiha, Madara Uchiha, Mito Uzumaki, Tobirama Senju
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun contesto
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Buonasera a tutto il mondo!

Visto che domani partirò per fare la più grossa follia mai pensata in quella vasta terra desolata che è la mia mente, mi sono detta: “Perchè non perseverare nella follia?”.

E dunque eccomi qui. È la prima fanfiction che scrivo su questo sito e a dire il vero è uno sghiribizzo che mi è venuto stando in montagna. Un esperimento che più sperimentale non si può, insomma, scritto di getto, con uno stile mooolto lontano dalle mie abitudini, ma che mi diverte un sacco. Che dire, spero che vi piaccia!

Per le noticine riguardanti il titolo di questo ciclo di capitoli* e il testo in giapponese**, vedere sotto! Per il titolo della fanfiction non credo siano necessarie spiegazioni: ovviamente significa “Vero sogno” (sul serio, quante volte l’hanno ripetuto?).

Grazie a chiunque vorrà imbarcarsi a leggere questa cosa informe <3

See ya (speriamo),

Shodai

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いつもより早く

Sotto un cielo stellato
消えてった星空に

scomparso più in fretta che mai,
重 なり合った出会いは

i nostri tantissimi e sparsi incontri
俺 を呑み込んでいく

mi hanno inghiottito.

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Era lì ormai da mezz’ora, minuto più, minuto meno. Era arrivato con la carica ritmata di una coppia di gocce che cola da un tetto, i pugni stretti e le gambe tese. Nero e arruffato come un corvo, sbuffante come un soffio di vento imprigionato in un corridoio.

Hashirama, dalla comoda seduta sulla sua roccia preferita, aveva tirato fuori i piedi dal fiume e l’acqua aveva smesso di scorrergli nelle vene. La gravità l’aveva fatta ripiombare nel suo alveo originale, mentre si alzava al rumore delle foglie secche e spezzate, vigile come un capriolo.

Così si fa con gli umani, capisci, bambino?

Aveva appena fatto tempo a rifugiarsi nel buio umido della foresta che dal sentiero era sbucato quel corvaccio. Aveva macinato i sassi della riva sotto i suoi piedi magri e impolverati, poi si era fermato a pochi passi dall’acqua, le mani sui fianchi e le guance gonfie di petulanza e rabbia infantile.

Si era messo a lanciare sassi nel fiume, nemmeno quei piccoli frammenti inanimati fossero pensieri da eliminare. Uno scoiattolino spelacchiato che cerneva le sue noccioline, scartando quelle marce con sistematica crudeltà. E i suoi occhiacci neri si stringevano cattivi.

Tutt'uno con il tronco che gli fungeva da nascondiglio, le mani che vibravano per la linfa che penetrava nei palmi, Hashirama lo osservava con le sopracciglia arcuate e le labbra increspate per la curiosità. Sembrava decisamente irritato, ma più sassi lanciava, più le sue spalle abbandonavano la postura tesa, finchè le sue braccia non disegnarono più archi rabbiosi, ma sorrisi stanchi.

Il cambiamento avvenne quando una pietra particolarmente piatta sfiorò una volta di troppo la superficie dell’acqua. Gli occhiacci neri del bambino si spalancarono per un attimo e non sembrarono più tanto degli occhiacci neri, mentre la sua bocca assunse una buffa piega risoluta. Possibile che non avesse mai giocato a rimbalzello prima?

No, decisamente no, si disse Hashirama con aria critica quando lo vide scegliere un sasso troppo rotondo e pesante. In fondo avrebbe anche potuto andare ad aiutarlo, si disse. In fondo non poteva fargli niente di male, pensò. Però gli adulti preferivano che non ci si avvicinasse agli sconosciuti, ricordò. Però quel bambino sembrava proprio della sua età, osservò. E non sentiva provenire da lui nessuna aura particolare, aggiunse. E sembrava proprio negato per il rimbalzello.

Lo guardò sbuffare per un po’, mentre si arrotolava le maniche e cercava sassi sempre più adatti –imparava in fretta, anche se era negato per il rimbalzello. Lo guardò togliersi la casacca scura e incastrarla tra le dita di un vecchio ramo denudato dal fiume, in modo che non si sporcasse di polvere. E di nuovo sbuffava, frustrato, e non gli bastavano i cerchi che si incidevano nell’acqua, sempre più numerosi, sempre più spesso.

Tre, quattro, cinque.

Un saltello zoppicante e poi giù, nelle acque grigie del fiume.

Che in realtà non erano grigie, ma lo sembravano, beninteso. L’acqua in quel punto del fiume era bella limpida e lasciava filtrare il colore del fondale, una distesa di ghiaia pulita, che ribolliva sotto i piedi.

Impietosito dai rumori gutturali dei sassi inghiottiti dalla corrente e incuriosito dagli ansiti innervositi del bambino tutto nero, perchè era tutto nero, dai vestiti, ai capelli, agli occhi, Hashirama decise di andare ad aiutarlo. Non lo faceva perchè voleva incontrare qualcuno del mondo altro, beninteso.

E nemmeno perchè sentiva il desiderio precipitoso di assaporare una goccia scura di rischio, di fare qualcosa che sarebbe durato qualche minuto, ma sarebbe stato diverso. Lui avrebbe potuto essere altro per qualche minuto, non pensare, parlare e sorridere. E insegnargli a giocare a rimbalzello e chiedergli perchè non era contento di essere riuscito a far saltare il sasso tre, quattro, cinque volte e un saltello zoppicante e poi giù, nelle acque grigie del fiume.

Che in realtà non erano grigie, ma lo sembravano, beninteso.

Abbandonando per un momento quel corvaccio tutto sbuffi e determinazione, Hashirama si immerse nel suo mondo di foglie, ombra, terra e sole. Infilò le ciabatte di corda per non presentarsi come un selvaggio, corse lungo i sentieri invisibili che solo loro conoscevano, sfiorando i rami fragili dei cespugli e gli arbusti del sottobosco.

La stagione estiva volgeva al termine e l’ombra fresca e umida della foresta sembrava contornata dalla luce dorata che precedeva il tramonto. L’autunno era vicino e presto sarebbe stato tutto rosso ardente, di foglie morte e di terra umida, le ragnatele avrebbero pianto pioggia e poi brina, la corteccia degli alberi sarebbe diventata morbida per la nebbia. E le acque del fiume sarebbero sembrate ancora grigie, ma di un grigio livido e giallo che rifletteva il cielo. E si sarebbero ingrossate. E non sarebbero più state limpide. Si sarebbero riempite di fango e foglie e rami neri e avrebbero nascosto tutto riflettendo il grigio livido e giallo del cielo.

Era contento, Hashirama, di aggrapparsi agli ultimi brandelli d’estate. Di vedere la ghiaia grigia sotto le acque grigie del fiume -che in realtà non erano grigie, ma lo sembravano, beninteso- mentre lo attraversava. Il bambino-corvo non si vedeva più, per fortuna, e non poteva vederlo. Era ancora a sbuffare e lanciare –male- i sassi per il rimbalzello, nascosto e cieco dietro l’ansa del fiume.

Hashirama attraversò il suo guado improvvisato con due balzi poco studiati. L’acqua lo accolse senza schizzi, proprio come voleva, si fuse al suo sangue e viaggiò per tutto il suo corpo, fredda e piacevole come un brivido incausato. Sapeva di pesce, di foglie e di vita.

Quando raggiunse l’altra riva, non lo seguì, proprio come voleva. La gravità la fece ripiombare nel suo alveo originale, mentre le piccole gocce circolari rotolarono fino a terra e sparirono, cotte dal sole che baciava le pietre e le cime degli alberi.

Il sentiero era vicino. C’era solo da sperare che il bambino-corvo non se ne fosse già andato, con i polmoni collassati per tutto quello sbuffare. Hashirama sperava davvero di no, si disse che avrebbe potuto anche uscire allo scoperto dal nascondiglio di prima, per scongiurare l’eventualità che il bambino-corvo finisse l’aria per sbuffare e decidesse di tornare a casa, ma quando hai a che fare con gli altri, pensa a cosa potrebbero pensare loro, segui i loro sentieri, così si fa con gli umani, capisci, bambino?

Rientrò nella foresta, incontrò il sentiero e lo seguì fino al punto in cui il bambino-corvo aveva deviato per scendere al fiume. Vedeva la sua schiena nera, i capelli neri, poteva immaginare i suoi occhiacci neri. Chissà se non sembravano più tanto degli occhiacci neri...

Avanzò in silenzio fino al limitare degli alberi e attese che la voce gli risalisse fino in gola.

Il bambino-corvo si stava piegando per cercare altri sassi, dopo un altro sbuffo frustrato. Rimase in equilibrio sulle punte dei piedi, le ginocchia piegate e una mano a terra. Hashirama poteva immaginare con quali occhiacci stesse osservando le acque del fiume, mentre faceva rimbalzare un sasso particolarmente bello sul palmo.

“Giuro che la prossima volta arriverò all’altra sponda” mugugnò il bambino-corvo.

Ecco che cosa voleva. Che corvaccio ambizioso, si disse Hashirama, compiaciuto. Gli sarebbe piaciuto parlargli, pensò, lasciandosi scivolare lungo il declivio erboso che segnava il confine tra la foresta e il fiume.

Concentrandosi solo per un momento su quel corvaccio tutto sbuffi e determinazione, Hashirama abbandonò il suo mondo di foglie, ombra, terra e sole.

Raccolse un sasso perfetto per il rimbalzello e lo fece saltare tre, quattro, cinque, sei, sette, otto volte e un saltello sulla riva opposta, un rumore che sapeva di vittoria e soddisfazione, superate le acque grigie del fiume. Che in realtà non erano più grigie, perchè un raggio di sole ci aveva disciolto un azzurro tenue.

Il bambino-corvo si girò su una spalla, imbronciato. Ma quello spicchio di viso non era quello di un bambino-corvo, perchè non era fatto solo di nero, nero dai vestiti, ai capelli, agli occhi. Il bambino-corvo non era fatto solo di nero, perchè c’era del bianco in lui. Tanto bianco, così tanto che tagliava l’aria. Il bianco polveroso di chi ha corso nella foresta, di chi ha rovistato tra le pietre del fiume, cotte dal sole che baciava le pietre e le cime degli alberi.

Il bambino-corvo era fatto di nero e bianco e lo fissava con la coda dell’occhio, imbronciato.

Hashirama sorrise e ammiccò, il braccio ancora teso. “Il segreto è lanciare leggermente in alto” rivelò.

Gli occhiacci del bambino nero-e-bianco lo scrutarono per un po’, sospettosi, mentre una goccia di sudore gli scivolava lungo la curva delle guance piene. Espirò dal naso e strinse il sasso che ancora teneva in mano. E che all’improvviso era diventato la preda del suo sguardo nero nero. “Lo so” disse, sulla difensiva. “E’ che non mi sono ancora messo d’impegno!”

Hashirama pensò che i suoi occhiacci non erano affatto cattivi. Pensò che quel bambino nero-e-bianco era estremamente buffo. E orgoglioso. Gli veniva da ridere, così sentì la pelle degli zigomi che premeva contro gli angoli degli occhi.

“Ma tu chi saresti?” domandò il bambino nero-e-bianco con aria sospettosa e insieme stupita.

Hashirama gli rispose con un suono pensieroso. Non pensava che il bambino nero-e-bianco gli avrebbe chiesto subito chi era. Lui lo avrebbe fatto, probabilmente –così gli avevano insegnato sua madre, suo padre, così avevano insegnato a lui e ai suoi fratelli. Ma il bambino nero-e-bianco non sembrava qualcuno che dovesse nascondersi, qualcuno di diverso. Certo, era troppo nero e troppo bianco sotto tutta la polvere, ma i suoi occhiacci neri neri erano compatti, non nascondevano grumi di segreti.

Cosa poteva rispondergli?

Non dire a nessuno degli altri il tuo nome, d’accordo? Non farti vedere, rifuggi la loro presenza, così si fa con gli umani, capisci, bambino?

“Diciamo che per ora sono il tuo rivale di rimbalzello” rispose, soddisfatto della trovata. “Anche se, a differenza di te, io ce l’ho fatta” Lo mise in chiaro, sì, sottolineandolo per bene, sì, perchè le sue abilità a rimbalzello non dovevano essere ignorate dal bambino nero-e-bianco. E sorrideva, sfidandolo a fare meglio, a inghiottire l’orgoglio per chiedergli ancora il suo nome.

“Ti ho chiesto come ti chiami!” strepitò invece il bambino nero-e-bianco, avanzando verso di lui con un singolo passo bellicoso. Stringeva ancora nel pugno quel suo sasso.

Hashirama rispose. In fondo che pericolo c’era?

“Per vari motivi non ti posso rivelare il mio cognome...” Non ce l’ho, non ce l’abbiamo, noi. “Ma comunque mi chiamo Hashirama”

Il bambino nero-e-bianco sembrava perplesso per quella risposta, occhio socchiuso e smorfia scettica. Rimase in silenzio per qualche secondo, valutandolo con cipiglio attento, e ad Hashirama sembrò sempre più nero e sempre più bianco, meno corvo e più bambino. Lo vide stringere di nuovo il sasso, lo vide sollevarlo per mostrarglielo.

“D’accordo, Hashirama...” concesse. “Osserva, perchè questa volta ce la farò!”

Hashirama quasi sussultò a sentire quel cambio di tono, quasi sussultò a vederlo tirare.

Poi sussultò davvero, perchè il suo sguardo sfiorò quasi per caso gli occhiacci del bambino nero-e-bianco, socchiusi nella concentrazione, e, per gli interminabili secondi in cui il sasso rimbalzò sull’acqua e uno e due, non riuscì più a staccarsi.

Occhi neri, neri, neri. Troppo neri.

Non nascondevano grumi di segreti, erano compatti, quasi liquidi. Non nascondevano grumi di segreti perchè erano un unico, enorme segreto. Occhi neri, neri, neri. Troppo neri. La luce non si rifletteva, veniva inghiottita per non tornare più, divorata, attirata e risucchiata come acqua che sfuggiva tra le dita. Occhi neri, neri, neri. Troppo neri. Non lasciavano scappare nulla, avevano mangiato persino la pupilla.

Se ne stavano lì, buchi neri scavati nelle orbite bianche, circondati da ciglia nere.

Da come sono neri, neri, neri i suoi occhi, sono (quasi) certo che non è uno degli altri, si disse Hashirama con una certa serietà, prima che il rumore del sasso lanciato, miseramente inghiottito dal fiume a un paio di metri dall’altra sponda, lo riportasse in quel mondo di sole, pietre e acqua.

Hashirama sollevò le sopracciglia, senza parole per quel lancio disastroso.

Il bambino dagli occhi neri, neri, neri era congelato nella posizione con cui aveva tirato. Riusciva ad immaginarsi la smorfia imbarazzata, il sudore colpevole che scivolava lungo le curve delle guance piene. E chissà quanto erano foschi i suoi occhiacci neri, neri, neri.

Hashirama sentiva montare una bella risata nel petto. Prese un respiro per lasciarla andare e-

Bastardo!” ruggì il bambino dagli occhi neri, neri, neri, costringendolo a cercare riparo dietro i palmi delle mani. Gli puntava addosso due indici accusatori e i suoi occhiacci neri, neri, neri facevano paura. “Scommetto che ti sei messo dietro di me apposta per distrarmi! Non ti hanno insegnato che non ci si mette alle spalle della gente?! Sono un tipo sensibile, io!”

Hashirama si sentì mortificato, un verme. Voleva aiutarlo a giocare a rimbalzello e aveva solo peggiorato le cose. Nessuno gli aveva mai detto di non mettersi alle spalle della gente, che era da maleducati. Voleva aiutarlo e aveva finito per peggiorare le cose. Non avrebbe più voluto giocare a rimbalzello con lui, poco ma sicuro. E avrebbe perso per chissà quanto tempo la possibilità di incontrare qualcuno di altro, di assaporare una goccia scura di rischio, di fare qualcosa che sarebbe durato qualche minuto, ma sarebbe stato diverso. Di essere altro per qualche minuto, non pensare, parlare e sorridere.

Sarebbe rimasto per sempre nella sicurezza mortale del suo mondo di foglie, ombra, terra e sole.

E zanne artigli ruggiti fango urla ossa spezzate strida fumo sangue cenere. E morte.

Si accoccolò tra i sassi, abbracciandosi le ginocchia. “S-scusami...” mugolò.

Rapportarsi con gli altri era davvero complicato, evidentemente. Avevano una sensibilità diversa.

Ma il bambino dagli occhi neri, neri, neri azzardò un sorriso incerto e mortificato a sua volta. I suoi occhiacci neri, neri, neritropponeri- divennero sopportabilmente neri, sotto le sopracciglia nere increspate. “No... Non è mica una cosa così grave. Anzi, scusami tu. Non hai fatto nulla di male. Alla fine stavo solo cercando una scusa”

Hashirama si disse che forseforseforse alla fine non erano poi tanto diversi. Il bambino dagli occhi neri, neri, neri poteva avere lo stesso caratteraccio di Tobirama, in fondo, no? Sarà anche stato un umano o qualunque altra cosa che giustificasse quegli occhi neri, neri, neri, ma non sembrava tanto diverso dai bambini della sua tribù. O forse sì? Come faceva a capirlo? Parlando?

“E’ che non sapevo avessi una fobia così irritante” lo provocò con una finta voce spezzata, nascondendo un ghigno tra braccia e ginocchia. Era divertente, era nuovo e familiare.

Non mi è ancora chiaro se sei un bravo ragazzo oppure no!” sbraitò il bambino dagli occhi neri, neri, neri, pugnalandolo a distanza con quel suo indice accusatore.

Hashirama balzò in piedi e liberò la risata che teneva in bilico sui polmoni da tempo. “Ma di sicuro ti è chiaro che sono più bravo di te nel rimbalzello!” Sghignazzò, mimandogli il gesto di lanciare. Era divertente, era nuovo, era familiare.

“Maledetto! Adesso lancio te al posto del sasso!”

Ecco, aveva esagerato davvero. Lo sapeva che sarebbe successo, Hashirama. O almeno se lo aspettava.

Si lasciò cadere di nuovo sulla riva sassosa. “S-scusami... Non volevo farti arrabbiare” uggiolò, sperando di farlo calmare. E chissà come avrebbe reagito, da umano o qualunque altra cosa che giustificasse quegli occhi neri, neri, neri. Non si poteva mai sapere con gli altri, non si poteva mai pensare come avrebbero reagito, perchè erano diversi, capisci, bambino?

Provò così: “Per farmi perdonare, mi lascerò lanciare nel fiume” Ecco, quella era una buona idea, si disse Hashirama. “Avanti, lanciami pure...”

Come una pietra nel rimbalzello, no?

Ma lo sai che sei parecchio irritante?!” berciò il bambino dagli occhi neri, neri, neri, le mani sui fianchi e i capelli neri arruffati come le penne di un corvo sotto la pioggia. Però non sembrava più così arrabbiato.

Come una pietra nel rimbalzello. Saltare tre, quattro, cinque, sei, sette, otto volte e-

Oh, già.

Ma tu sei proprio negato, sai, bambino dagli occhi neri, neri, neri?

“Anche se dubito che sarai capace di farmi arrivare fino all’altra riva” Lo mise in chiaro, sì, sottolineandolo per bene, sì, rassegnato e (forseforseforse) un po’ maligno. Perchè il bambino dagli occhi neri, neri, neri non poteva ignorare la propria scandalosa incapacità nel rimbalzello.

Sei insopportabile! Sparisci!” ruggì il bambino dagli occhi neri, neri, neri, indicandogli il sentiero con un arco arrabbiato del braccio.

Ecco, aveva esagerato davvero. Lo sapeva che sarebbe successo, Hashirama. O almeno se lo aspettava.

Si sentì mortificato, un verme. Voleva farsi perdonare e aveva solo peggiorato le cose. Non pensava che si sarebbe arrabbiato solo perchè gli aveva fatto notare che non era bravo a rimbalzello, che lo avrebbe considerato insopportabile. Voleva farsi perdonare e aveva finito per peggiorare le cose. Non avrebbe più voluto giocare a rimbalzello con lui, poco ma sicuro. E avrebbe perso per chissà quanto tempo la possibilità di incontrare qualcuno di altro, di assaporare una goccia scura di rischio, di fare qualcosa che sarebbe durato qualche minuto, ma sarebbe stato diverso. Di essere altro per qualche minuto, non pensare, parlare e sorridere.

Sarebbe rimasto per sempre nella sicurezza mortale del suo mondo di foglie, ombra, terra e sole.

E zanne artigli ruggiti fango urla ossa spezzate strida fumo sangue cenere. E morte.

“Accordo...” mugugnò, mogio mogio. Gli voltò le spalle e accennò un saluto con la manina.

Ritornava di nuovo nella sicurezza mortale del suo mondo di foglie, ombra, terra e sole.

E zanne artigli ruggiti fango urla ossa spezzate strida fumo sangue cenere. E morte.

No, aspetta!

Qualcosa gli afferrò il collo della casacca da dietro, togliendogli il fiato per un momento.

Si voltò su una spalla, confuso e un po’ seccato da quella confusione, in realtà. “Che c’è? Deciditi”

Certo che gli altri erano parecchio strani. Non riusciva proprio a capirli, no no.

O era solo il bambino dagli occhi neri, neri, neri ad essere strano?

Fu un attimo.

Dalla zona di foresta a monte si alzarono le prime colonne di fumo, lacrime che sfregiavano il cielo azzurro. Lacrime al contrario, che scorrevano al contrario, perchè erano orribilmente, oscenamente sbagliate -non dovevano essere così non dovevano non dovevano- e insieme al fumo si alzavano turbini di cenere, brandelli di carta di riso che nessuno avrebbe voluto lanciare, e insieme al fumo si alzavano venti di morte e l’odore orribile della carne bruciata, della terra carbonizzata e isterilita e del fango, dell’acqua sporca di polvere.

E risuonò un grido di guerra, ovattato come in un mondo di bambagia. Ma l’aria vibrò comunque.

E risuonò uno stridore di odio, affilato come un fischio lontano. Ma l’aria si squarciò comunque.

E risuonò un latrato di rabbia, ruvido e inconsistente come la terra secca. Ma l’aria franò comunque.

Hashirama poteva percepirla. La sofferenza della foresta che moriva poco alla volta, soffocata, bruciata, spezzata e frantumata. Poco a poco. Poi rinasceva. Poco a poco. Moriva di nuovo. Poco a poco.

Miliardi di buchi nell’acqua, come i sassi lanciati dal bambino dagli occhi neri, neri, neri.

Sospirò, Hashirama. E non si stupì quando la corrente trascinò fino a loro un cadavere.

“Ma quello è...”

Sotto lo sguardo stupito del bambino dagli occhi neri, neri, neri, scese in acqua e raggiunse il corpo con passi lenti e ampi. E intanto chiedeva alla corrente di non considerarlo un suo figlio, di non fondersi al suo sangue, donandogli un brivido che davanti a quel cadavere spezzato sarebbe stato solo di ribrezzo.

Perchè quello era un Kitsune. E ad ucciderlo, spezzarlo, distorcerlo come una bambola snodabile era stato un membro della sua tribù. Suo padre. Suo zio. Sua madre. O uno qualsiasi dei visi che conosceva alla perfezione. Visi che sorridevano. Non ringhiavano.

“Sei... Uno di noi?” soffiò il bambino dagli occhi neri, neri, neri, occhi neri spalancati che non erano più occhiacci neri. Immobile, ritto sulla riva. Nero-e-bianco. Una goccia di sudore gli scivolava lungo la curva delle guance piene. Nero-e-bianco.

Noi.

Allora aveva visto giusto.

Noi.

I mostri.

Li chiamavano così. Gli altri.

Noi.

Che parola vuota.

Un eco terribile.

Più estranei di tutti.

Non aveva bisogno di rispondergli.

“Presto ci sarà una battaglia anche qui. Torna a casa”

Se la tribù delle Kitsune stava combattendo contro di loro, era probabile che si fosse alleata con...

“Io devo andare”

Subito-subito-subito. I suoi cuori avevano cominciato a rimbombare con forza. Tutti e due.

Pregava il cielo e la sua dea che almeno loro fossero a casa, al sicuro. Nella loro casa di legno e foglie. Così sperava Hashirama.

Raggiunse l’altra riva, lasciando che la corrente trascinasse via il corpo spezzato del Kitsune. Si fermò, superate le acque grigie del fiume. Che in realtà non erano più grigie e nemmeno più azzurre, perchè una guerra di millenni ci aveva disciolto un rosso colpevole. Che non voleva saperne di stemperarsi.

“Ti saluto, uhm... Come hai detto che ti chiami?”

So che non l’hai detto.

Ma vorrei sapere il tuo nome, bambino dagli occhi neri, neri, neri.

Il bambino dagli occhi neri, neri, neri lo guardò con aria di sfida e la sua bocca bianca si curvò in un sorriso affilato e appuntito. Come un coltellaccio. Era così bianco... Tanto bianco, così tanto che tagliava l’aria. “Mi chiamo Madara. Però non posso dirti il mio cognome... Non ce l’ho, non ce l’abbiamo, noi”

Madara. Ma-da-ra, sì?

Madara che era tutto nero, dai vestiti, ai capelli, agli occhi.

Madara che era tanto bianco, così tanto che tagliava l’aria.

Madara che era fatto di nero-e-bianco.

Madara dagli occhi neri, neri, neri. Troppo neri.

“Immaginavo che anche tu fossi uno di noi

Noi.

Che parola vuota.

Un eco terribile.

Più estranei di tutti.

O forse no?

Mentre ritornava nella sicurezza mortale del suo mondo di foglie, ombra, terra e sole, Hashirama sapeva che lui e Madara dagli occhi neri, neri, neri erano diversi. Più diversi di tutti. Ma pensò che in qualche modo erano simili. E credette di capire perchè era venuto al fiume.

 

 

 

 

*Noticine sul titolo

Il titolo comprende i kanji “mujitsu” che significa “falso”, “vacuo” ma anche “innocente, senza colpa”, poi “grigio” e “fiume”. Letteralmente, si può tradurre “Il fiume dal falso/innocente colore grigio”. Perdonate lo svarione linguistico, è da un bel po’ che non apro il dizionario di giapponese.

**Noticine sul testo in giapponese

Si tratta della canzone “PRIDE” del gruppo giapponese “Nothing’s Carved in Stone”. La traduzione è in parte tratta (anche se rielaborata) dai sub del XIII’s Fansub.

 

   
 
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