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Autore: CondroitinSolfato    31/08/2016    3 recensioni
«Vuoi chiedermi niente? Vuoi sapere qualcosa di più sull'incidente? Vuoi sapere di qualcuno?».
Strana quella domanda, no? — Aveva pensato Tetsurou, che aveva alzato gli occhi taglienti e aveva alzato un sopracciglio.
«No, mi sono solo fracassato il cranio cadendo come una pera cotta, Ko-chan. Niente di più chiaro».
[Pairing: KuroKen; BokuAka]
Genere: Angst, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Keiji Akaashi, Koutaro Bokuto, Kozune Kenma, Tetsurou Kuroo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Apple Pie

Salve,  

Questa è la prima storia che pubblichiamo con questo account a doppio autore, dopo sei anni di quella che potremmo definire tranquillamente latitanza.

Non sappiamo bene cosa si faccia in questi casi, di questi tempi... per cui vi consigliamo una mini playlist per poter apprezzare al meglio la storia (che però potete leggere tranquillamente anche senza musica o con quella che preferite): vi suggeriamo di cominciare con Silouhettes degli Of Monsters and Men; continuando dapprima con Over My Shoulders di Mika e poi con Like You degli Evanescence; per poi concludere il tutto con Wonderful Life degli Alter Bridge.

Vi auguriamo una buona lettura.


 

 

 

 

Apple Pie

 

 

 

 

 

Non era facile aprire le palpebre.

Ecco, non era solito svegliarsi così. Lui era un tipo mattiniero, scattava in piedi senza problemi, ed era strano non riuscire ad aprire le palpebre. E si sentiva intorpidito. Sentiva le sue membra pesanti, aveva la sensazione che non sarebbe riuscito a muovere un muscolo nemmeno volendolo. Ne sentiva il peso contro la superficie sottostante, le sentiva davvero, e si era reso conto che fino a quel momento le aveva date per scontate.

Gli era già accaduto.

Inutile dire che Kuroo aveva fatto sesso abbastanza spesso nella sua vita e quel torpore lo associava a quella sensazione — no, non al sesso: al post.

Meglio, non al post sesso in assoluto.

La prima volta che era capitato, era stata anche la prima volta in cui si era sentito davvero coinvolto: non pensava di poter provare una sensazione nuova dopo il sesso, non immaginava che ci fosse qualcosa di diverso da quello provato fino a quel momento, eppure quella volta in particolare era stato tutto diverso. Quella era stata la prima volta in cui il suo maggior interesse era far star bene un'altra persona, in cui tutta la sua attenzione era stata focalizzata, per tutta la durata del rapporto, a rendere felice qualcuno che non fosse lui. A far star bene quel qualcuno, bene davvero. In cui tutto quello che aveva fatto era stato finalizzato a godere del susseguirsi delle espressioni — sempre più incredibili, sempre più indescrivibili — sul volto di una persona che non era lui.

Quello era stato il primo orgasmo che lo aveva lasciato completamente senza forze. Quella era stata la prima volta che si era sentito completamente svuotato, quella era stata la prima volta che si era sentito piacevolmente esausto.

Adesso, come allora, sentiva piena consapevolezza del suo corpo. Adesso come allora si sentiva. Sentiva i piedi, sentiva le gambe — sentiva che non venivano usate da tanto tempo. Sentiva le dita, sentiva le braccia. Sentiva una sensazione strana al dorso della mano sinistra, sentiva qualcosa tirargli indietro la pelle dalle nocche verso il polso — qualcosa che non doveva esserci. Sentiva le palpebre che, proprio no, non riuscivano a sollevarsi — proprio come quella volta in cui era caduto in un sonno leggero, un dormiveglia da cui non riusciva a tirarsi fuori. C'era calore, quella volta. C'era il calore e c'era il respiro di qualcuno, e il battito di un cuore che andava regolarizzandosi. C'era un rumore metallico, stavolta. C'era un ritmo regolare — un cuore artificiale che batteva fuori da lui un ritmo meccanico.

E non era riuscito ad aprirli gli occhi e aveva abbracciato quella sensazione di assopimento.

 

 

 

Poi, era riuscito a riaprirli, gli occhi.

E c'era Bokuto, lì. Dapprima aveva visto i suoi capelli, un po' più appiattiti del solito e poi i suoi occhi grandi.

Se gli avessero domandato cosa avesse detto il suo amico appena l'aveva visto sveglio, beh, Kuroo non avrebbe saputo rispondere.

Era stato faticoso, svegliarsi e capire.

E c'era tutto quel bianco e quell'odore di antisettico. E sentiva il singhiozzare incessante del suo amico, e l'aveva visto piangere.

C'era qualcosa che non andava.

 

 

 

C'era qualcosa che non andava. Mentre via via l'uscita di quel tetro ospedale si faceva sempre sempre più vicina, c'era qualcosa che non andava.

Kuroo rideva. Così come Bokuto che aveva appena cercato di rubare una sedia a rotelle a un infermiere, per poter gareggiare col suo amico e vincere il posto davanti. Ovviamente Akaashi, l'unico adulto responsabile tra i presenti, aveva fatto in modo di evitare questo comportamento decisamente molesto. E poi era calato un silenzio strano, Bokuto aveva messo il muso quasi subito e aveva sbuffato due o tre volte mentre spingeva Kuroo verso la porta di vetro.

C'era un'aria strana, ma probabilmente l'unico che si era accorto di questa situazione era Akaashi.

«Quindi pigiama party a casa vostra~».

«Sì, pigiama party, potremmo fare nottata a guardare film e spedire Akaashi sul divano...».

«Beh, sì, noi abbiamo bisogno della nostra intimità, Akaashi. Ti tocca il divano!».

«Mi sono già preparato al divano per i prossimi giorni, Kuroo-san. E vi prego di non fare troppo baccano, perché sennò i vicini si lamentano».

«Uuuh, idea, idea, idea! potremmo ubriacarci di brutto!».

«Sì~!».

«No. Kuroo-san, bere è assolutamente vietato. Non puoi assolutamente assumere alcolici in associazione ai medicinali che ti hanno prescritto. Piuttosto dovresti prendertela comoda e riposare».

«Guastafeste».

«A me non servono gli antidolorifici, sto bene. Non mi serve tutta quella roba. Dovrebbero darla ai malati quelli veri».

«Sei uno tosto, Kuroo!».

«Ah, va bene, io intanto vado a prendere la macchina, voi due non combinate macelli».

Appena Akaashi aveva guadagnato l'uscita, Bokuto si era chinato su Kuroo. I medici avevano detto che dovevano tenerlo d'occhio, che dovevano aiutarlo perché uscire da un coma era qualcosa di dispendioso, per il fisico e la mente. Keiji aveva anche detto che non doveva esagerare con gli stimoli, che doveva aspettare. Ma Bokuto non ne capiva il motivo. Se lui fosse stato al posto di Kuroo, se fosse stato in coma per tutto quel tempo, se si fosse fracassato la testa cadendo, avrebbe voluto sapere. Avrebbe voluto essere aggiornato.  

«Vuoi chiedermi niente? Vuoi sapere qualcosa di più sull'incidente? Vuoi sapere di qualcuno?».

Strana quella domanda, no? Aveva pensato Tetsurou, che aveva alzato gli occhi taglienti e aveva alzato un sopracciglio.

«No, mi sono solo fracassato il cranio cadendo come una pera cotta, Ko-chan. Niente di più chiaro».

Bokuto aveva deglutito a fondo. Sapeva che più tardi, una volta a casa, Akaashi gli avrebbe dato una bella tirata d'orecchie. E, forse, aveva ragione.

 

 

 

Doveva cogliere l'occasione, Bokuto, perché per tre settimane non aveva mai avuto modo di rimanere da solo abbastanza a lungo con Kuroo. Lui, fosse stato al posto del suo amico, avrebbe voluto che qualcuno gli facesse presente che qualcosa, qualunque fosse, era cambiato nella sua vita. Ora che Keiji era in cucina, poteva di nuovo ripetere quella domanda al suo amico. Akaashi non gli aveva permesso di tornare sull'argomento, nei giorni scorsi e, a dirla tutta, Kotaro ancora poteva sentire un certo torpore alle orecchie.

«Sicuro di non volermi chiedere niente? Di non voler sapere qualcosa di più sull'incidente o... insomma, su qualcuno?».

«Sono caduto, te l'ho detto. Perché? C'era qualcuno con me?».

«C'è stata una sparatoria, Tetsu, al centro commerciale... E sì, tu sei caduto ma».

Il tono del suo amico era greve e Kuroo avrebbe potuto giurare che non l'aveva mai vista la sua faccia seria a quel modo. Non aveva mai visto la sua faccia seria, al di fuori del campo da pallavolo, a dir la verità. Un rombo profondo, duro. E poi un altro e un altro ancora. Grida. Frastuono. Panico. Ai limiti temporali del suo campo visivo la gente fuggiva via. 

Il suo respiro andava spezzandosi appena, non riusciva a capire.

«Sì, okay. Ma mica mi hanno sparato, ho battuto la testa, no?».

«Davvero non vuoi chiedermi di nessuno?».

Torta di mele. «Ridicolo, a me neanche piace la torta di mele».

Ed evidentemente si era accorto solo quando Bokuto l'aveva guardato con gli occhi larghi, che l'aveva detto ad alta voce e che di certo questa non era una risposta valida alla sua domanda.

«Ah, non farci caso, straparlo».

 

Quando Kuroo si era coricato, quella stessa sera, Bokuto era sgattaiolato in cucina, mentre Akaashi stava finendo di pulire il casino che quei due avevano lasciato per preparare i pop corn.

C'era stata una lunga occhiata: Akaashi sapeva dove voleva andare a parare il compagno, con quella faccia da schiaffi. Era riuscito ad interrompere quel momento poco prima, informandoli che la cena era pronta. Il discorso era caduto lì, ma di sicuro Kotaro voleva tornare ancora all'attacco. E Keiji non poteva permettere che un discorso simile si protraesse oltre, soprattutto perché il loro amico era nell'altra stanza.

D'altrocanto, però, non poteva fargliene una colpa, anzi. Bokuto era ingenuo come un bambino, e Akaashi poteva capire la sua posizione, ma non poteva condividerla più di tanto. Se Kuroo-san era arrivato a quel punto, dovevano aiutarlo, sì, ma magari il meglio per lui era non ricordare. Meglio, rimuovere.  

«Lo vedi, avevo ragione? Si ricorda. È giusto che sappia».

«No, Ko. Devi dargli tempo».

«Perché?! Ha detto».

«Lo so cosa ha detto, ma devi dargli tempo. Ho sentito anche io e no, non si ricorda».

«Come fai a dire di no?».

«Perché è così, Ko: ha bofonchiato qualcosa, e ha dato la colpa al suo cervello, ai suoi medicinali».

«Se mi avessi dato modo... avrei potuto».

«Devi dargli tempo. Devi permettergli di guarire».

«Quanto ancora? È quasi un mese che sta a casa nostra...».

«Non lo so. E certo un giorno dovrà tornare a casa sua, non che mi dispiaccia averlo qui, eh... ma dovrà tornare autonomo e certo se continui a rimbeccarlo con quella domanda non lo aiuti».

Bokuto era stato in silenzio per un minuto intero. E non era certo una cosa usuale, visto e considerato quanto poteva essere rumoroso lui, e quanto non perdesse tempo prezioso a pensare. Keiji probabilmente aveva detto troppo, aveva esagerato. Però forse era riuscito a far cadere la questione.

Ma poi l'aveva guardato, l'espressione greve.

«Io vorrei sapere, ecco. Se mi fracassassi il cranio e... insomma lui troverebbe il modo per darmi una svegliata».

«Se il suo cervello ha deciso di fargli dimenticare... è un meccanismo di difesa. Quando sarà pronto ricorderà».

«E se non dovesse farlo?».

 

 

 

Era per strada.

Finalmente era rientrato nel suo appartamento. Per quanto gli piacesse stare con Bokuto,  era necessario che tornasse a vivere da solo, riprendere a vivere dopo il risveglio. Anche perché probabilmente Akaashi cominciava a reputarlo una presenza ingombrante nella loro vita di coppia, e dopo tre mesi a casa loro non poteva non dargliene atto.

Stava tornando a casa dalla palestra.

Era in mezzo alla gente quando l'aveva sentito. L'odore di torta di mele, l'odore della torta di mele che comprava per lui.

Lui.

Kenma.

Il suo cuore aveva cominciato a battere forte, forte. L'aria non riusciva ad entrare nei polmoni.

E nella sua testa rimbombava il suo nome.

Kenma. Kenma. Kenma.

Cannella. Burro. Zucchero di canna appena bruciato.  

La punta del suo naso coperta di zucchero a velo.

L'odore dei suoi capelli, quando stava in braccio a lui, mentre giocava a... come si chiamava il suo videogioco preferito? I suo respiro andava spezzandosi mentre l'odore dell'asfalto bagnato stava spazzando via il profumo leggero e familiare. Troppo dolce.

Il modo si rannicchiava nel letto, quando cercava di svegliarlo e proprio non voleva saperne di uscire di casa.

Le sue labbra. Quella volta, il loro bacio. Il primo. E il capogiro che quelle sue labbra morbide gli avevano provocato. Il suo cuore batteva forte, quella volta, come stavolta. Ma l'emozione era diversa. Stavolta il fiato gli si spezzava in bocca, e nessuno cercava di accogliere le sue labbra. Stavolta, era panico.

La stanchezza, quella volta. Quando l'unica cosa che si sentiva, nel buio della sua stanza al college era il suo respiro leggero. E il suo calore sotto il suo braccio. Le sue gambe le sentiva di nuovo, ed era importante che le sentisse, perché doveva impegnarsi a rimanere in piedi.

Erano bambini e lui si abbuffava della torta di mele che preparava sua madre. E non ci voleva il gelato, perché la vaniglia non faceva sentire il sapore della pasta frolla.

L'allenamento della mattina, che era il più difficile, perché a lui già non andava giù allenarsi così duramente, poi soprattutto di mattina, perché era un pelandrone.

Il primo punto che avevano fatto in campo in un'azione combinata.

Gli scatoloni che avevano portato a casa. Nella loro prima casa.

Le notti languide in quella casa, quando fuori c'era un temporale e lui intrecciava le gambe alle sue, sotto le lenzuola.

Il suo cuore stava battendo ancora più forte, tanto che l'aria faceva fatica a superare la gola. Qualcuno gli aveva chiesto se si sentisse bene.

E poi L'ingresso al centro commerciale. La scala mobile davanti al negozio di videogame. 

«Non ci posso fare niente che il gioco è già sold out... però, ehi, tra poco avrai la tua torta di mele. Me lo fai un sorriso?».

La sua buffa smorfia di disappunto che era sparita solo un po'; che era qualcosa per cui lui avrebbe vissuto volentieri.

 

 

 

Aveva aperto la porta di casa con calma.

In quel momento, entrando, aveva davvero sentito l'assenza di Kenma in casa. Non c'era più niente di suo, ed era chiaro che Bokuto e Akaashi avessero fatto di tutto per evitare che stesse male. Evidentemente erano entrati in casa con le chiavi d'emergenza, avevano preso i suoi vestiti, i suoi videogiochi, il suo shampoo, la sua tazza gialla con la faccia di un gatto e le orecchie e tutte le foto, tutte tutte le cose che potessero ricordarglielo.

Probabilmente non le avevano buttate, non gli avrebbero fatto questo. E non era stata certo una cosa crudele da parte loro, poteva capirne i motivi e non poteva certo avercela con loro. Perché comunque, anche senza quelle cose, quello lì era l'appartamento pieno di scatoloni dei suoi ricordi, era la casa in cui avevano vissuto. E da ogni parte c'era Kenma. Ovunque.

Era tranquillo. Si era seduto a tavola, aveva preso la bottiglia che proprio non doveva aprire e aveva tolto il tappo.

Non era una scelta facile, quella che aveva preso. Soprattutto ora che era tornato a casa e che lo sentiva lì, comunque.

Aveva bevuto, un paio di lunghe sorsate col piglio dei bevitori forti. Ma la vodka liscia, calda per giunta, certo non era il massimo. E bruciava da morire mentre scendeva giù per la gola.

«Tra poco avrai la tua torta di mele. Me lo fai un sorriso?».

La sua buffa smorfia di disappunto era sparita solo un po'; che era qualcosa per cui lui avrebbe vissuto volentieri. E lo stava guardando, con uno dei suoi sorrisi molesti, mentre un forte frastuono aveva squarciato l'aria tranquilla.

Uno, due, tre colpi e via via sempre di più avevano spezzato la musica delicata che passavano gli altoparlanti del centro commerciale. Le grida della gente che fuggiva intorno a loro.

Aveva coperto la testa e aveva allungato la mano per aggrapparsi a Kenma. Aveva cercato di portarlo via da lì.

La sua mano era andata a vuoto.

Aveva preso un altro sorso e si era coperto gli occhi. Aveva cominciato a grattare l'etichetta decorata della bottiglia di vetro scadente. Doveva ricacciare via quel pensiero. Non era strano che il suo cervello avesse deciso di cancellare Kenma. Di spegnersi e di lasciarsi andare. Faceva male.

Kenma era a terra. Poggiato su un fianco. Possibile che un corpo tanto piccolo avesse al suo interno tutto quel sangue? Gli occhi spalancati, vuoti, spenti. L'espressione. Quell'espressione non gliel'aveva mai vista fare. E lo conosceva da sempre.

Poi c'era stato il buio.

 

Era tranquillo, come la notte quando gli dormiva accanto.

Si era fatto un bagno, si era asciugato i capelli senza perdere tempo a sistemarli alla solita maniera. Aveva preso un'altra sorsata dalla bottiglia, mentre aveva recuperato i due tubetti di ansiolitici e antidolorifici dall'armadietto dei medicinali sopra il lavandino. E si era avviato nella stanza da letto.

Aveva preso una buona manciata di pillole, e le aveva guardate per un istante.

Lo sapeva. Era arrivato il momento. Aveva inghiottito le pasticche con due sorsate di vodka e si era accucciato su un fianco. Il viso rivolto alla parete. Normalmente Kenma dormiva da quel lato del letto.

Aveva accarezzato il suo cuscino.

Aveva inalato a fondo, un lungo lungo respiro, e aveva socchiuso gli occhi.

Sorrideva.

 

 

 

 

 

Lui è un tipo mattiniero, non come Kenma che è un pelandrone.

È un tipo mattiniero e, se fosse un giorno lavorativo, a quest'ora starebbe già fuori, avrebbe già fatto la sua corsetta mattutina, sarebbe già sulla strada per andare a lavoro. Se fosse sabato, avrebbe comprato la colazione in quella pasticceria vicino alla sua palestra una fetta di torta di mele per lui, e una ciambella per sé, una tazza di caffé nero e una di caffellatte e sarebbe tornato a casa per fare colazione con lui.

Ma è domenica, oggi. È domenica e non ci può essere niente di meglio. 

È il giorno in cui si permette di poltrire un po'. È il giorno in cui gode della loro stupida quotidianità. È il giorno in cui può restare a letto e godersi quella luce timida che attraversa soffice la trama spessa delle tende della loro stanza, e supera la sua spalla e accarezza tremolante il profilo di Kenma, tutto appallottolato al suo fianco, il suo viso rivolto alla parete.

Si avvicina di più a Kenma e riduce quella che proprio non è definibile distanza tra i loro corpi. Intreccia le gambe alle sue e gli costella i capelli e la guancia di baci. E si gode il suo respiro leggero leggero, e il modo in cui si accoccola meglio nel suo abbraccio. È il momento più bello della mattina.

La calma dura poco. Perché gli soffia un bacio sul collo, che sembra più una pernacchia. E lui è dispettoso e molesto e vuole le sue coccole.

Kenma sbuffa e mugugna contrariato.

«Davvero non vuoi farmi dormire, eh?».

Vuole vederla quella sua smorfia, quella smorfia che gli basterebbe per vivere ogni giorno come nettare.

«Voglio due coccole».

«Ah, dormi un altro po'... le coccole dopo, rompiscatole».

Kuroo si allunga appena un po' su di lui, abbastanza da far passare la sua testa dal cuscino al suo braccio, per stringerlo meglio a sé.

Ecco, sì, non c’è niente di meglio.

Inala a fondo, socchiude gli occhi.

Sorride.

 

 


 

 

 

 

 

 

Salve a tutti, qui è una delle due entità malefiche che hanno partorito questa storia. Più precisamente sono il braccio, Madrinaaah, colei cioè che ha messo in pratica le idee malsane venute ieri davanti a una birra in un localino al centro di Roma, all'altra metà di questo account, Ecccarolina.

 

Nella realtà infatti io ho solo prestato le mani a questa storia che sì, ho scritto in totale autonomia mettendo solamente in pratica le idee di quell'altra pazza, e di mio qui c'è solo la torta di mele, da cui il titolo.

 

Non so se sia stato facile leggere, io normalmente non scrivo cose tanto brevi (se nove pagine siano brevi potete solo giudicarlo voi).

 

Spero che almeno la storia vi abbia suscitato qualcosa, qualcosa che vi spinga a commentare anche solo per mandarci a quel paese (che alla fine forse potremmo meritarcelo).

 

E niente, io... oddio sono almeno sei anni che non pubblico niente in generale per cui... insomma sono fuori forma, soprattutto con le conclusioni.

 

Detto ciò, vi saluto.

  
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