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Autore: callingonsatellites    02/09/2016    1 recensioni
L'aria fresca sulle braccia. Il sole che brucia negli occhi. Le gambe leggermente indolenzite, e una melodia sconosciuta che girava nella sua mente. Poi un forte dolore alla testa. E ora fissava quegli occhi color nocciola, e ogni domanda veniva annullata come se quei due pozzi scuri fossero l'unica cosa importante ed esistente, l'inizio e la fine di tutto.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Vi avviso che non ho riletto. Se trovate errori ... beh, sareste veramente zucchine dolci a segnalarmeli. ^3^ Detto ciò ... *sparisco*
 
Si alzò sbuffando.
Non aveva nessuna voglia di staccarsi dal suo morbido letto; ma d’altronde lei stessa aveva insistito per andare a scuola quella mattina.
Era stata dimessa dall’ospedale la mattina prima, con la sola raccomandazione di non muoversi troppo in fretta e non sforzare troppo gli occhi (cosa c’entrassero gli occhi con il suo incidente, non era dato saperlo ma … il laureato in medicina non era lei, quindi …). Insomma, niente di grave. Solo una brutta botta e un grosso spavento.
I suoi avevano insistito perché restasse praticamente incollata al divano, e la cosa le faceva anche piacere fino ad un certo punto, perché non doveva alzarsi nemmeno per prendersi un bicchiere d’acqua. Le mancava solo il monocolo e l’aria aristocratica, poi sarebbe stato perfetto. Del resto invece le dava un grosso fastidio; non era in fin di vita e riusciva benissimo a camminare e fare le cose come una normalissima diciassettenne. Forse un po’ tonta e lenta, ma non aveva nessun problema.
In compenso, aveva avuto tutto il tempo di finire tutti e sette i libri di Harry Potter che si era data di iniziare pochi mesi prima. Poteva inserirlo nel Guinness World Record, in effetti. A parte il fatto che c’erano persone che leggevano anche duecento libri in  tre mesi. Tipo Geraldine, la sua cugina dal nome antico e stranissimo, con gli occhiali rotondi e i denti in fuori. Che roba, adesso stava pure iniziando a pensare casualmente alle persone più lontane. Chissà, forse il secondo colpo le aveva fatto pure bene.
Aveva passato i tre giorni successivi all’incidente a leggere e chiacchierare –al telefono, di persona, via Skype, urlando fuori dalla finestra- con i Raga, che erano riusciti a farsi detestare da ogni singola persona del personale dell’ospedale, dalle infermiere ai chirurgi che passavano, i tre parassiti erano ormai noti per il loro ‘fare casino e disturbare la gente, parlare a voce troppo alta e ridere sguaiatamente’. Avevano evitato per un pelo di farsi strigliare da qualche agente di polizia; e lo avevano evitato travestendosi da infermieri –Georg e Gustav- e sgusciando fuori con una barella –sotto la quale era nascosto Tom- per poi buttarsi in mezzo ai cespugli. Tutto mentre qualche decina di infermieri cercavano di capire dove fossero finiti quei tre scapestrati. Tutt’altro discorso era invece il vocalist.
Diciamo che Bill –per quanto carino e coccoloso, dolce ed ubbidiente potesse dimostrarsi- non si era mai scollato dalla sedia della stanza, tanto che al terzo giorno aveva finito per stringere spasmodicamente lo schienale come se fosse la sua unica speranza di vita, mentre gli infermieri lo pregavano invano di lasciare la stanza. Nessuno si era dimostrato ostile con il piccolo panda dimagrito che presenziava nella stanza, anche se stava sulle scatole a parecchia gente. La tipica scena era: un medico entra nella stanza. Si rivolge gentilmente a Bill, chiedendogli se può uscire. Bill fa la faccia da pulcino che ha perso la mamma, seguito a ruota da Kim, e inizia a balbettare cose incomprensibili, il dottore cerca di calmarlo ma lui inizia a strillare e farsi salire le lacrime, dopo un po’ entrambi stanno praticamente frignando come bambini; fino a che il medico non li assicura che Bill può tranquillamente restare, che non c’è nessun problema; poi fa quello che deve fare e se ne va stizzito borbottando su come sono viziati i ragazzi di oggi. Appena la porta si richiude, i ragazzi iniziano a ridere come i forsennati, rotolandosi sul pavimento. Poi dipende, capita che se ne tornino ai loro posti sospirando di felicità, e capita che si girino di scatto trovandosi a meno di due centimetri di distanza; un ragazzo truccato come un panda con troppe cose che premono da dentro la sua testa che rischia di esplodere, pallido come un personaggio di Tim Burton nella sua casa grande e buia dove le persone si aggirano come fantasmi pretendendo severamente qualcosa da lui; e una ragazza con gli occhi verdi e i capelli blu, che al posto della memoria ha una grande scatola aperta, da cui le cose entrano ed escono e tornano e bruciano, senza che nessuno le tenga sotto controllo, che è probabilmente impazzita forte ma che nella sua casa grande e buia ospita tanti morti che sono però più vivaci e colorati dei vivi. Kim che viaggia cercando sé stessa con il suo seguito di scheletri colorati e festaioli e Bill che cerca di sopravvivere rimanendo aggrappato con le sue unghie smaltate e perfette al briciolo di sé stesso che il mondo non dovrà prendere.
Capita che i loro sguardi restino incatenati per ore, i vivi morenti che tendono la mano ai morti viventi, come in un’opera del più grande magnate dell’animazione macabre. Oppure capita che si voltino di scatto scappando l’uno dall’altra, come poli positivi di due calamite, schizzando ognuno al suo posto con il fiato corto, domandandosi con istinto quasi primordiale che cosa ci sia negli occhi dell’altro che attrae come le galassie potrebbero attrarre un astronomo che non ha avuto nulla dalla vita se non le sue stelle.
 
-Mangi qualcosa, vero?
 
-Sì, mamma. Tranquilla, non ho ancora tendenze anoressiche, puoi pure prepararmi qualcosa.
 
Non c’era nemmeno bisogno di dirlo. Caffèlatte e un paio di brioches  erano volati sul suo piatto, accompagnati dal sorriso premurosissimo di Karen e Michael, che se fossero rimasti così ancora un paio di secondi le loro facce si sarebbero strappate a metà. Bbblllll, che pensieri contorti.
 
-Preferisci  che tuo padre ti accompagni?
 
-No, prendo l’autobus come al solito.
 
La partenza per Liverpool –della quale alla fine non avevano potuto fare a meno di parlare, per pura iniziativa della stessa Kim, che aveva messo in chiaro che non avrebbe messo i bastoni tra le ruote alla vita lavorativa del padre per nessun motivo. Se doveva tornare in Inghilterra, così sarebbe stato, sarebbero partiti quanto prima e Magdeburgo sarebbe rimasta un ricordo, aveva chiarito di fronte alle facce basite dei genitori. Sarebbero tornati fra i loro conoscenti, dove si parlava la loro lingua e dove era giusto che stessero- era stata fissata per quel fine settimana, così Kim aveva ancora qualche giorno per fare il giro dei saluti, che, prometteva di continuo, non sarebbero stati addii.
 
-Torni?- le chiedevano, con gli occhi sbarrati, e lei rispondeva abbassando lo sguardo, con un sorriso sotto i baffi.
–Vedremo.
 
E poi, non poteva fare a meno di vedere Joey e Chris. E di sfottere un’ultima volta il prof di latino.
 
Quando scese dall’autobus, e percorse la breve distanza fra la fermata e l’ingresso del liceo, osservò con il naso per aria ogni singolo particolare del grigio paesaggio mattutino magdburghese, con i piccioni pigri che svolazzavano, gli studenti imbronciati che camminavano a testa bassa, e i vecchi che leggevano le disgrazie del giorno seduti sulle panchine con la vernice scrostata. Poi raggiunse le ragazze nel solito angolo imbucato del cortile.
 
-Hei- le salutò, come ogni mattina.
 
-Meh? Che hai fatto negli ultimi tre giorni?- fece con il solito tatto Chris.
 
-Potrei farvi la stessa domanda, visto che ve ne siete sparite lasciandomi a pisolare sul divano.
 
-Sembravi un angioletto, chi avrebbe avuto il coraggio di svegliarti?- ironizzò la più bassa.
 
-Pensavo che te ne fossi andata anche tu- si sorprese invece la rossa. –A dire il vero non sono stata a guardarmi troppo intorno quando ho tolto le ancore. Già era tanto se riuscivo a reggermi sui miei piedi- rifletté. –Tu invece dove cavolo eri?- chiese, rivolta a Christina, che –se possibile- sbiancò a quella domanda, per poi diventare rossa come una fragola matura.
 
-Non te ne frega- sibilò. Ebbero la buona idea di non tornare sul discorso.
 
-Piuttosto … è una cazzata da corridoio e te ne vai?- chiese di nuovo Joey.
 
-Eh, purtroppo no. Papà è stato richiamato alla sede di Liverpool, quindi … - alzò le spalle. –Torno a casa.
 
-Uh.
 
-E non ti dispiace nemmeno un po’?
 
-Sarebbe una grossa cazzata dire che non mi dispiace. Insomma, che cavolo me ne frega dell’Inghilterra. Dopo l’incidente non mi ricordo niente, e non mi sono sforzata per farlo. Però se bisogna farlo lo si fa.
 
-Ma senti che discorsetto da ragazza responsabile.
 
La campanella trillò, e tutti si diressero nella propria classe.
 
#
 
Stava di nuovo camminando, aveva salutato le ragazze, aveva fatto incazzare il prof di latino e aveva tirato frecciatine a Gertrude. Quel giorno usciva dal liceo sorridendo.
Ogni tanto si fermava a ridere, perché Chris si era rifiutata di abbracciarla, limitandosi ad una stretta di mano e ad un cenno con la testa, quasi come un saluto militare. Come un piccolo, piccolissimo generale goth che congedava un soldato che aveva fatto un buon lavoro. Joey, al contrario, le si era appesa addosso come una sanguisuga e si era lagnata che le sarebbe mancata tantissimo, e che l’avrebbe odiata e le avrebbe spedito una bomba se non l’avesse chiamata almeno una volta a settimana. Ovviamente si era fatta dare il suo indirizzo a Liverpool.
Quando, con l’aiuto di Chris, era riuscita a staccarsela di dosso, era in ritardo per l’autobus. Infatti, appena arrivata alla fermata, senza fiato, quello se ne era già ripartito.
Era rimasta qualche istante con la bocca aperta e il respiro a metà, a fissare il culo del pullman che si allontanava. Avrebbe dovuto farsi mezza Mag a piedi, ed era ora di pranzo. Quindi, avrebbe dovuto farsi mezza Mag a piedi, nell’ora di punta, con lo stomaco che si contorceva per la fame e minacciava di digerirsi da solo.
 
-Alla signorina serve un passaggio?
 
Si era voltata in preda allo spavento, al suono di quella voce vagamente familiare. E si era trovata di fronte tre ragazzotti con gli occhiali da sole e ciuffi di capelli in faccia, che sorridevano manco fossero nella pubblicità di un dentifricio.
 
-Dejà vù, eh?- aveva ironizzato, una volta capito chi si trovava di fronte. –Non credo che potremo saltare sopra un camion in pieno giorno.
 
-Beh, non giriamo mica solo di notte- aveva borbottato Schweit, riconoscibile per la zazzera bionda sotto il cappellino con il logo di Superman. –Tu Sali con Fried- aveva poi esclamato allegramente, indicando un paio di Vespe con la vernice scrostata dietro di loro.
 
-Ma siete sicuri che non ci mollino in mezzo alla strada? Insomma … quanti anni avranno quegli affari?
 
-Meredith è più affidabile del cemento armato. In fondo ha solo quindici anni!- aveva raccontato sorridente, mentre saltava sul seggiolino scricchiolante del motorino.
 
-Sarà … ma almeno ce l’avete un casco, vero?
 
-E a che serve, scusa? Imbottigliata com’è la strada, non c’è pericolo di fare incidenti, è già tanto se riusciremo ad andare a trenta all’ora. E poi con tutti quei capelli che hai! Se vuoi posso darti un cappello. Ma non so se lo stile un po’ hipster ti piace- aveva sentenziato Miles, tirando fuori un cappello nero da Dio solo sa dove.
 
-Ah. E quello da dove l’hai preso?
 
-Questo è mio, e viene dalla mia personale collezione di cappelli. Solo che con la nuova tinta non ci sta, quindi posso anche buttarlo giù da un ponte.
 
-Ma non è che il nero sta con tutto? … insomma, ne so poco di moda. Ma di questo sono sicura- fece lei, occhieggiando la pettinatura verde scuro dell’inglese.
 
-Sarà, ma non mi piace. E poi questi trogloditi dicono che è da donna. Voi con i vostri cappelletti da baseball, non capite un cavolo- borbottò, mentre saliva sul posto del passeggero dietro a Schweit, che nel frattempo aveva messo in moto.
 
Kim era ancora indecisa se fidarsi di quel rottame o no, ma d’altronde l’alternativa non era allettante. Quindi si sistemò alla meglio dietro a Fried, che scuoteva la testa e guardava il cielo sorridendo, mentre l’altro continuava a parlare di quanto fossero degli zoticoni senza buon gusto.
 
-A cosa stai pensando?- le chiese infine, una volta partiti, parlando un po’ più forte sopra il rumore dell’aria.
 
-Non so se ti va di saperlo- rispose lei, sempre gridando.
 
-Nel senso che non è il caso di parlarne su una Vespa scassata in mezzo al traffico di mezzogiorno?
 
-Esattamente.
 
-Allora mi prometti che dopo me lo dici. O è un segreto?- continuò lui, dal tono si capiva che stava sorridendo.
 
-No, dopo ve lo spiego- acconsentì alla fine.
 
-Allora è qualcosa di grosso!
 
-Uhm, diciamo di sì.
 
Proseguirono il viaggio in relativo silenzio, relativo perché mentre loro due ridevano sotto i baffi, Miles e Schweit stavano litigando su come si dovrebbe vestire un ragazzo stando alla moda ma senza sembrare una drag queen.
 
-Perché mi viene da pensare al tuo amico?- intervenne ad un certo punto Fried.
 
-Chi, Bill?
 
-Sì, lui- continuò.
 
-Nel senso che sembra una drag queen?
 
-Beh, insomma! …
 
-Senti Wanda, tu non sei molto più mascolino- intervenne Schweit.
 
-Parla quello alto mezza sega e tre mele marce- lo zittì l’altro.
 
-Senti Louis Vitton, tu e i tuoi capelli verdi e i tuoi cappelli da donna …
 
-Sono da hipster, non da donna!- protestò.
 
-Appunto, per colpa dei tuoi cappelli da donna rischiamo di schiantarci contro qualche pensionata con tutto questo blaterare!
 
-Però eri d’accordo sul fatto che non servisse procurarsi dei caschi!
 
-Oh, al diavolo- sbraitò il biondo alto mezza sega e tre mele marce, mettendo fine alla discussione fra i due.
 
-Comunque non è vero che Bill sembra una drag queen. È solo … particolare!- esclamò, mentre schivavano per un pelo una coppia di ragazzi che stavano per attraversare. O forse erano due ragazze … fatto sta che una era mora e l’altra bionda. No, aspetta …
 
-Chi diavolo erano quei due lì? Cristo, stavo per andargli addosso.
 
-Beh … - borbottò Kim, mentre si girava e alzava le spalle in un’espressione di scuse ai gemelli che la fissavano con gli occhi fuori dalle orbite, leggermente piegati in avanti. Si ripromise che li avrebbe chiamati, se mai fosse arrivata sana e salva a casa. Poi sparirono dalla vista.
 
#
 
-Eccoci qui! Sani e salvi!- annunciò Schweit una volta arrivati sotto al condominio giallo pallido. Inchiodò davanti al cancelletto.
 
-Ma porco quarantaquattro- fece Fried, fermandosi in tempo prima di piantarglisi dritto dritto sulla ruota posteriore.
 
-Non ce lo offri il pranzo, vero?- si lagnò poi il biondo.
 
-Che domande, lei è inglese. Gli inglesi sono raffinati, non ospitano in casa gli zotici sciattoni come te- borbottò Miles. Si vedeva che era ancora arrabbiato.
 
-Grazie del passaggio, ragazzi- intervenne Kim, che nel frattempo era scesa dalla Vespa e se ne stava tranquillamente andando, mentre loro avevano ricominciato a bisticciare.
 
-UH?
 
-AH?
 
-Ci vediamo più tardi?- chiese tranquillo Fried.
 
-Puoi scommetterci- acconsentì lei prima di lasciarli fuori e salire allegramente le scale.
 
-Ma … il mio cappello!
 
-Meglio che se lo tenga lei, fidati.
 
-Cosa stai insinuando?
 
-Vi prego, smettetela o giuro che vi taglio le gomme e vi lascio qui- si lamentò esasperato Fried.
 
-Non ne saresti capace- sentenziarono i due in coro.
 
-Uff. Vi prego, muoviamoci.
 
#
 
-Quindi?
 
Adesso stava seduta di fronte allo stesso muro dell’altra volta, di fianco a Fried, e guardava Christoph che pastrocchiava i suddetti mattoni.
 
-Beh, è una faccenda un po’ complicata. Tu sai che sono inglese.
 
Quello rispose con un ‘sì’ ambiguo, prolungando la vocale per spingerla ad andare avanti.
 
-Insomma, per dirla senza fronzoli, l’azienda per cui lavora mio padre ha sedi più o meno ovunque. Eravamo venuti qui perché a Liverpool c’era stato un incidente e non ci si poteva più stare, fondamentalmente.
 
-E adesso hanno messo a posto il casino e vi hanno detto di tornare.
 
-Ma guarda un po’ il piccolo genio!
 
-No, niente complimenti per lui, che poi lo metti in imbarazzo- intervenne Albert.
 
-E tu da dove vieni?
 
-Direttamente dall’Inferno, muahahaha.
 
-Non c’è da sorprendersi.
 
-Ehi. Guarda che lo prendo come un complimento.
 
-Beato te.
 
Nel frattempo Miles aveva raggiunto il gruppo. –Maaa … - si era infilato nella conversazione. –Quindi ho capito bene? Torni a casuccia?
 
-Eh, sì. Mi dispiace …- attaccò Kim, con tutta l’intenzione di fare un bel discorso commemorativo da ridurre tutti in lacrime.
 
-È OVVIO CHE TI DISPIACE!- esclamò Christoph, voltandosi improvvisamente. –Lasciarci così, abbandonati a noi stessi! Vorrei vedere a chi non dispiacerebbe.
 
-Nah, l’Inghilterra è molto più bella di qui. Molto più elegante e trendy di voi tedeschi zotici- sentenziò Miles.
 
-OH CRISTO- si lagnò Schweit, che era rimasto in silenzio a meditare sul senso della vita fino a quel momento.
 
-Ce l’ha ancora per quella storia?- chiese incredulo Fried.
 
-Senti denti-gialli- fece Cristoph tornando ai suoi scarabocchi. –Da quando sei navigato sull’altra sponda?
 
-Che io sia alla moda non significa che io sia gay. Che poi che te ne frega? Se fossi gay non saresti più mio amico?! … - strillò.
 
-Vi prego, fermatelo prima che cominci uno dei suoi discorsi filosofici sull’omofobia- disse Albert, voltandosi dall’altra parte. Così, mentre Miles marciava avanti e indietro per il vicolo brandendo la sua bandierina arcobaleno, i ragazzi ricominciarono a parlare.
 
-E cosa pensi di fare una volta lì? …
 
-Mah. Non saprei. So che mi annoierò a morte per due anni, perché sarò in mezzo ad un sacco di gente di cui non ricordo niente, che mi assillerà da mattina a sera con un sacco di domande tipo ‘com’era la Germania?’ ‘è vero che conosci i gemelli Kaulitz?’ e ‘ti ricordi di me, vero?’ …
 
Cristoph rise sguaiatamente, tenendosi le mani sulla pancia. –Allora felice soggiorno! …
 
-Perché ‘per due anni’?- chiese invece Fried.
 
-Perché … - abbassò gli occhi e fece un sorriso malizioso. –State bene attenti, perché siete gli unici a cui lo dico …
 
Tutti, Miles compreso, si avvicinarono per sentire il suo piano malefico.
 
#
 
-Pronto?
 
-Pronto? Kim?
 
-Sì, sono io.
 
-Ah, ciao.
 
Attimo di silenzio …
 
-Scommetto che non stai nella pelle dal sapere cosa facevo questa mattina su una Vespa scassata in centro a Magdeburgo accompagnata da tre matti da legare …
 
-Beh, ci hai visto giusto- sorrise Bill all’altro capo.
 
-Ho semplicemente perso l’autobus, con i saluti a destra e manca …
 
-AH. Ma quindi sono sempre loro! …
 
-Esatto. Vedi? … secondo me quei ragazzi si sono messi d’accordo con l’autista.
 
-Può darsi. Anche se non vedo chi dovrebbe guadagnarci. Boh, noi tedeschi siamo strani.
 
-E zoticoni, a detta di quello con i capelli verdi.
 
-Ah, quello che urlava? …
 
-Sì- soffocò una risata al pensiero.
 
-Beh, io non sono zoticone. Non come Tom, almeno- la protesta di Tom si sentì chiara in sottofondo.
 
-Credo che siano d’accordo … si ricordano di te.
 
-Ah, fantastico.
 
Altro istante silenzioso …
 
-Ma quindi te ne vai? … - chiese incerto Bill dopo un po’.
 
-Sì- sospirò lei. Pensarlo non era difficile … ma dirlo, alla persona che più di tutte sapeva che ci sarebbe rimasta male, le chiudeva la bocca dello stomaco.
 
-…ah. E quando posso venire a salutarti? …
 
‘Qui, subito, adesso anche se questi trenta metri quadrati di appartamento sono peggio di un bazar a cielo aperto, mia madre è isterica e siccome i miei vestiti sono in fondo alla valigia ho addosso gli stessi jeans da ieri, tu puoi venire qui in questo preciso momento se vuoi, e …’ –Fra un paio di giorni in aeroporto, credo. A meno che mia madre non decida di darmi qualche oretta libera … siamo praticamente impiantati in mezzo al trasloco… eh, eh- al telefono suonava come una risata triste, ma chi avesse visto la faccia di Kim avrebbe notato una certa somiglianza con il ghigno straziato di un cantante che urla una canzone drammatica.
 
-Eh … ti capisco- fece il ragazzo all’altro capo, perché capiva perfettamente due cose: primo, la situazione frenetica in cui si trovava in quel momento, con la polvere che galleggia per casa, mutande e calzini ovunque e un paio di genitori isterici; secondo, quanto avesse voglia di uscire anche spaccando il muro se necessario e fiondarsi fra le sue braccia e non staccarsi mai. Necessità perfettamente condivisa.
-Allora ci vediamo … presto.
 
-Presto … ciao, Kim- lui fece per riattaccare.
 
-Uh, Bill- lo interruppe lei.
 
-Sì?...
 
-Ti voglio bene.
 
-E ti mancherò, giusto?
 
-Mi hai rubato le parole di bocca, eh … eh …
 
-Allora te le rigiro da parte di tutta la band.
 
Kim sorrise. Le sarebbero mancati sul serio. Riattaccò.
 
 
 
No, non ve lo dico il piano malefico. Lo conoscere il prossimo-prossimo capitolo, che sarà anche l’ultimo. Quindi preparatevi psicologicamente. @_@
Avvertenza: i riferimenti a cantanti che cantano canzoni drammatiche con ghigni straziati non riguardano in NESSUN MODO Helena dei MCR. Noohh. Ma come potete anche solo averlo pensato. –consiglio per i Killjoys. Cercate il mashup Photograph of Helena, perché è tipo una strafigata. Vi avverto che (sarò strana io) ma me lo ascolto sempre con il magone, crispio)-
Baci a tutti Fairly Locals. :****        …e grazie ancora per resistere a questo sclero. La prossima pubblicazione sarà per One Story, che sono un attimo indietro. °-°  Ciaoooooo-oh-oh-oh-oh-ooooh.            Lisa^^
   
 
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