Buonasera
a tutto il mondo!
Visto
che domani partirò per fare la più grossa
follia mai pensata in quella vasta terra desolata che è la
mia mente, mi sono
detta: “Perchè non perseverare nella
follia?”.
E
dunque eccomi qui. È la prima fanfiction che scrivo
su questo sito e a dire il vero è uno sghiribizzo che mi
è venuto stando in
montagna. Un esperimento che più sperimentale non si
può, insomma, scritto di
getto, con uno stile mooolto lontano dalle mie abitudini, ma che mi
diverte un
sacco. Che dire, spero che vi piaccia!
Per
le noticine riguardanti il titolo di questo
ciclo di capitoli* e il testo in giapponese**, vedere sotto! Per il
titolo
della fanfiction non credo siano necessarie spiegazioni: ovviamente
significa “Vero
sogno” (sul serio, quante volte l’hanno ripetuto?).
Grazie
a chiunque vorrà imbarcarsi a leggere questa
cosa informe <3
See
ya (speriamo),
Shodai
いつもより早く
Sotto
un cielo stellato
消えてった星空に
scomparso
più in fretta che mai,
重
なり合った出会いは
i
nostri tantissimi e sparsi incontri
俺
を呑み込んでいく
mi hanno inghiottito.
Era
lì ormai da mezz’ora, minuto più,
minuto meno. Era
arrivato con la carica ritmata di una coppia di gocce che cola da un
tetto, i
pugni stretti e le gambe tese. Nero e arruffato come un corvo,
sbuffante come
un soffio di vento imprigionato in un corridoio.
Hashirama,
dalla comoda seduta sulla sua roccia
preferita, aveva tirato fuori i piedi dal fiume e l’acqua
aveva smesso di
scorrergli nelle vene. La gravità l’aveva fatta
ripiombare nel suo alveo originale,
mentre si alzava al rumore delle foglie secche e spezzate, vigile come
un
capriolo.
Così si fa con gli
umani, capisci, bambino?
Aveva
appena fatto tempo a rifugiarsi nel buio umido
della foresta che dal sentiero era sbucato quel corvaccio. Aveva
macinato i
sassi della riva sotto i suoi piedi magri e impolverati, poi si era
fermato a
pochi passi dall’acqua, le mani sui fianchi e le guance
gonfie di petulanza e
rabbia infantile.
Si
era messo a lanciare sassi nel fiume, nemmeno quei
piccoli frammenti inanimati fossero pensieri da eliminare. Uno
scoiattolino
spelacchiato che cerneva le sue noccioline, scartando quelle marce con
sistematica crudeltà. E i suoi occhiacci neri si stringevano
cattivi.
Tutt'uno
con il tronco che gli fungeva da nascondiglio, le
mani che vibravano per la linfa che penetrava nei palmi, Hashirama lo
osservava
con le sopracciglia arcuate e le labbra increspate per la
curiosità. Sembrava
decisamente irritato, ma più sassi lanciava, più
le sue spalle abbandonavano la
postura tesa, finchè le sue braccia non disegnarono
più archi rabbiosi, ma
sorrisi stanchi.
Il
cambiamento avvenne quando una pietra particolarmente
piatta sfiorò una volta di troppo la superficie
dell’acqua. Gli occhiacci neri
del bambino si spalancarono per un attimo e non sembrarono
più tanto degli
occhiacci neri, mentre la sua bocca assunse una buffa piega risoluta.
Possibile
che non avesse mai giocato a rimbalzello prima?
No,
decisamente no, si disse Hashirama con aria critica
quando lo vide scegliere un sasso troppo rotondo e pesante. In fondo
avrebbe
anche potuto andare ad aiutarlo, si disse. In fondo non poteva fargli
niente di
male, pensò. Però gli adulti preferivano che non
ci si avvicinasse agli
sconosciuti, ricordò. Però quel bambino sembrava
proprio della sua età,
osservò. E non sentiva provenire da lui nessuna aura
particolare, aggiunse. E
sembrava proprio negato per il rimbalzello.
Lo
guardò sbuffare per un po’, mentre si arrotolava
le
maniche e cercava sassi sempre più adatti
–imparava in fretta, anche se era
negato per il rimbalzello. Lo guardò togliersi la casacca
scura e incastrarla
tra le dita di un vecchio ramo denudato dal fiume, in modo che non si
sporcasse
di polvere. E di nuovo sbuffava, frustrato, e non gli bastavano i
cerchi che si
incidevano nell’acqua, sempre più numerosi, sempre
più spesso.
Tre,
quattro, cinque.
Un
saltello zoppicante e poi giù, nelle acque grigie del
fiume.
Che
in realtà non erano grigie, ma lo sembravano,
beninteso. L’acqua in quel punto del fiume era bella limpida
e lasciava
filtrare il colore del fondale, una distesa di ghiaia pulita, che
ribolliva
sotto i piedi.
Impietosito
dai rumori gutturali dei sassi inghiottiti
dalla corrente e incuriosito dagli ansiti innervositi del bambino tutto
nero, perchè era tutto nero, dai
vestiti, ai
capelli, agli occhi, Hashirama decise di andare ad aiutarlo.
Non lo faceva
perchè voleva incontrare qualcuno del mondo altro,
beninteso.
E
nemmeno perchè sentiva il desiderio precipitoso di
assaporare una goccia scura di rischio, di fare qualcosa che sarebbe
durato
qualche minuto, ma sarebbe stato diverso. Lui avrebbe potuto essere altro per qualche minuto, non pensare,
parlare e sorridere. E insegnargli a giocare a rimbalzello e chiedergli
perchè
non era contento di essere riuscito a far saltare il sasso tre,
quattro, cinque
volte e un saltello zoppicante e poi giù, nelle acque grigie
del fiume.
Che
in realtà non erano grigie, ma lo sembravano,
beninteso.
Abbandonando
per un momento quel corvaccio tutto sbuffi e
determinazione, Hashirama si immerse nel suo mondo di foglie, ombra,
terra e
sole. Infilò le ciabatte di corda per non presentarsi come
un selvaggio, corse
lungo i sentieri invisibili che solo loro
conoscevano, sfiorando i rami fragili dei cespugli e gli arbusti del
sottobosco.
La
stagione estiva volgeva al termine e l’ombra fresca e
umida della foresta sembrava contornata dalla luce dorata che precedeva
il
tramonto. L’autunno era vicino e presto sarebbe stato tutto
rosso ardente, di
foglie morte e di terra umida, le ragnatele avrebbero pianto pioggia e
poi
brina, la corteccia degli alberi sarebbe diventata morbida per la
nebbia. E le
acque del fiume sarebbero sembrate ancora grigie, ma di un grigio
livido e
giallo che rifletteva il cielo. E si sarebbero ingrossate. E non
sarebbero più
state limpide. Si sarebbero riempite di fango e foglie e rami neri e
avrebbero
nascosto tutto riflettendo il grigio livido e giallo del cielo.
Era
contento, Hashirama, di aggrapparsi agli ultimi
brandelli d’estate. Di vedere la ghiaia grigia sotto le acque
grigie del fiume -che
in realtà non erano grigie, ma lo sembravano, beninteso-
mentre lo
attraversava. Il bambino-corvo non si vedeva più, per
fortuna, e non poteva
vederlo. Era ancora a sbuffare e lanciare –male- i sassi per
il rimbalzello,
nascosto e cieco dietro l’ansa del fiume.
Hashirama
attraversò il suo guado improvvisato con due
balzi poco studiati. L’acqua lo accolse senza schizzi,
proprio come voleva, si
fuse al suo sangue e viaggiò per tutto il suo corpo, fredda
e piacevole come un
brivido incausato. Sapeva di pesce, di foglie e di vita.
Quando
raggiunse l’altra riva, non lo seguì, proprio come
voleva. La gravità la fece ripiombare nel suo alveo
originale, mentre le
piccole gocce circolari rotolarono fino a terra e sparirono, cotte dal
sole che
baciava le pietre e le cime degli alberi.
Il
sentiero era vicino. C’era solo da sperare che il
bambino-corvo non se ne fosse già andato, con i polmoni
collassati per tutto
quello sbuffare. Hashirama sperava davvero di no, si disse che avrebbe
potuto
anche uscire allo scoperto dal nascondiglio di prima, per scongiurare
l’eventualità che il bambino-corvo finisse
l’aria per sbuffare e decidesse di
tornare a casa, ma quando hai a che fare
con gli altri, pensa a cosa
potrebbero pensare loro, segui i loro sentieri, così si fa
con gli umani,
capisci, bambino?
Rientrò
nella foresta, incontrò il sentiero e lo seguì
fino al punto in cui il bambino-corvo aveva deviato per scendere al
fiume.
Vedeva la sua schiena nera, i capelli neri, poteva immaginare i suoi
occhiacci
neri. Chissà se non sembravano più tanto degli
occhiacci neri...
Avanzò
in silenzio fino al limitare degli alberi e attese
che la voce gli risalisse fino in gola.
Il
bambino-corvo si stava piegando per cercare altri
sassi, dopo un altro sbuffo frustrato. Rimase in equilibrio sulle punte
dei
piedi, le ginocchia piegate e una mano a terra. Hashirama poteva
immaginare con
quali occhiacci stesse osservando le acque del fiume, mentre faceva
rimbalzare
un sasso particolarmente bello sul palmo.
“Giuro
che la prossima volta arriverò all’altra
sponda”
mugugnò il bambino-corvo.
Ecco
che cosa voleva. Che corvaccio ambizioso, si disse
Hashirama, compiaciuto. Gli sarebbe piaciuto parlargli,
pensò, lasciandosi
scivolare lungo il declivio erboso che segnava il confine tra la
foresta e il
fiume.
Concentrandosi
solo per un momento su quel corvaccio
tutto sbuffi e determinazione, Hashirama abbandonò il suo
mondo di foglie,
ombra, terra e sole.
Raccolse
un sasso perfetto per il rimbalzello e lo fece
saltare tre, quattro, cinque, sei, sette, otto volte e un saltello
sulla riva
opposta, un rumore che sapeva di vittoria e soddisfazione, superate le
acque
grigie del fiume. Che in realtà non erano più
grigie, perchè un raggio di sole
ci aveva disciolto un azzurro tenue.
Il
bambino-corvo si girò su una spalla, imbronciato. Ma
quello spicchio di viso non era quello di un bambino-corvo,
perchè non era
fatto solo di nero, nero dai vestiti, ai
capelli, agli occhi. Il bambino-corvo non era fatto solo di
nero, perchè
c’era del bianco in lui. Tanto bianco, così tanto
che tagliava l’aria. Il bianco
polveroso di chi ha corso nella foresta, di chi ha rovistato tra le
pietre del
fiume, cotte dal sole che baciava le pietre e le cime degli alberi.
Il
bambino-corvo era fatto di nero e bianco e lo fissava
con la coda dell’occhio, imbronciato.
Hashirama
sorrise e ammiccò, il braccio ancora teso. “Il
segreto è lanciare leggermente in alto”
rivelò.
Gli
occhiacci del bambino nero-e-bianco lo scrutarono per
un po’, sospettosi, mentre una goccia di sudore gli scivolava
lungo la curva
delle guance piene. Espirò dal naso e strinse il sasso che
ancora teneva in
mano. E che all’improvviso era diventato la preda del suo
sguardo nero nero. “Lo
so” disse, sulla difensiva. “E’ che non
mi sono ancora messo d’impegno!”
Hashirama
pensò che i suoi occhiacci non erano affatto
cattivi. Pensò che quel bambino nero-e-bianco era
estremamente buffo. E
orgoglioso. Gli veniva da ridere, così sentì la
pelle degli zigomi che premeva
contro gli angoli degli occhi.
“Ma
tu chi saresti?” domandò il bambino nero-e-bianco
con
aria sospettosa e insieme stupita.
Hashirama
gli rispose con un suono pensieroso. Non
pensava che il bambino nero-e-bianco gli avrebbe chiesto subito chi
era. Lui lo
avrebbe fatto, probabilmente –così gli avevano
insegnato sua madre, suo padre,
così avevano insegnato a lui e ai suoi fratelli. Ma il
bambino nero-e-bianco
non sembrava qualcuno che dovesse nascondersi, qualcuno di diverso.
Certo, era
troppo nero e troppo bianco sotto tutta la polvere, ma i suoi occhiacci
neri
neri erano compatti, non nascondevano grumi di segreti.
Cosa
poteva rispondergli?
Non dire a nessuno degli altri il
tuo nome, d’accordo? Non farti vedere,
rifuggi la loro presenza, così si fa con gli umani, capisci,
bambino?
“Diciamo
che per ora sono il tuo rivale di rimbalzello”
rispose, soddisfatto della trovata. “Anche se, a differenza
di te, io ce l’ho
fatta” Lo mise in chiaro, sì, sottolineandolo per
bene, sì, perchè le sue
abilità a rimbalzello non dovevano essere ignorate dal
bambino nero-e-bianco. E
sorrideva, sfidandolo a fare meglio, a inghiottire l’orgoglio
per chiedergli
ancora il suo nome.
“Ti
ho chiesto come ti chiami!” strepitò invece il
bambino nero-e-bianco, avanzando verso di lui con un singolo passo
bellicoso.
Stringeva ancora nel pugno quel suo sasso.
Hashirama
rispose. In fondo che pericolo c’era?
“Per
vari motivi non ti posso rivelare il mio cognome...”
Non ce l’ho, non ce
l’abbiamo, noi.
“Ma comunque mi chiamo Hashirama”
Il
bambino nero-e-bianco sembrava perplesso per quella risposta,
occhio socchiuso e smorfia scettica. Rimase in silenzio per qualche
secondo,
valutandolo con cipiglio attento, e ad Hashirama sembrò
sempre più nero e
sempre più bianco, meno corvo e più bambino. Lo
vide stringere di nuovo il
sasso, lo vide sollevarlo per mostrarglielo.
“D’accordo,
Hashirama...”
concesse. “Osserva, perchè questa volta ce la
farò!”
Hashirama
quasi sussultò a sentire quel cambio di tono,
quasi sussultò a vederlo tirare.
Poi
sussultò davvero, perchè il suo sguardo
sfiorò quasi
per caso gli occhiacci del bambino nero-e-bianco, socchiusi nella
concentrazione, e, per gli interminabili secondi in cui il sasso
rimbalzò
sull’acqua e uno e due,
non riuscì
più a staccarsi.
Occhi
neri, neri, neri.
Troppo neri.
Non
nascondevano grumi di segreti, erano compatti, quasi
liquidi. Non nascondevano grumi di segreti perchè erano un
unico, enorme
segreto. Occhi neri, neri, neri.
Troppo neri. La luce non si
rifletteva, veniva inghiottita per non tornare più,
divorata, attirata e
risucchiata come acqua che sfuggiva tra le dita. Occhi neri,
neri, neri. Troppo neri.
Non lasciavano scappare nulla, avevano mangiato persino la pupilla.
Se
ne stavano lì, buchi neri scavati nelle orbite
bianche, circondati da ciglia nere.
Da
come sono neri,
neri, neri i suoi occhi, sono (quasi) certo che non
è uno degli altri, si
disse Hashirama con una certa
serietà, prima che il rumore del sasso lanciato, miseramente
inghiottito dal
fiume a un paio di metri dall’altra sponda, lo riportasse in
quel mondo di
sole, pietre e acqua.
Hashirama
sollevò le sopracciglia, senza parole per quel
lancio disastroso.
Il
bambino dagli occhi neri, neri, neri
era congelato nella posizione con cui aveva
tirato. Riusciva ad immaginarsi la smorfia imbarazzata, il sudore
colpevole che
scivolava lungo le curve delle guance piene. E chissà quanto
erano foschi i
suoi occhiacci neri, neri, neri.
Hashirama
sentiva montare una bella risata nel petto.
Prese un respiro per lasciarla andare e-
“Bastardo!”
ruggì il bambino dagli occhi neri,
neri, neri, costringendolo a
cercare riparo dietro i palmi delle mani. Gli puntava addosso due
indici
accusatori e i suoi occhiacci neri, neri,
neri facevano paura. “Scommetto che ti sei messo
dietro di me apposta per
distrarmi! Non ti hanno insegnato che non ci si mette alle spalle della
gente?!
Sono un tipo sensibile, io!”
Hashirama
si sentì mortificato, un verme. Voleva aiutarlo
a giocare a rimbalzello e aveva solo peggiorato le cose. Nessuno gli
aveva mai
detto di non mettersi alle spalle della gente, che era da maleducati.
Voleva
aiutarlo e aveva finito per peggiorare le cose. Non avrebbe
più voluto giocare
a rimbalzello con lui, poco ma sicuro. E avrebbe perso per
chissà quanto tempo
la possibilità di incontrare qualcuno di altro,
di assaporare una goccia scura di rischio, di fare qualcosa
che sarebbe
durato qualche minuto, ma sarebbe stato diverso. Di essere altro per qualche minuto, non pensare,
parlare e sorridere.
Sarebbe
rimasto per sempre nella sicurezza mortale del
suo mondo di foglie, ombra, terra e sole.
E zanne artigli ruggiti fango
urla ossa spezzate strida fumo sangue cenere.
E morte.
Si
accoccolò tra i sassi, abbracciandosi le ginocchia.
“S-scusami...” mugolò.
Rapportarsi
con gli altri
era davvero complicato, evidentemente. Avevano una
sensibilità diversa.
Ma
il bambino dagli occhi neri, neri, neri
azzardò un sorriso incerto e mortificato a sua
volta. I suoi occhiacci neri, neri, neri
–tropponeri- divennero sopportabilmente neri, sotto le
sopracciglia nere increspate. “No... Non è mica
una cosa così grave. Anzi,
scusami tu. Non hai fatto nulla di male. Alla fine stavo solo cercando
una
scusa”
Hashirama
si disse che forseforseforse alla
fine non erano poi tanto diversi. Il bambino
dagli occhi neri, neri, neri poteva
avere lo stesso caratteraccio di Tobirama, in fondo, no?
Sarà anche stato un
umano o qualunque altra cosa che giustificasse quegli occhi neri, neri, neri, ma non sembrava tanto
diverso dai bambini della sua tribù. O forse sì?
Come faceva a capirlo?
Parlando?
“E’
che non sapevo avessi una fobia così irritante”
lo provocò con una finta voce
spezzata, nascondendo un ghigno tra braccia e ginocchia. Era
divertente, era
nuovo e familiare.
“Non
mi è ancora
chiaro se sei un bravo ragazzo oppure no!”
sbraitò il bambino dagli occhi neri,
neri, neri, pugnalandolo a distanza con quel suo indice
accusatore.
Hashirama
balzò in piedi e liberò la risata che teneva in
bilico sui polmoni da tempo. “Ma di sicuro ti è
chiaro che sono più bravo di te
nel rimbalzello!” Sghignazzò, mimandogli il gesto
di lanciare. Era divertente,
era nuovo, era familiare.
“Maledetto!
Adesso lancio te al posto del sasso!”
Ecco,
aveva esagerato davvero. Lo sapeva che sarebbe
successo, Hashirama. O almeno se lo aspettava.
Si
lasciò cadere di nuovo sulla riva sassosa.
“S-scusami... Non volevo farti arrabbiare”
uggiolò, sperando di farlo calmare.
E chissà come avrebbe reagito, da umano o qualunque altra
cosa che
giustificasse quegli occhi neri, neri,
neri. Non si poteva mai sapere con gli altri,
non si poteva mai pensare come avrebbero reagito, perchè
erano diversi, capisci, bambino?
Provò
così: “Per farmi perdonare, mi lascerò
lanciare nel
fiume” Ecco, quella era una buona idea, si disse Hashirama.
“Avanti, lanciami
pure...”
Come una pietra nel rimbalzello,
no?
“Ma
lo sai che sei
parecchio irritante?!”
berciò
il bambino dagli occhi neri, neri, neri,
le mani sui fianchi e i capelli neri arruffati come le penne di un
corvo sotto
la pioggia. Però non sembrava più così
arrabbiato.
Come una pietra nel rimbalzello. Saltare tre,
quattro, cinque, sei, sette, otto volte e-
Oh,
già.
Ma tu sei proprio negato, sai,
bambino dagli occhi neri, neri, neri?
“Anche
se dubito che sarai capace di farmi arrivare fino
all’altra riva” Lo mise in chiaro, sì,
sottolineandolo per bene, sì, rassegnato
e (forseforseforse) un
po’ maligno.
Perchè il bambino dagli occhi neri,
neri,
neri non poteva ignorare la propria scandalosa
incapacità nel rimbalzello.
“Sei
insopportabile! Sparisci!” ruggì il
bambino dagli occhi neri, neri, neri,
indicandogli il
sentiero con un arco arrabbiato del braccio.
Ecco,
aveva esagerato davvero. Lo sapeva che sarebbe
successo, Hashirama. O almeno se lo aspettava.
Si
sentì mortificato, un verme. Voleva farsi perdonare e
aveva solo peggiorato le cose. Non pensava che si sarebbe arrabbiato
solo
perchè gli aveva fatto notare che non era bravo a
rimbalzello, che lo avrebbe
considerato insopportabile. Voleva farsi perdonare e aveva finito per
peggiorare le cose. Non avrebbe più voluto giocare a
rimbalzello con lui, poco
ma sicuro. E avrebbe perso per chissà quanto tempo la
possibilità di incontrare
qualcuno di altro, di assaporare
una
goccia scura di rischio, di fare qualcosa che sarebbe durato qualche
minuto, ma
sarebbe stato diverso. Di essere altro
per qualche minuto, non pensare, parlare e sorridere.
Sarebbe
rimasto per sempre nella sicurezza mortale del
suo mondo di foglie, ombra, terra e sole.
E zanne artigli ruggiti fango
urla ossa spezzate strida fumo sangue cenere.
E morte.
“Accordo...”
mugugnò, mogio mogio. Gli voltò le spalle e
accennò un saluto con la manina.
Ritornava
di nuovo nella sicurezza mortale del suo mondo
di foglie, ombra, terra e sole.
E zanne artigli ruggiti fango
urla ossa spezzate strida fumo sangue cenere.
E morte.
“No,
aspetta!”
Qualcosa
gli afferrò il collo della casacca da dietro, togliendogli
il fiato per un momento.
Si
voltò su una spalla, confuso e un po’ seccato da
quella confusione, in realtà. “Che
c’è? Deciditi”
Certo
che gli altri
erano parecchio strani. Non riusciva proprio a capirli, no no.
O
era solo il bambino dagli occhi neri, neri,
neri ad essere strano?
Fu
un attimo.
Dalla
zona di foresta a monte si alzarono le prime
colonne di fumo, lacrime che sfregiavano il cielo azzurro. Lacrime al
contrario, che scorrevano al contrario, perchè erano
orribilmente, oscenamente
sbagliate -non dovevano essere così
non
dovevano non dovevano- e insieme al fumo si alzavano turbini
di cenere, brandelli
di carta di riso che nessuno avrebbe voluto lanciare, e insieme al fumo
si
alzavano venti di morte e l’odore orribile della carne
bruciata, della terra
carbonizzata e isterilita e del fango, dell’acqua sporca di
polvere.
E
risuonò un grido di guerra, ovattato come in un mondo
di bambagia. Ma l’aria vibrò comunque.
E
risuonò uno stridore di odio, affilato come un fischio
lontano. Ma l’aria si squarciò comunque.
E
risuonò un latrato di rabbia, ruvido e inconsistente
come la terra secca. Ma l’aria franò comunque.
Hashirama
poteva percepirla. La sofferenza della foresta
che moriva poco alla volta, soffocata, bruciata, spezzata e frantumata.
Poco a
poco. Poi rinasceva. Poco a poco. Moriva di nuovo. Poco a poco.
Miliardi
di buchi nell’acqua, come i sassi lanciati dal
bambino dagli occhi neri, neri, neri.
Sospirò,
Hashirama. E non si stupì quando la corrente
trascinò fino a loro un cadavere.
“Ma
quello è...”
Sotto
lo sguardo stupito del bambino dagli occhi neri,
neri, neri, scese in acqua e
raggiunse il corpo con passi lenti e ampi. E intanto chiedeva alla
corrente di
non considerarlo un suo figlio, di non fondersi al suo sangue,
donandogli un
brivido che davanti a quel cadavere spezzato sarebbe stato solo di
ribrezzo.
Perchè
quello era un Kitsune. E ad ucciderlo, spezzarlo,
distorcerlo come una bambola snodabile era stato un membro della sua
tribù. Suo
padre. Suo zio. Sua madre. O uno qualsiasi dei visi che conosceva alla
perfezione. Visi che sorridevano. Non ringhiavano.
“Sei...
Uno di noi?”
soffiò il bambino dagli occhi neri,
neri,
neri, occhi neri spalancati che non erano più
occhiacci neri. Immobile,
ritto sulla riva. Nero-e-bianco. Una goccia di sudore gli scivolava
lungo la
curva delle guance piene. Nero-e-bianco.
Noi.
Allora
aveva visto giusto.
Noi.
I mostri.
Li
chiamavano così. Gli altri.
Noi.
Che parola vuota.
Un eco terribile.
Più estranei di tutti.
Non
aveva bisogno di rispondergli.
“Presto
ci sarà una battaglia anche qui. Torna a casa”
Se
la tribù delle Kitsune stava combattendo contro di
loro, era probabile che si fosse alleata con...
“Io
devo andare”
Subito-subito-subito. I suoi cuori avevano
cominciato a rimbombare con forza. Tutti e due.
Pregava
il cielo e la sua dea che almeno loro
fossero a casa, al sicuro. Nella
loro casa di legno e foglie. Così sperava Hashirama.
Raggiunse
l’altra riva, lasciando che la corrente
trascinasse via il corpo spezzato del Kitsune. Si fermò,
superate le acque
grigie del fiume. Che in realtà non erano più
grigie e nemmeno più azzurre,
perchè una guerra di millenni ci aveva disciolto un rosso
colpevole. Che non
voleva saperne di stemperarsi.
“Ti
saluto, uhm... Come hai detto che ti chiami?”
So che non l’hai detto.
Ma vorrei sapere il tuo nome,
bambino dagli occhi neri, neri, neri.
Il
bambino dagli occhi neri, neri, neri
lo guardò con aria di sfida e la sua bocca bianca
si curvò in un sorriso affilato e appuntito. Come un
coltellaccio. Era così
bianco... Tanto bianco, così tanto che tagliava
l’aria. “Mi chiamo Madara. Però
non posso dirti il mio cognome... Non
ce l’ho, non ce l’abbiamo,
noi”
Madara.
Ma-da-ra, sì?
Madara
che era tutto nero, dai vestiti, ai capelli, agli
occhi.
Madara
che era tanto bianco, così tanto che tagliava
l’aria.
Madara
che era fatto di nero-e-bianco.
Madara
dagli occhi neri,
neri, neri. Troppo neri.
“Immaginavo
che anche tu fossi uno di noi”
Noi.
Che parola vuota.
Un eco terribile.
Più estranei di tutti.
O
forse no?
Mentre
ritornava nella sicurezza mortale del suo mondo di
foglie, ombra, terra e sole, Hashirama sapeva che lui e Madara dagli
occhi neri, neri, neri erano
diversi. Più
diversi di tutti. Ma pensò che in qualche modo erano simili.
E credette di
capire perchè era venuto al fiume.
*Noticine
sul titolo
Il titolo comprende
i kanji “mujitsu” che significa
“falso”, “vacuo” ma anche
“innocente, senza
colpa”, poi “grigio” e
“fiume”. Letteralmente, si può tradurre
“Il fiume dal
falso/innocente colore grigio”. Perdonate lo svarione
linguistico, è da un bel
po’ che non apro il dizionario di giapponese.
**Noticine sul
testo in giapponese
Si tratta
della canzone “PRIDE” del gruppo giapponese
“Nothing’s Carved in Stone”. La
traduzione
è in parte tratta (anche se rielaborata) dai sub del
XIII’s Fansub.