- Personaggi/Paring: Naruto,
Orochimaru, Kiba Inuzuka, Konohamaru, Choji Akimichi, Sakura Haruno
[OrochimaruxNaruto]
- Genere: Avventura, drammatico
- Rating: giallo
- Avvertimenti: AU, shonen-ai
- Trama (facoltativa): In una
città
non ben precisata, un bambino sfugge alla miseria e alla fame di una
vita
randagia per incontrare nuovi compagni, a cui si unirà. Le
avventure non
mancheranno, e con loro la nascita di un sentimento nuovo e particolare
per
Naruto, il capobanda.
- NdA (facoltativa): i personaggi della storia hanno tutti
14-15 anni, ma
tra il primo capitolo e il terzo passano due anni; Orochimaru risulta
quindi
caratterizzato come ai tempi dell’Accademia ninja con Jiraiya
e Tsunade.
White
Blood
Ogni
inizio è la fine di qualcosa.
Non sapeva dov’era, e
neppure perché era lì. Sapeva di
essere vivo, e basta.
Disteso su uno straccio lacero, nell’angolo di un vicolo
buio e poco frequentato, il bambino si riparava
dall’umidità, tentando di
nascondersi il più possibile dagli sguardi: per sua fortuna,
però, faceva
troppo freddo perché qualcuno decidesse di passeggiare a
quell’ora, e comunque
non sarebbe mai saltato in mente a nessuno di inoltrarsi in strade
così
pericolose.
L’inverno stava finendo, ma notti come quella erano ancora
gelide,
e il più delle volte portavano la neve o il ghiaccio,
facendo somigliare le
strade a tanti sentieri di glassa, contornate da casette di marzapane.
Il paesaggio era quello di una
favola, con i bambini che
correvano per le strade (ben coperti e felici nel loro sfidarsi a palle
di
neve), e le coppie che passeggiavano mano nella mano, gettando occhiate
alle
vetrine, sorridenti nonostante i morsi impetuosi del gelo. Ma quello
fatto di
luminarie e passanti ben vestiti era solo il lato esteriore della
città… il
lato a cui molti avrebbero desiderato appartenere, e che appariva
perfetto,
lontanissimo, per coloro che vivevano dietro a quelle quinte dorate e
affascinanti.
Il dedalo caotico e claustrofobico dei vicoli si snodava
dalla piazza principale e abbracciava quasi tutta la periferia, col suo
insieme
di palazzoni, discariche e parcheggi sterrati. Più ci si
allontanava dal
centro, più l’aria diventava fresca e
sopportabile, lasciando spazio a zone
verdi e meno popolate… ma, nel bel mezzo
dell’intreccio delle strade, i rigori
dell’inverno e l’afa soffocante
dell’estate giungevano intatti e fastidiosi,
condizionando il più delle volte l’umore di chi vi
abitava.
Il piccolo starnutì, cercando di stringere con i pugni
chiusi la coperta sbrindellata che lo copriva a malapena. Dopo aver
vagato per
giorni, tormentato dal freddo e dalla fame, si era stabilito in
quell’angolo
con i suoi unici averi: un cappello, una sciarpa spelacchiata di lana
marrone,
le scarpe troppo grosse e pesanti per i suoi piedi magri, i pantaloni
piene di
toppe (fatte con quel che trovava e cucite con dello spago) e, appunto,
quello
straccio che fungeva da coperta.
Aveva mangiato prevalentemente croste di pane vecchio,
rubandole nelle cucine dei ristoranti quando il cuoco si assentava, e
si era
fatto bastare per una settimana le poche verdure trovate quasi intatte
vicino
alla spazzatura: insomma, si arrangiava.
Aveva sentito dire che al centro, in quel groviglio di
strade che chiamavano “
Il suo piano originario era quello di presentarsi ad uno
qualsiasi dei capibanda, e chiedere di essere preso con loro: aveva
già
esperienza (avendo fatto parte di parecchi piccoli gruppi), e sapeva
rendersi
utile ai compagni in vari modi. Ora che era arrivato fin lì,
però, iniziava a
capire quanto fossero vuoti e vaneggianti quei sogni.
Il silenzio, solido come un muro,
pesava sulle orecchie
quasi con violenza, spaventandolo. Era abituato al canto degli uccelli,
alle
grida dei passanti, allo scorrere del torrente… suoni
leggeri ma quotidiani,
che lo facevano sentire quasi protetto, e il non udirli lo rendeva
vulnerabile.
A peggiorare la situazione, una voce tonante si diffuse nel
vicolo:
La polizia girava per le strade più o meno ogni giorno, per
controllare che nessun bambino fuggiasco le stesse usando come
dormitori. Il
più delle volte si limitavano a scacciarli con malgarbo, ma
si raccontavano
storie di ragazzini buttati su camion diretti nelle città
vicine o trascinati
alla stazione di polizia e costretti a trascorrere la notte in cella.
Ragione
in più per nascondersi e restare in gruppi, che contavano
sull’unione e sulla
possibilità di “coprirsi” a vicenda
durante le fughe.
Anche prima di scorgere la figura massiccia del militare spuntare
nella viuzza, capì che doveva darsela a gambe il
più velocemente possibile.
Alzatosi di scatto, il bambino ebbe pochi secondi per raccattare i suoi
oggetti: non uno soltanto, ma ben due uomini in uniforme fecero
irruzione,
ferendolo con la luce accecante delle loro torce.
In seguito, gli eventi si succedettero così rapidamente da non lasciargli nemmeno il tempo di respirare.
Nell’attimo esatto in cui uno dei due uomini allungava la
mano verso la sua gamba, il ragazzino si divincolò e
iniziò una fuga
forsennata, trascinando dietro di sé i suoi oggetti
personali, che sbattevano e
svolazzavano al vento quasi comicamente, come la scia di un aeroplano.
Le strade gli passavano davanti a velocità crescente,
confondendo cartelli stradali, automobili e lampioni in un turbinio
multicolore
stordente, ma non gli importava: l’unica cosa che desiderava
era mettere il
maggior numero di passi possibili tra lui e i due agenti, che
continuavano a
stargli alle calcagna con una costanza degna dei migliori cani
poliziotto.
Tossendo, ormai senza fiato, si tuffò in una galleria alla
sua destra, sicuro di riuscire a scovare un angolo buio dove
nascondersi fino
al loro passaggio… ma, dopo aver voltato l’angolo,
si accorse di aver commesso
un grave errore: davanti ai suoi occhi si stagliava un muro, alto e
impenetrabile, al di là del quale si intravedevano palazzi e
alberi.
Come spesso succede quando si è nei guai fino al collo, è l’istinto a comandare le azioni al posto del cervello. Trovandosi davanti quel muro di mattoni rossastri (anneriti alle estremità, probabilmente a causa dello smog), il bambino non rifletté nemmeno per un istante: i suoi muscoli gli urlavano di scalarlo, aggrapparsi con foga agli interstizi e salire più che poteva, fino ad attraversarlo… e non poté far altro che obbedirgli, nel disperato tentativo di darsela a gambe.
“Sta scappando! Sta scappando! Prendilo da sotto, così lo bloccheremo!”
La confusione aumentò, fino a condurlo ad uno stadio di semi-incoscienza. Prima di battere la schiena e finire a terra, ricordò di aver visto i due uomini buttarsi su di lui, allontanati qualche minuto dopo da un gruppetto (possibile?) di ragazzini, e la sua sciarpa torcersi in una capriola al rallentatore e finire con un volo quasi elegante a terra, descrivendo un disegno sinuoso simile alla coda di una cometa.
***
“Perché te lo sei portato dietro? Non ci servirà a nulla!”
“Ah, sentilo! Se avessimo
pensato la stessa cosa quando ti
sei presentato qui piagnucolando, credi che ti avremmo tenuto? Piantala
di fare
lo spocchioso!”
“Io direi di smetterla, tutti e due. Quando si trova un
compagno abbandonato, lo si accoglie e basta. Guardate, si sta
svegliando.”
Un cicaleccio sommesso accompagnò il risveglio del bambino, che aprì gli occhi pigramente. All’inizio, credette di sognare: com’era possibile trovarsi disteso su un letto, con un cuscino soffice dietro la testa e una folla di suoi coetanei intorno che lo osservavano con l’espressione curiosa di una scolaresca in visita allo zoo, se fino a poche ore prima era riverso sull’asfalto di una stradina decentrata?
[Forse era in
Paradiso. Era morto in seguito al trauma cranico, e lo avevano portato
direttamente in quello strano Paradiso, dai muri giallo cupo e
l’arredamento
alla buona..]
Il suo sguardo perplesso non
passò inosservato. Quello che
sembrava il capo, un ragazzino biondo con dei bizzarri graffi su
ciascuna
guancia, gli sorrise.
“Se ti stai chiedendo dove ti trovi, ti do subito la
risposta:
sei nella nostra base. Io sono Naruto Uzumaki, il capo delle Volpi
Rosse, la
banda insediata in questa zona. Loro sono Kiba (un tipo magro, con due
segni
sulle guance più grossi rispetto a quelli di Naruto e i
capelli arruffati),
Choji (uno più grassoccio, che sgranocchiava patatine) e
Konohamaru (il più
basso dei tre, con una espressione corrucciata stampata in viso).
Benvenuto fra
noi!”
A parlare era stato Kiba, che
sembrava in qualche modo il
vice di Naruto, forse per i modi spicci e un po’ autoritari.
L’ultimo arrivato
lo squadrò per un attimo, smarrito, e schiuse le labbra,
lasciando uscire una
voce sottile e roca:
“Mi.. mi chiamo Orochimaru”.
“Che razza di
nome!” esclamò Konohamaru, divertito,
lanciando un pezzo di pane all’indirizzo del nuovo arrivato
(le buone maniere
non erano proprio il suo forte…). “Troppo lungo!
Da oggi in poi ti chiameremo
Orochi o White, sei così pallido… da
quant’è che non mangi?”
Orochimaru raggiunse uno specchio sbreccato nell’angolo
della stanza con lo sguardo, e osservò il suo riflesso. Era
vero: delle
occhiaie marcate gli circondavano gli occhi giallognoli, e le guance
incavate
indicavano che non toccava cibo decente da parecchio tempo.
“Nessun problema, ti rimetteremo in sesto noi!”
Naruto era il capo della combriccola a tutti gli effetti, e
in quanto tale si preoccupava della salute e delle condizioni dei suoi
compagni. La casa in cui si trovavano apparteneva ai suoi genitori
(morti
parecchi anni prima), e ormai veniva usata solo come dormitorio e
quartier
generale.
Orochimaru accettò il cibo con un po’ di
riluttanza: era pur
sempre dotato di un certo orgoglio, e non gli piaceva essere imbeccato
e
coccolato come il pulcino più piccolo della nidiata.
Però doveva riconoscere di
essere affamato… e, dopotutto, non era proprio spiacevole
trovarsi un tetto
sulla testa e qualcosa sotto ai denti dopo settimane di stenti.
“Veniamo a noi,
White” riprese Naruto, dopo averlo osservato
mangiare in silenzio. “Per essere ammessi nel gruppo,
è necessario far capire
qualcosa di più di sé stessi. Cosa sai fare?
Lavori manuali, destrezza,
intelligenza fuori dal comune… hai qualche
abilità particolare?”
Il ragazzino ci mise un po’ prima di rispondere.
“So afferrare gli oggetti molto velocemente, e correre bene. Un po’ di tempo fa, nella banda in cui mi trovavo, recuperavo le cose che ci portavano via gli altri ragazzini della zona”.
“Perfetto! Ci mancava
qualcuno con i riflessi pronti”
approvò Naruto, acchiappando anche lui un pezzo di pane.
“Tu sarai l’addetto al
controllo del movimento e alla sorveglianza, ci sarai molto utile
durante gli
spostamenti… per adesso, vedi di rimetterti in sesto e far
comparire un po’ di
grasso intorno a quelle ossa sporgenti, poi inizieremo a parlare di
lavoro e
mansioni. Ora a dormire, è tardi e abbiamo tutti bisogno di
riposo”.
Da quello che Orochimaru poteva desumere, anche in quella
casa esistevano ruoli definiti: l’addetto agli alimenti
sembrava essere
Konohamaru, mentre Choji sistemava gli arredi e teneva puliti i letti e
le
stanze. Kiba e Naruto erano “le menti”, e si
limitavano a dar regole e a
coordinare le azioni delle Volpi Rosse.
Fu infatti il ragazzo corpulento a distendere una coperta e
un cuscino un po’ sformato sulla poltrona pieghevole
destinata al “nuovo”,
augurandogli la buona notte e dirigendosi nella stanza in fondo al
corridoio,
dove i quattro riposavano.
“Era tutta una messinscena quella delle abilità,
ammettilo.
L’avresti preso lo stesso, anche se non fosse stato capace
neppure di
acchiappare una mosca”.
Tra le qualità che mancavano a Naruto, la cosiddetta
“faccia
da poker” spiccava sulle altre con prepotenza. Il biondo
tentò di assumere la
solita espressione strafottente, ma dovette arrendersi poco dopo.
“Si, è
così. Ha in sé qualcosa di strano, di speciale.
Dal
primo momento in cui l’ho visto, quando ci è
passato davanti correndo, ho
sentito di doverlo salvare in qualche modo. Forse sono solo pazzo,
Kiba… ma
sento che adesso il nostro gruppo è davvero al
completo.”
Choji si risistemò sull’amaca appesa al soffitto,
facendola
dondolare pericolosamente da un lato e tirandosi addosso il lenzuolo.
“Per
essere strano, lo sei. Ma hai ragione: in cinque si sta sicuramente
meglio”.
“Come si dice,
sarà il futuro a rivelarci se abbiamo fatto
bene o no a farlo restare”.
Kiba sbadigliò, con piglio quasi canino, e si
sistemò sul
letto, terminando lì la discussione.